mercoledì 11 agosto 2010
Amburgo e la moschea
Al numero 103 di via Steindamm, ad Amburgo, la magistratura ieri ha messo i sigilli alla “moschea dell’11 settembre”, frequentata dagli attentatori alle Torri gemelle di New York. La storia del reclutamento e della vocazione terroristica si ripete attorno a uno dei simboli dell’11 settembre, nella città tedesca con la più alta percentuale di immigrati musulmani. Nella moschea, che poteva ospitare al massimo un centinaio di persone, si riunivano Mohamed Atta e altri due attentatori, Marwan Al Shehhi e Ziad Jarrah. La polizia dice che ora nello stesso luogo si riuniva un’altra cellula di aspiranti kamikaze e guerriglieri. Una cellula di undici militanti che hanno partecipato a campi di addestramento in Uzbekistan. Molti di loro erano convertiti all’islam, attratti dalla fama della moschea. La chiusura del luogo di culto ci dice come il jihadismo sfrutti il torpore multiculturale. La moschea si trova in uno scantinato, sotto la palestra “Olympic Fitness und Bodybuilding Club”, in una strada piena di birrerie, rivendite di salsicce, localini a luci rosse e pornoshop, frequentata da immigrati alla ricerca di sesso a buon mercato. Costruita lì per mimetizzarsi in un quartiere di vecchie case in mattoni rossi. Anonima, apparentemente integrata. Dopo l’11 settembre, l’assalto terroristico all’occidente si è sempre nascosto dentro a un anonimo scantinato nelle periferie europee. Le nostre città hanno troppi scantinati che distrattamente possono trasformarsi in fabbriche di jihadisti.
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