lunedì 16 agosto 2010

Eccesso di libertà


In Belgio Karima. In Germania Ahmad Mansour. In Svezia Nima Dervish e Sara Mohammad. In Gran Bretagna Jasvinder Sanghera. In Italia Souad Sbai e Loredana Gemelli. Nomi ignoti alla maggior parte degli europei, ma che dovrebbero invece godere di molta più visibilità perché corrispondono a uomini e donne, età media trentacinque anni, di origini diverse, che in Europa sono impegnati attivamente nella lotta contro i cosiddetti delitti d’onore. Sono l’espressione più tangibile di un’emergenza che sempre più riguarda l’Occidente. Un recente studio sui delitti d’onore commessi nel mondo tra il 1989 e il 2009 della ricercatrice americana Phyllis Chesler mostra che il 58 per cento delle vittime sono state uccise perché “troppo occidentalizzate” e per avere opposto resistenza alla tradizione culturale e/o religiosa. L’accusa di essere “troppo occidentalizzate” ricorre in tutte le deposizioni degli omicidi. Significa essere troppo indipendenti, non sufficientemente sottomesse, rifiutarsi di vestire in modo “islamicamente corretto”, voler proseguire gli studi oppure aspirare a una carriera lavorativa, avere fidanzati non musulmani, rifiutare di sposare un cugino o un marito scelto dalla famiglia. Dallo studio della Chesler emerge che l’accusa riguarda il 91 per cento delle vittime in Nord America, il 71 per cento in Europa, mentre solo il 43 per cento nel mondo islamico.

Un rapporto presentato al Consiglio d’Europa l’8 giugno 2009 ribadiva l’allarme e invitava i governi europei a emettere una legislazione volta ad arginare questa pratica che viola ogni diritto umano. Si leggeva: «Tutte le forme di violenza contro le donne e ragazze in nome di codici d’onore tradizionali sono considerate “delitti d’onore” e costituiscono una seria violazione dei diritti umani fondamentali. Nessuna tradizione o cultura può invocare nessun genere di onore per violare i diritti fondamentali delle donne. Inoltre negli ultimi vent’anni, i cosiddetti delitti d’onore sono diventati sempre più frequenti in Europa, in particolar modo in Francia, Svezia, Paesi Bassi, Germania, Regno Unito e Turchia». Non è un caso che in Europa stiano aumentando le associazioni e le persone che lottano contro questa calamità. In Belgio Karima, trentaquattrenne di origine marocchina, autrice del volume autobiografico Non sottomessa e non velata, ha fondato l’associazione omonima che si occupa di chi come lei ha dovuto lottare contro la propria famiglia che la voleva portare a un matrimonio forzato e che è stata sul punto di essere uccisa. L’associazione nasce perché come afferma Karima nell’ultima pagina del suo libro «posso perdonare, ma dimenticare, quello no, è impossibile…». Quando parla della sua associazione sottolinea che le persone che si rivolgono a lei non sono solo donne, ma anche uomini. Di recente ha anche attivato un numero verde di sostegno alle ragazze immigrate che stanno vivendo l’esperienza che lei, minuta, ma forte donna, ha coraggiosamente superato.

La strada dell’integrazione. In Germania l’operato di Ahmad Mansour, trentaquattrenne arabo-israeliano, si concentra più sull’aspetto formativo. A Berlino ha avviato il progetto “Heroes” che promuove un’azione educativa contro l’oppressione in nome dell’onore. Ahmad sta raccogliendo intorno a sé giovani tedeschi e immigrati di seconda generazione, organizza seminari per le famiglie musulmane al fine di trasmettere i valori universali, l’importanza di essere in primis cittadini tedeschi e poi musulmani, per creare quindi le basi per un’evoluzione culturale che conduca alla diminuzione delle efferatezze in nome di un presunto onore. In Svezia il giornalista Nima Dervish, trentaseienne di origine iraniana, e l’attivista Sara Mohammad, originaria del Kurdistan iracheno portano avanti su fronti diversi la stessa battaglia. Nima ha pubblicato un volume in cui analizza tre casi di delitti d’onore in Svezia, intervistando per la prima volta gli assassini e nei suoi articoli pubblicati su uno dei più importanti quotidiani svedesi denuncia incessantemente ogni oppressione in nome dell’onore.

