mercoledì 21 luglio 2010
Ideologia islamica
Milano. Alice Schwarzer, rappresentante storica del movimento femminista tedesco, lo va dicendo da anni, che il burqa e il niqab non c’entrano nulla con la religione, sono strumenti politici, vessilli dell’ideologia fondamentalista islamica. La prima denuncia contro il regime dei mullah la fece, dalle pagine della sua rivista Emma, di ritorno da un viaggio in Iran, dove si era recata due settimane dopo l’avvento al potere dell’ayatollah Khomeini. Definì allora, e continua a definire oggi, il regime iraniano un regime nazista. Ora, a quel bersaglio che non ha mai smesso di attaccare, ne ha aggiunto un altro. Dalle pagine della Frankfurter Allgemeine, ieri Schwarzer ha lanciato una dura invettiva contro la sinistra “cosiddetta” democratica. L’occasione è stata la legge che vieta il burqa e il niqab in Francia. Entrata in vigore giustamente il 14 luglio, sottolinea Schwarzer, giorno nel quale la rivoluzione francese decretava “la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza” per tutta l’umanità. “Io ci aggiungerei anche la parola ‘sorellanza’ – dice – sentimento del quale questo mondo occidentale ha disperatamente bisogno”. L’attenzione della femminista si concentra anche sulle occidentali convertite. Scrive che in Francia una musulmana su tre è una convertita, e a loro i mariti devono l’ottenimento della cittadinanza. Cos’è successo a queste donne “cresciute in paesi dove le loro antenate hanno duramente combattuto per la parità? A muovere queste donne sono soprattutto la paura della libertà e della responsabilità, ma anche un masochismo tutto femminile”. Ancora più inquietante è la capacità della società occidentale a far finta di non vedere: “In Germania quasi tutti i mass media hanno scritto con una certa supponenza del dibattito sul velo condotto in Francia e della battaglia per imporne il divieto. Ci si chiedeva: i francesi non hanno altro a cui pensare? Quasi a dire (e alcuni l’hanno anche scritto): noi questo problema non ce l’abbiamo. Affermazione che mi lascia basita. E’ da molto tempo che ogni volta che passeggio per il centro di Colonia vedo almeno due o tre di queste donne imbacuccate dalla testa ai piedi, fagotti che corrono dietro ai loro maschi vestiti casual con jeans e camicia alla moda. Ditemi: per quanto tempo vogliamo ancora far finta di non vedere questo spettacolo di vero schiavismo?”. Schwarzer ce l’ha soprattutto con organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International, secondo le quali vietare il burqa finisce per stigmatizzare chi lo porta e calpestare i diritti umani; e ancora con i rappresentanti della sinistra europea, come la socialista Martine Aubry, convinta che con i divieti non si fa che aumentare l’isolamento di queste donne. “Come se potesse essere ancora più isolata di quel che non è già, la donna sotto il burqa”. E’ un tipo di paternalismo, scrive Schwarzer, non nuovo nella sinistra europea, mentre stupisce che proprio questa sinistra abbia lasciato completamente in mano alla destra, ai conservatori e anche ai populisti, la lotta contro l’islamizzazione. “I motivi di questo amore della sinistra per tutto quello che è straniero, un amore che può essere visto anche come l’altra faccia della xenofobia, sembrano molteplici. Vanno dall’indifferenza assoluta e dai sensi di colpa fino a una discriminazione di base, propria ai nipotini di Michel Foucault e Claude Lévi-Strauss. Perché proprio questi circoli hanno festeggiato a lungo l’offensiva dell’islamismo come ‘rivoluzione del popolo’. Foucault è stato uno dei primi e più convinti sostenitori della teocrazia iraniana”. Quanto tempo ci vorrà, torna a chiedere Schwarzer, per smetterla di non vedere questo esercito di donne che si aggirano tra di noi, invisibili e prive dei più elementari diritti? Schwarzer ricorda la filosofa Elisabeth Badinter, una delle pochissime voci levatesi dalla sinistra, che già durante il primo dibattito sul velo in Francia nel 1989 sosteneva che il velo aveva un’unica funzione, “velare e ottundere la ragione”. In questi ultimi mesi prima dell’approvazione del divieto, si era rivolta direttamente alle portatrici di burqa e niqab: “Ai vostri occhi siamo così spregevoli e impuri da dover evitare qualsiasi tipo di contatto, anche un sorriso accennato, con noi? Oppure usate gli strumenti della libertà democratica per abolire la libertà? E’ uno schiaffo in viso aperto a tutte le vostre sorelle che per quella libertà che voi tanto sprezzate rischiano la vita”.
