giovedì 8 luglio 2010

Obama, la turchia e...


MILANO - «L’Italia è parte di me stesso», dice Barack Obama accogliendoci nello Studio Ovale. Nell’intervista esclusiva concessa al Corriere della Sera, il presidente degli Stati Uniti appare rilassato e di buon umore. Affronta grandi temi, come la guerra in Afghanistan, dove definisce «straordinario» il contributo del nostro Paese allo sforzo della coalizione alleata. Precisa che l’estate del 2011 non sarà l'inizio di un rapido ritiro americano, ma il momento in cui «cominceremo a vedere truppe e polizia afghane prendere il nostro posto». Parla del rischio di perdere la Turchia, ricordando come la riluttanza dell’Europa a integrare Ankara a pieno titolo nelle sue istituzioni possa spingere il popolo turco a «guardare altrove». Loda Berlusconi e Napolitano, definendo l’Italia «fortunata ad avere un ottimo premier e un ottimo presidente». Ma non si tira indietro su argomenti più leggeri, confessando la sua passione per Dante, il cinema di Fellini, Antonioni e De Sica, la Toscana e la sua luce.

Il presidente degli Stati Uniti mi riceve in piedi nell’anticamera dello Studio Ovale. Ha appena finito una riunione con il vicepresidente Joseph Biden. Ho atteso il mio turno nel salottino fuori dall’ufficio del Consigliere per la Sicurezza nazionale, il generale James Jones. Sul divano di fronte, a fare anticamera per vedere Jones, il senatore George Mitchell, l’inviato speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente. La cosa che colpisce di più nella West Wing, il tempio del potere americano, sono le sue dimensioni ridotte: tutto è concentrato in pochi metri quadrati.

Obama indossa un abito blu sulla camicia azzurro cielo, la cravatta è verde pallido con piccoli triangolini scuri, le scarpe e le calze nere. Mi fa accomodare sul divano. Lui si siede sulla poltrona alla sinistra del camino, alle sue spalle i due busti in bronzo di Lincoln e Martin Luther King che hanno sostituito quello di Churchill restituito alla Gran Bretagna nel gennaio 2009, dopo il lungo prestito dell’era Bush. Al centro della parete il ritratto a olio di George Washington. Obama parla a voce bassa, con il suo tipico tono da baritono. Al colloquio, con Ben Rhodes, suo consigliere di politica estera e speechwriter, è presente anche Mike Hammer, il portavoce del Consiglio per la Sicurezza.

Signor presidente, inizio col tono che tradisce un po’ di emozione, gli Stati Uniti e gli alleati combattono una guerra difficile e sanguinosa in Afghanistan. L’Italia vi partecipa con 3 mila soldati. Possiamo ancora vincere e andar via in un anno? Quale messaggio vuole inviare all’opinione pubblica europea, che vede i suoi ragazzi e ragazze morire accanto a ragazzi e ragazze americani, senza risultati tangibili per il momento? Obama è pensieroso: «Prima di tutto voglio dire personalmente quanto sia grato per il contributo italiano in Afghanistan. I sacrifici di uomini e donne italiani in uniforme sono stati straordinari. Il primo ministro Berlusconi è stato un alleato conseguente e forte. L’Italia ci aiuta non solo sul campo di battaglia, ma anche nell’addestramento. Dove per esempio i Carabinieri sono stati molto utili. Tengo in altissimo considerazione i sacrifici del vostro popolo. Detto questo, è un tema difficile in una regione difficile. Non ci sono soluzioni semplici. Se ci fossero, non saremmo laggiù. Il fatto è che l’Afghanistan veniva usato come base per attività terroristiche rivolte contro tutti noi. La regione al confine tra Afghanistan e Pakistan continua a essere base di lancio per le bande del terrore. La nostra presenza ha però messo Al Qaeda in rotta, rendendola incapace di lanciare attacchi su larga scala come in precedenza. Abbiamo ancora molto lavoro da fare per stabilizzare il Paese e aggiungo, attraverso questo, stabilizzare anche il Pakistan. Ci vuole lavoro. Quello che ho detto al popolo americano e dico ai popoli dei Paesi alleati coinvolti è che stiamo seguendo una strategia che prevede un aumento delle truppe sul campo per spezzare e indebolire la ripresa dei talebani e un maggior impegno nella costruzione degli apparati militari e di sicurezza afghani. Faremo una revisione alla fine di quest’anno, per determinare se la strategia è stata efficace. Entro la metà del prossimo anno dovremmo cominciare la transizione, ma ciò non significa che d’un tratto la nostra presenza evaporerà. Piuttosto cominceremo a vedere truppe e polizia afghane prendere il nostro posto e quindi una graduale riduzione della nostra presenza, compensata dal maggiore impegno afghano. Sarà duro, sarà difficile, ma penso sia possibile. Soprattutto se si guarda al fatto che i talebani non hanno l’appoggio del popolo afghano: questa non è un’insurrezione che ha il sostegno popolare, la gente laggiù ricorda ancora quando erano al potere e non gli piace. Ma il terreno è duro, il Paese povero. Il governo nazionale ha ancora scarsa capacità, che però cresce. Ecco perché dobbiamo vincere non solo sul piano militare, ma accompagnare i progressi sul campo con l’addestramento, lo sviluppo economico, quel tipo di sforzi dove il contributo italiano è molto importante e di cui siamo grati».

