lunedì 6 febbraio 2012
Re giorgio, Berlusconi e Monti
L’esame comparativo tra quello che sarebbe stato il decreto-sviluppo del governo Berlusconi, predisposto dagli allora ministri Romani, Brunetta e Calderoli, e i primi tre decreti-legge del governo Monti ci dà la possibilità di fare una serie di considerazioni di carattere politico e costituzionale. Com’è noto, infatti, il decreto Romani-Brunetta-Calderoli non fu approvato nel Consiglio dei ministri del 2 novembre 2011 perché il Quirinale aveva informalmente manifestato la propria indisponibilità a emanarlo, considerandolo privo dei requisiti di necessità e urgenza e di omogeneità richiesti, secondo l’interpretazione costituzionale più volte richiamata dallo stesso Capo dello Stato, in particolare nel caso della lettera inviata a Berlusconi sul «caso Englaro» del 6 febbraio 2009 e in successive occasioni. Sul punto però è necessario fare chiarezza. Le obiezioni all’uso della decretazione d’urgenza sono state tradizionalmente fondate su varie ragioni: l’uso quantitativamente eccessivo di tale strumento, la conseguente mortificazione del ruolo del Parlamento, l’introduzione nei decreti-legge di misure a carattere ordinamentale (e dunque prive dei presupposti della necessità e urgenza), la disomogeneità nell’oggetto dei decreti legge.
Ora da un esame dei primi mesi di attività del governo Monti risulta evidente che quest’ultimo non solo non si discosta, nella sua azione, dal trend tradizionale (confermato da governi di ogni colore) in tema di uso del decreto-legge, ma ne ha addirittura accentuato gli aspetti problematici. L’uso quantitativamente eccessivo dello strumento sembra, infatti, giustificarsi oggi, ancor meno che in passato, proprio per l’esistenza di una maggioranza parlamentare vastissima a sostegno del governo. Inoltre il Parlamento, soprattutto in una fase in cui l’esecutivo non è, nella sua composizione, diretta espressione delle forze partitiche, dovrebbe semmai avere un ruolo ancora più centrale, restando esso l’unico presidio della rappresentanza popolare suffragata dalle elezioni. Va poi aggiunto che i tre decreti-legge approvati dal governo Monti contengono numerosissime norme a carattere ordinamentale, in quanto rinviano frequentemente la propria concreta efficacia a provvedimenti successivi. Infine essi presentano una grande disomogeneità di oggetto, spesso superiore a quella eccepita per il decreto Romani-Brunetta-Calderoli.
C’è allora da domandarsi per quale motivo il presidente della Repubblica abbia operato una valutazione discrezionale così diametralmente diversa tra l’ultimo decreto del governo Berlusconi e i primi tre del governo Monti. Il decreto-legge Romani-Brunetta-Calderoli, infatti, presentava, come si può ben vedere dalla tabella e dalla puntuale analisi comparativa effettuata, un numero di norme a carattere ordinamentale minore di quelle dei successivi decreti Monti, così come aveva caratteri certamente meno disomogenei, quanto agli oggetti, di quelli adottati dal nuovo esecutivo. Dal punto di vista quantitativo il confronto è stato fatto tra i 100 articoli, scritti in 52.329 parole, del decreto Romani-Brunetta-Calderoli e i 200 articoli, scritti in 102.582 parole, dei tre decreti Monti. Dal punto di vista qualitativo le materie possono aggregarsi, in entrambi i casi, in 15 macroclassi. Pertanto da una sovrapposizione quanti-qualitativa, come dimostrano i grafici, emerge una corrispondenza del 50% sia di materie che di contenuti e di un ulteriore 20% di materie ma non di contenuti.
Tutto ciò non può non far riflettere sul ruolo discrezionale della presidenza della Repubblica in quel fatidico 2 novembre, e provoca il rammarico che, se adottate all’epoca, quelle misure avrebbero potuto evitare che la situazione politica ed economica precipitasse come poi è avvenuto. Ricordo tra l’altro che quel drammatico Consiglio dei ministri del 2 novembre 2011 si svolgeva alla vigilia del G-20 di Cannes nel quale si attendeva che il premier Berlusconi presentasse misure incisive per fronteggiare la crisi del debito italiano, attraverso precisi provvedimenti per lo sviluppo. L’impossibilità di adottare il decreto-legge Romani-Brunetta-Calderoli costrinse il governo a ripiegare su di un maxi-emendamento alla legge di stabilità, il quale però fu necessariamente depotenziato per il fatto che la natura di tale legge impediva di recuperare gran parte delle misure originariamente previste nella bozza di decreto. Resta l’orgoglio di poter dire che l’esecutivo di centro-destra ha fatto quanto in suo potere per affrontare la crisi, tant’è che moltissime delle misure allora progettate, dal 50 al 70%, sono state poi riprese dal successivo esecutivo. E che esse sarebbero state approvate molto tempo prima se ciò fosse stato consentito al governo Berlusconi. Ma così non fu.
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