domenica 25 luglio 2010
Tutto tace?
Il retroscena. Silvio: vediamo se Fini difende chi dice «governo mafioso» di Adalberto Signore
Roma - Non siamo ancora alla vera e propria controffensiva al bombardamento su Dresda di giovedì scorso - con il filotto Bocchino, Barbareschi, Augello e Granata - ma la prima reazione agli affondi che ormai da settimane arrivano dalla pattuglia finiana è comunque sufficiente a mettere Berlusconi di buon umore. Dopo giorni di appelli all’unità e di immobilismo - dettati anche dalla necessità di chiudere sul ddl intercettazioni - il Cavaliere ha infatti deciso di aprire la strada dello show down con Fini. Una partita lenta e che forse lo stesso premier non ha ancora deciso fino in fondo come giocare, ma che da ieri pare ufficialmente cominciata. La resa dei conti, è il senso delle parole che usa Berlusconi nelle sue conversazioni private, è iniziata. E tanto aspettava questo momento il Cavaliere che, chiuso ad Arcore, non si lascia sfuggire neanche una delle decine di dichiarazioni che rimbalzano per tutta la giornata sulle agenzie di stampa.
Il redde rationem comincia dunque con la richiesta - arrivata da un berlusconiano di ferro come Valducci - di portare Granata davanti al collegio dei probiviri del Pdl. Il segnale è chiaro: da ora in poi nessuna indulgenza contro chi spara contro il partito e contro il governo. Un messaggio ai finiani, certo, ma pure un primo passo per arrivare a una resa dei conti definitiva con Fini. Già, perché il finiano vicepresidente dell’Antimafia s’è certamente fatto prendere la mano quando qualche giorno fa a Palermo ha detto che «ci sono pezzi del governo che fanno di tutto per ostacolare le indagini sulla strage di via D’Amelio». Insomma, una cosa è criticare la maggioranza o l’esecutivo, altra è accusarlo di connivenza con la mafia. Che poi Granata sostenga anche la totale attendibilità di Spatuzza - il pentito che accusa Berlusconi di essere il mandante delle stragi del ’92 - non è proprio un dettaglio e porta a una conclusione eloquente: il Cavaliere ostacola le indagini perché è lui il vero responsabile della morte di Falcone e Borsellino. Ecco, ci sta che il premier non l’abbia presa troppo bene e - per usare un eufemismo - sia andato fuori dalla grazia di Dio. Irritazione che poi ha deciso di placare con la sua proverbiale dose di ottimismo: il lato positivo è che questa è l’ultima goccia perché è chiaro che è arrivato il momento di mettere fine a questa pagliacciata. Probiviri, dunque. Oppure la convocazione di un ufficio di presidenza ad hoc per sancire l’espulsione di Granata dal Pdl. E usarla come grimaldello per arrivare direttamente a Fini. Il presidente della Camera - ragiona Berlusconi - dovrà assumersi le sue responsabilità: o lo lascia al suo destino oppure sostiene pubblicamente che non c’è niente di strano nel tacciare il governo di essere mafioso. Nel primo caso il segnale sarebbe devastante per la tenuta della pattuglia finiana, nel secondo l’ex leader di An avrebbe più d’una difficoltà a spiegare il perché di un affondo tanto duro.
Ad Arcore, poi, non passa affatto inosservato il silenzio del presidente della Camera e dei suoi dopo l’appello lanciato da Di Pietro (a Fini e Bersani) per dar vita a una «coalizione nuova con il partito della legalità». D’altra parte, è proprio la legalità - contrapposta al partito dell’illegalità ovviamente guidato dal Cavaliere - il grande ombrello sotto il quale dar vita a un eventuale governo di larghe intese. «La stessa operazione - chiosa il vicepresidente dei deputati Pdl Napoli - che si fece nel ’94 con la questione morale». Ed è la legalità uno dei cavalli di battaglia dell’ex leader di An che non perde occasione di puntare il dito contro chi nel Pdl è coinvolto in vicende giudiziarie. Tanto che ormai da settimane in privato il Cavaliere parla di un Fini «dipietrizzato», «giustizialista» e «ormai in combutta con le procure» al punto dall’aver perso ogni briciola di garantismo. Insomma, ironizza un ministro vicino a Berlusconi, «è vero che i finiani aprono bocca e gli danno fiato» ma «che sull’appello di Di Pietro scegliessero la via del silenzio era prevedibile».
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