Sara, invece, è la presidente dell’organizzazione Mai dimenticare Pela e Fadime, due giovani immigrate in Svezia uccise dai padri perché volevano integrarsi nel paese che le aveva accolte. Sara in Iraq ha vissuto la stessa esperienza: picchiata e maltrattata perché si era rifiutata di sposare un uomo più anziano di lei. La Svezia l’ha accolta dopo la sua fuga dal Kurdistan. Anche lei come Mansour in Germania punta molto sull’educazione, soprattutto quella delle donne, in modo che diventino consapevoli dei loro diritti in Occidente. In Gran Bretagna Jasvinder Sanghera, di origine indiana, anche lei sopravvissuta a un matrimonio forzato e ad abusi in nome dell’onore, ha fondato nel 1993 l’Associazione Karma Nirvana con l’intento di creare un network tra le donne affinché possano superare insieme le barriere culturali e tradizionali. Di Jasvinder uscirà il 6 luglio in Italia Il sentiero dei sogni luminosi (Edizioni Piemme) in cui narra la storia della sorella Robina che si è suicidata dopo essere stata costretta a un matrimonio forzato.

È evidente che in Europa qualcosa si sta muovendo, e che a piccoli passi la situazione sta migliorando. Anche in Italia la pena comminata al padre di Sanaa Dafani, l’ultima vittima di un delitto d’onore nel nostro paese, è stata esemplare: ergastolo in un processo per direttissima. Questo è avvenuto grazie all’impegno dell’onorevole Souad Sbai e alla bravura dell’avvocato Loredana Gemelli, che era stata avvocato di parte civile anche nel processo di Hina Saleem a Brescia. Devianze inammissibili. In linea con le raccomandazioni del già citato rapporto al Consiglio d’Europa è la proposta di legge dell’onorevole Sbai del 24 febbraio scorso volta alla modifica dell’articolo 61 del codice penale in materia di circostanza aggravante per i reati commessi per ragioni o consuetudini etniche, religiose o culturali.

Al termine della proposta di legge si rimarca: «Con la presente proposta di legge si vuole scongiurare il ripetersi di simili casi processuali in cui, riconoscendo discriminanti non codificate, legate al rispetto della fede islamica (o alle radici religiose) del reo o al suo vissuto etnico religioso e culturale, quasi si ammettono e giustificano condotte criminose, in nome di princìpi di eugenetica o di leggi estranei al nostro Stato sociale e al nostro sistema ordinamentale, e si concedono riduzioni di pena, in violazione dell’articolo 3 della Costituzionequindi del principio per cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione e opinioni politichenonché dell’articolo 3 del codice penale, che stabilisce l’obbligatorietà della legge penale. Devianze inammissibili che vengono, nei predetti casi, addirittura ricollegate alla vulnerabilità genetica, sommata alla necessità di coniugare il rispetto della fede islamica integralista, mescolando contesto etico e genetico, per calcolare la pena. Questo non deve accadere: tali condotte criminose devono essere soggette a pene più pesanti e non devono essere edulcorate, come segno di civiltà e di dignità, di rispetto della persona umana e, ancora di più, della Costituzione e delle leggi del nostro Paese, nonché in attuazione del principio del giusto processo».

È evidente che Karima, Ahmad, Nima, Sara, Jasvinder hanno bisogno del supporto di leggi come la presente e di governi consapevoli di questo pericoloso crimine. Sarebbe auspicabile che, anche a livello europeo, venissero adottate iniziative a sostegno di queste persone e di tutti quegli operatori sociali che molto spesso non hanno strumenti né materiali né culturali per svolgere a dovere la loro preziosa funzione.

(Tratto da Tempi)

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