Il prossimo tema è la Turchia, dove i più recenti sviluppi della politica estera, per tutti il voto negativo all’Onu contro le sanzioni all’Iran e il raffreddamento dei rapporti con Israele, destano preoccupazione negli Stati Uniti e in Europa. Qualcuno, ricordo, evoca il rischio di «perdere la Turchia». Lei signor presidente pensa che il rifiuto o la riluttanza dell’Unione Europea a integrare pienamente Ankara nelle sue istituzioni abbia giocato un ruolo? E come gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero agire per re-impegnare la Turchia in senso più filo occidentale? Obama la prende da lontano, definendo la Turchia «Paese di enorme importanza strategica, da sempre al crocevia tra Est e Ovest». «È un alleato della Nato — ricorda — la sua economia è in grande espansione. Di più, il fatto che sia una democrazia e un Paese in maggioranza islamico la rende modello criticamente importante per altri Paesi musulmani della regione. Per queste ragioni riteniamo importante coltivare forti relazioni con Ankara. Ed è anche la ragione per cui, sebbene non siamo membri dell’Ue, abbiamo sempre espresso l’opinione che sarebbe saggio accettare la Turchia nell’Unione. Riconosco che questo sollevi sentimenti forti in Europa e non penso che il ritmo lento o la riluttanza europea sia il solo o il predominante fattore alla radice di alcuni cambiamenti d’orientamento osservati di recente nell’atteggiamento turco. Credo che ciò abbia a che fare con la dialettica democratica interna al Paese. Ma è inevitabilmente destinato a giocare un ruolo nel modo in cui il popolo turco vede l’Europa. Se non si sentono considerati parte della famiglia europea, è naturale che finiscano per guardare altrove per alleanze e affiliazioni. Sebbene alcune delle cose viste, come il tentativo di mediare un’intesa con l’Iran sul tema nucleare, siano state infelici, penso che siano state motivate dal fatto che la Turchia abbia una lunga zona di confine con l’Iran e non vuole alcun tipo di conflitto in quell’area. Forse anche la volontà di flettere i muscoli ha giocato un ruolo, in questo insieme al Brasile che si vede come potenza emergente. Ciò che noi possiamo fare con Ankara è continuare a impegnarla, a chiarire per loro i vantaggi dell’integrazione con l’Occidente, rispettando la loro specifica qualità, quella di una grande democrazia islamica, non agire con paura per questo. Può essere potenzialmente molto buono per noi, se loro incarnano un tipo d’Islam che rispetta i diritti universali e la secolarità dello Stato e può avere un’influenza positiva sul mondo musulmano».

I quindici minuti si assottigliano. Cerco una nota più leggera, che il presidente coglie al volo. Qual è il suo rapporto con la cultura italiana: c’è uno scrittore, un autore, un regista cinematografico che l’ha influenzata nella sua formazione? Obama fa un sorriso, come trasognato. Per un attimo sembra che l’onda dei ricordi lo trasporti: «Guardi, da giovane ho amato il cinema italiano: Fellini, Antonioni, De Sica. Per quanto riguarda la letteratura, sono più incline ai classici, Dante soprattutto. Non parliamo del cibo. Ma continuo a considerare la regione intorno a Firenze la mia preferita: la luce della Toscana è particolare. Sinceramente non so a chi non possa piacere l’Italia e chi non sia stato influenzato dalla cultura italiana. Sicuramente considero l’Italia parte di me stesso. E le dirò di più: è stato di gran lunga il posto che più è piaciuto alle mie figlie durante il viaggio in Europa. Sono tornate completamente innamorate di Roma emi chiedono continuamente quando ci torneremo».

E il suo rapporto personale con il presidente Napolitano è veramente speciale come si dice? «Lo trovo una persona ricca di grazia. Devo dire che anche con il premier Berlusconi abbiamo sviluppato un rapporto forte. Quando ci incontriamo è sempre un piacere, ridiamo, scherziamo, facciamo cose concrete e serie. Il premier Berlusconi è stato un grande amico degli Stati Uniti e mio personale. Il presidente Napolitano l’ho incontrato a Roma e poi di recente qui a Washington. La sua visione di un’Europa forte coincide pienamente con la mia. L’importanza che lui annette al rapporto transatlantico è identica alla mia. In questo senso, l’Italia è fortunata di avere un ottimo premier e un ottimo presidente».

L’intervista è finita, ma riesco a fargli vedere una pagina del suo libro, Sogni di mio padre, quando racconta il suo passaggio per l’Europa, sulla strada per il Kenya. Lei descrive le sue passeggiate ai Jardins du Luxembourg, alla Plaza Mayor e il tramonto sul Palatino, a Roma, che le suggerisce l’eternità. Poi però conclude dicendo «It was not mine», non mi apparteneva. È ancora così? Ogni tanto sembra che non sia l’Europa quanto il Pacifico dov’è cresciuto, il luogo dei suoi sentimenti. Obama non è d’accordo: «Il contesto di quella frase era che, da giovane, stavo cercando di dare un senso alla mia identità, rispondere alla domanda: chi ero io veramente. Il viaggio in Africa poteva riempire il mio vuoto in un modo che non poteva fare l’Europa, perché lì ero un turista. In Kenya cercavo di scoprire chi era mio padre, che non avevo mai davvero conosciuto. La verità però è che in termini d’influenza sulla mia vita, quella europea è probabilmente forte come nessuna, perché sono americano e la cultura americana, che è ovviamente un miscuglio di varie culture, ha in quello europeo il suo ingrediente più forte. In questo senso, durante quel viaggio, essere in Europa non era molto differente dall’essere negli Stati Uniti. Ma in Europa mi trovo estremamente amio agio, sento tutto molto familiare in un modo che non posso dire quando viaggio in Giappone o in Cina, nonostante sia nato e cresciuto alle Hawaii dove l’influenza asiatica è molto forte. Il fatto è che gli Stati Uniti avranno sempre un legame unico con l’Europa, che io condivido pienamente in quanto americano».

Paolo Valentino

0 commenti: