lunedì 19 luglio 2010
Inglesi e burqa
Londra contro Parigi: qui non vieteremo il velo delle islamiche
LONDRA — Vietare il burqa o il niqab in Gran Bretagna è impensabile. Lo ha detto ieri a chiare lettere il sottosegretario per l’Immigrazione Damian Green: «Sarebbe una decisione poco britannica. Contraria alle convenzioni di una società tollerante e basata sul rispetto reciproco». Londra, insomma, non ha alcuna intenzione di seguire l'esempio di Parigi che nei giorni scorsi ha approvato a grande maggioranza una legge che proibisce alle donne di andare in giro con il volto coperto. «La cultura francese è molto diversa dalla nostra — ha spiegato Green —. Loro sono uno Stato secolare aggressivo. Vietano il burqa, i crocifissi nelle scuole e cose del genere. Io penso che non si possa dire ai cittadini cosa possono o non possono indossare quando camminano per la strada».
Questione chiusa? Non proprio. Cresce nel Paese il numero delle persone contrarie all' uso del velo integrale. Un sondaggio, condotto la settimana scorsa da YouGov, rivela che il 67% degli elettori vorrebbe la messa al bando del burqa esattamente come in Francia o in Belgio. A guidare la protesta è il tory Philip Hollobone che il 3 dicembre prossimo presenterà in Parlamento un suo disegno di legge nonostante la contrarietà del governo. Il deputato ha anche dichiarato che non permetterà più alle donne velate di partecipare agli incontri nella sua circoscrizione, a Kettering. Totalmente d'accordo i rappresentanti della formazione di destra Ukip che da tempo invocano una legge in merito.
La mobilitazione ha allarmato la comunità islamica (più di due milioni e mezzo di persone). Ieri il nuovo capo del Consiglio musulmano britannico Farooq Murad si è sentito in dovere di lodare la Gran Bretagna per la libertà che concede ai suoi cittadini: «Qui siamo i benvenuti come in nessun altro Paese europeo — ha detto — guardiamo orgogliosi i tribunali islamici, la crescita delle moschee e il fatto che sono sempre più numerose le persone che mangiano carne halal». Qualsiasi tentativo di limitare questa libertà, ha però sottolineato Murad, «per esempio vietando il velo o la costruzione dei minareti» metterebbe a rischio la coesione sociale.
Nel 2006 era stato l'ex ministro Jack Straw a definire il velo integrale «una vistosa dichiarazione di separazione e differenza nelle nostre comunità». E anche Tony Blair lo aveva bollato come «un simbolo di separazione». Oggi però Straw non condivide più quella battaglia: «Incontro spesso cittadine con il burqa — ha spiegato —, non ho bisogno di chiedere loro di farmi vedere il viso, alcune lo fanno spontaneamente, altre no. Non mi sembra un problema». Nei grandi magazzini, intanto, le donne musulmane si godono la libertà andando a caccia di vestiti. E i commercianti fanno di tutto per accontentarle. In questi giorni da Harrod’s si può ammirare un versione extra lusso dell' abaya, il tradizionale lungo camice nero che, per l'occasione, è stato arricchito di ricami, cristalli e inserti metallici dalla giovane stilista Hind Beljafla. I più belli costano anche 5 mila euro.
Il bando serve a difendere la laicità dello Stato
Kepel dichiara, riguardo all'omicidio di Dubai : "Israele assassinando in gennaio il dirigente di Hamas a Dubai, Mahmoud al-Mabhouh, ha voluto soprattutto lanciare un messaggio forte agli Emirati". Non ci sono le prove che sia stato il Mossad ad assassinare il terrorista di Hamas a Dubai. Non è ben chiaro, perciò, in base a quali prove Kepel lo dia per scontato... Ecco l'intervista:
PARIGI— «Il burqa nelle città europee va regolato. Stando attenti però a non trasformarlo in uno scontro cultural-religioso e limitandosi a farne una questione di ordine pubblico», dice Gilles Kepel sorseggiando il caffè di fronte ai giardini del Luxembourg. È un lungo esame articolato il suo, che va dalla critica ragionata al progetto di legge francese contro il velo integrale nei luoghi pubblici alla speranza che la Turchia possa «competere» con il regime estremista iraniano come nuovo «Paese ispiratore» tra le masse del Medio Oriente. A oltre un quarto di secolo dalla pubblicazione de «Il profeta e il faraone», il libro che non ancora trentenne lo promosse tra i precursori degli studi sul fenomeno Al Qaeda, Kepel resta tra i maggiori sostenitori del dialogo tra Occidente e mondo musulmano. Le sue recenti visite negli emirati del Golfo si accompagnano all’osservazione diretta delle comunità di immigrati nelle banlieue parigine.
Entro ottobre dovrebbe essere approvata in Francia la legge contro il velo integrale. Come la vede? «Penso che questa legge sia molto diversa da quella che passò nel 2004. La conosco bene, feci parte della commissione preparatoria. Si deliberò che gli studenti nelle scuole pubbliche non potessero ostentare segni della loro fede. Fosse il velo per le musulmane, la kippà per gli ebrei o una croce sul petto per i cristiani, la legge era eguale per tutti. E la cosa ha tutto sommato funzionato. Fu il trionfo del principio della laicità dello Stato. Gli studenti devono capire che ciò che hanno in comune è più importante delle differenze. La nuova legge è diversa. Non resta limitata alle scuole, ma si allarga a tutti gli spazi pubblici: strade, ospedali, metrò, aeroporti. Il problema è che i salafiti, gli estremisti musulmani sunniti, la combattono su basi religiose, culturali e morali. Ne approfittano per propagandare la superiorità del loro credo».
La legge può diventare funzionale agli integralisti? «È un rischio. L’effetto boomerang è che si forniscano argomenti agli estremisti, indebolendo i moderati. Chiunque indossa il velo, e viene perseguitato dalla polizia per questo, diventa ai loro occhi un martire, un esempio di rettitudine. Non dimentichiamo che oggi ci sono tante ragazze francesi che si convertono e indossano il velo, per protesta, disagio, o per sposare musulmani. Parliamo di sacche di povertà, diseredati. Ma proprio qui il credo estremista ha più presa». Che fare? «La legge va presentata come un provvedimento di ordine pubblico. Occorre insistere sul fatto che qualsiasi individuo deve poter essere riconosciuto per la strada. È vietato nascondere la propria identità. La legge è già stata approvata dall’Assemblea nazionale, ora andrà in Senato. Prima della sua entrata in vigore ne va però studiata la formulazione finale e le modalità di applicazione».
Proprio al tempo degli attentati dell’11 settembre 2001 lei sostenne che la capacità qaedista di raccogliere consensi era in decadenza. Lo pensa ancora? «Ora più che mai. Al Qaeda è vista come una setta esoterica, remota. Bin Laden appare un profeta lontano, incomprensibile, isolato. Non sono riusciti amobilitare le masse. E oltretutto l’estremismo sunnita subisce ora due gravi minacce dall’interno dell’Islam. In primo luogo l’Iran, che rilancia il fondamentalismo sciita rivoluzionario. E poi il crescente contrasto tra democrazia e radicalismo. Lo si vede bene in Turchia, dove è in atto il braccio di ferro tra l’esercito di formazione kemalista-laica, non privo di elementi totalitari, e invece i partiti religiosi nella società civile, che vanno da Giustizia e Sviluppo del premier Erdogan ai più radicali dello IHH che hanno partecipato alla flottiglia pro-Hamas verso Gaza a fine maggio. Il governo di Ankara è la sintesi di queste tendenze. Un po’ come l’Hezbollah in Libano, che è passato dalla fase iniziale rivoluzionaria mirata a islamizzare il Paese, alla lotta contro Israele, e ora vede crescere l’elemento più politico volto a integrare gli sciiti nel sistema democratico nazionale alleandosi persino con ampie componenti della minoranza cristiana».
Gli Stati Uniti sostengono che le resistenze all’entrata della Turchia in Europa favoriscano l’asse Ankara-Teheran. «Sbagliano. In verità una Turchia più aperta al mondo arabo diventa una forte alternativa al radicalismo iraniano. La grande novità evidenziata dalle conseguenze del raid israeliano contro la flottiglia al largo di Gaza è stata proprio questa. Ahmadinejad perde di popolarità. Piace il suo antisionismo, la sfida all’America. Ma non l’antimodernismo. Il radicalismo estremo fa paura a tanti sunniti. Il nuovo modello diventa dunque la Turchia. Che resta comunque un Paese molto più moderato, democratico e con una forte componente laica. Sono stato a cena poche settimane fa dal presidente Gül. E lui stesso ha continuato a ripetermi che la priorità resta l’alleanza con l’Europa, fatta di legami politici ed economici. L’elemento più interessante delle ultime settimane è però l’evidenziarsi sempre più della debolezza americana».
Non è una novità, sono occupati con Iraq e Afghanistan. «Certo. E in quei Paesi i fallimenti sono drammatici. Ma è clamorosa l’incapacità di sanare i dissidi tra i due alleati storici degli Stati Uniti in Medio Oriente: Turchia e Israele. Sino a poco tempo fa sarebbe bastata una telefonata di un qualsiasi sottosegretario di Stato a Gerusalemme e Ankara per rimettere a posto le cose. Ora non più. Washington sta via via perdendo di peso. E di questo se ne rendono ben conto anche tra i Paesi produttori di greggio nel Golfo. Qui cresce la paura per l’Iran, si guarda alla Cina. La Turchia fa bene a cercare di guadagnare nuovi spazi».
E un attacco israeliano sull’Iran per bloccare l’atomica? «Possibile. Israele assassinando in gennaio il dirigente di Hamas a Dubai, Mahmoud al-Mabhouh, ha voluto soprattutto lanciare un messaggio forte agli Emirati: non fate da banchieri dell’Iran, altrimenti metteremo a rischio la vostra sicurezza interna. Segno che la determinazione non manca. Ma un attacco sull’Iran sarebbe molto pericoloso, complicato, dagli esiti imprevedibili. Nulla prova che il regime dei mullah non riesca a rafforzarsi in nome del pericolo esterno e mobilitare le masse arabe. Sarebbe deleterio».
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