Ora anche le donne ebree si mettono il burqa
Micalessin scrive : "Una differenza tra il culto del «niqab» e quello della «frumka» però c’è. Mentre nei paesi arabi e nelle comunità islamiche più integraliste gli uomini aderiscono di buon grado alla volontà femminile di scomparire sotto una veste nera in Israele i maschi ortodossi si guardano bene dall’avvallare la nuova tendenza". Nelle comunità islamiche integraliste non sono le donne a decidere di nascondersi sotto ad un burqa, ma sono gli uomini ad imporlo. E' sbagliato scrivere che essi 'aderiscono di buon grado'. Semmai sono le donne che aderiscono 'di buon grado', per non finire lapidate. C'è un aggettivo per definire le donne che si mettono il burqa per libera scelta : fanatiche.
A Kabul lo chiamano burqa, a Riad «niqba», a Gerusalemme «frumka», ma se non è zuppa è pan bagnato. Tra il mantello nero delle fondamentaliste islamiche e i sacchi a strati indossati dalle fanatiche ebree che da qualche anno girano per i quartieri ultraortodossi di Beit Shemesh e Mea Shearim cambia poco. Il «frumka» - come lo chiamano loro - ha la stessa funzione di «niqba» e «burqa». Deve garantire la modestia della donna, impedire agli sguardi impuri degli uomini di posarsi su di lei, lasciarla pura e incontaminata per il marito e Dio. E allora vai con i tendaggi. La «rabbanit» Bruria Keren, la discussa santona che qualche anno fa si propose come portabandiera della nuova tendenza non incontrava nessuno prima di essersi nascosta sotto dieci spesse gonne, sette lunghi mantelli, cinque fazzoletti annodati al mento e tre alla nuca. Il tutto corredato da una mascherina di stoffa da cui sbucavano solo gli occhi. La «rabbanit» di Beit Shemesh, la roccaforte dell’ortodossia ebraica alle porte di Gerusalemme, non durò molto. All’inizio del 2008, pochi mesi dopo la diffusione dello strampalato culto, la polizia l’arrestò accusandola di aver seviziato i dodici figli e di averli costretti a pratiche incestuose. La condanna a 4 anni inflitta alla santona del «frumka» non fermò le sue seguaci che continuarono a far proseliti. Oggi le «talebane ebree», come le ha battezzate la stampa israeliana, contano centinaia di adepti e imperversano in vari quartieri compreso Mea Shearim il cuore dell’ortodossia di Gerusalemme.
Una differenza tra il culto del «niqab» e quello della «frumka» però c’è. Mentre nei paesi arabi e nelle comunità islamiche più integraliste gli uomini aderiscono di buon grado alla volontà femminile di scomparire sotto una veste nera in Israele i maschi ortodossi si guardano bene dall’avvallare la nuova tendenza. Benché a Mea Shearim e nella stesa Beit Shemesh le ronde ortodosse impongano alle donne di usare bus separati e di vestirsi «con modestia» i sacchi ambulanti non sono né amati, né approvati. I primi a combattere la rivoluzione integralista sono gli ultraortodossi di sesso maschile. «Quelle donne erano delle povere pazze e noi l’abbiamo sempre saputo, ora le nostre impressioni sono state pienamente confermate fra un po’ quelle poverette la smetteranno di dedicarsi a quelle insane credenze» - dichiarò dopo l’arresto della Keren Shmuel Poppenheim portavoce di Eda Haredit, uno dei più intransigenti gruppi dell’ortodossia ebraica. Ma il proliferare dei sacchi ambulanti ha contraddetto le sue o previsioni e così «Eda Haredith» - un nome che significa «setta dei timorati» - ha deciso di portare la questione davanti ai rabbini della Corte di Giustizia la più alta istituzione del gruppo ortodosso.
La questione non è propriamente solo estetica. Da quando il numero delle affiliate si conta a centinaia la questione della «frumka» si è trasformata in un problema educativo. I figli, e soprattutto le figlie, delle seguaci di Bruria Keren spesso si ritrovano isolati dagli altri bambini e chiedono di non andare più a scuola. Una richiesta cui le madri - sostenitrici della necessità di un’educazione rigorosamente religiosa - sono spesso felici di acconsentire. Le figlie delle «ebree talebane» rischiano così - al pari delle bimbe dell’Afghanistan fondamentalista - di crescere senza aver mai messo piede in una scuola. Proprio per questo i rabbini della Setta dei Timorati potrebbero decretare l’inammissibilità della «frumka» e la messa al bando di tutte le sue adepte.
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2 commenti:
è un OT, ma hai letto questa notizia?da vomito.
http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo486904.shtml
Maria Luisa
Ahpperò, pur di andare contro la legiferazione del governo del Berluska sono disposti a scarcerare pedofili e stupratori. Poi quando le vittime (se si salveranno) diventeranno carnefici, i "membri" della consulta che hanno fatto tale orrore, che diranno? Io per prima cosa, andrei a cercare quei maiali che hanno deciso l'illegittimità degli articoli. Che schifo.
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