venerdì 2 luglio 2010

Il terrorismo islamico


La lunga deposizione resa da Faisal Shahzad, il presunto attentatore di Times Square, mina da sola i tentativi dell'amministrazione Obama di ignorare i pericoli dell'islamismo e del jihad sia dentro casa che su scala globale. Le dichiarazioni di Shahzad spiccano perché i jihadisti, per controbattere le accuse, in genere salvano la pelle dichiarandosi innocenti o patteggiando. Prendiamo in esame alcuni esempi:

Naveed Haq, che ha sferrato un attacco contro l'edificio che ospita la Jewish Federation a Seattle, ha protestato la propria innocenza a causa della sua infermità mentale.

Lee Malvo, uno dei cecchini del mondo politico americano ha spiegato che «uno dei motivi per sparare era che la gente bianca aveva cercato di far del male a Louis Farrakhan». Il suo socio John Allen Muhammed si è detto innocente fino alla camera della morte.

Hasan Akbar ha ucciso due soldati americani mentre dormivano in una zona militare, per poi dire alla corte: «Vorrei scusarmi per l'attacco. Mi sembrava che la mia vita fosse in pericolo, e di non avere altra scelta. Vorrei anche chiedervi perdono.»

Mohammed Taheri-azar, che ha cercato di uccidere alcuni studenti della University of North Carolina investendoli con un'automobile e ha pronunciato una serie di farneticamenti jihadisti contro gli Stati Uniti, in seguito ha avuto un ripensamento, dicendosi «assai pentito» dei crimini commessi, e ha chiesto di essere rilasciato in modo da poter «ristabilirmi [in California, ndr] da bravo, altruista e produttivo membro della comunità».

Questi sforzi si inseriscono in uno schema più ampio di mendacità islamista; raramente un jihadista è fermo nelle proprie convinzioni. Zacarias Moussaoui, il presunto ventesimo dirottatore dell'11 settembre è arrivato vicino: i dibattimenti giudiziari che lo riguardavano sono iniziati con il suo rifiuto di ammettere la propria colpevolezza (che il giudice ha tradotto in "non colpevole") per poi un bel giorno dichiarsi colpevole di tutte le accuse. Il trentenne Shahzad ha agito in modo insolito durante la sua apparizione davanti a una corte federale newyorkese il 21 giugno scorso. Le risposte alle innumerevoli domande inquisitorie date al giudice Miriam Goldman Cedarbaum (del tipo «E dov'era la bomba?», «Che ne ha fatto della pistola?») hanno offerto uno sconcertante mix di deferenza e disprezzo. Da un lato, egli ha risposto educatamente, con calma, con pazienza e in modo esauriente alle domande sulla sua condotta. Dall'altro lato, Shahzad con lo stesso tono di voce ha giustificato il suo tentativo di strage a sangue freddo. Il giudice, verificato che l'imputato era pronto a dichiararsi colpevole per tutti i 10 capi d'imputazione, ha chiesto all'uomo: «Perché vuole ammettere la propria colpa». Il che è una ragionevole domanda vista l'alta probabilità che le sue ammissioni lo terranno per parecchi anni in galera. Shahzad ha replicato esplicitamente: «Desidero ammettere la mia colpa e lo farei cento volte ancora perché – fino a quando gli Stati Uniti non ritireranno le proprie truppe dall'Iraq e dall'Afghanistan, non fermeranno i drone strikes in Somalia, in Yemen e in Pakistan, non porranno fine all'occupazione delle terre musulmane, non smetteranno di uccidere i musulmani e finché seguiteranno a fare rapporto contro i musulmani al loro governo – noi attaccheremo [gli Usa, ndt] e io mi confesso reo di ciò».

Shahzad ha continuato a descriversi come uno che ribatte alle azioni americane così dicendo: «Faccio parte della risposta agli Usa che terrorizzano le nazioni musulmane e il popolo musulmano, e per questo io vendico gli attacchi»; e ha poi aggiunto: «Noi musulmani siamo una comunità». E non è tutto: l'uomo non ha esitato ad asserire che il suo obiettivo era quello di danneggiare gli edifici e di «recare danni fisici alle persone o di ucciderle» perché «devono capire da dove vengo, perché (…) mi considero un mujaheddin, un soldato musulmano». Quando il giudice Cedarbaum ha sottolineato che i pedoni presenti a Times Square in quel tardo pomeriggio del I° maggio non stavano attaccando i musulmani, Shahzad ha così replicato: «Beh, il popolo [americano, ndt] elegge il proprio governo. Li consideriamo tutti alla stessa stregua». Il suo commento evidenzia non solo che i cittadini Usa sono responsabili del loro governo eletto democraticamente, ma anche della visione islamista che, per definizione gli infedeli non possono essere innocenti. Per quanto aberrante, questa filippica ha il merito di essere veritiera. La disponibilità mostrata da Shahzad a rivelare i suoi propositi islamisti ed a trascorrere parecchi anni dietro le sbarre in nome di questi propositi va contro i tentativi dell'amministrazione Obama di non dire apertamente che l'islamismo è un nemico, preferendo zoppe formulazioni come "operazioni d'emergenza all'estero" e "disastri causati dall'uomo". Gli americani – come pure gli occidentali in genere, tutti i non-musulmani e i musulmani non-islamisti – dovrebbero prestare ascolto all'esplicita dichiarazione di Faisal Shahzad e accettare la dolorosa verità che la rabbia islamista e le aspirazioni motivano davvero i loro nemici terroristi. Non tenere conto di questa verità non la farà certo sparire.

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