lunedì 12 luglio 2010

Terrorismo islamico e tribunali italici


Cari amici, il mondo è bello perché è vario, dicono alcuni. E se è vario il mondo, perché non dovrebbe variare la giustizia che lo amministra? Infatti è proprio così. Per conferma, vi richiamo due sentenze quasi simmetriche emesse negli scorsi giorni da due tribunali a distanza di una decina di chilometri (Milano e Monza) a proposito degli stessi reati, con più o meno le stesse prove. Entrambe sono state raccontate in articoli di giornale pubblicati recentemente su Informazione corretta.

Il tribunale di Milano ha condannato quindici islamici a pene dai sei mesi (per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina) agli otto anni (per terrorismo internazionale): "Le loro basi milanesi erano la moschea di viale Jenner e di via Quaranta. Da qui inviavano martiri kamikaze e attentatori in Iraq e in Afghanistan; e facevano proselitismo in altre moschee italiane. Per soldi, procuravano documenti falsi e garantivano l’ingresso in Italia a clandestini arabi; e finanziavano progetti terroristici. Tutto, come dice Spataro: «Nel disegno di un jihad globale». Tradotto: i terroristi organizzavano la guerra santa a Milano." Così racconta Cristina Lodi su "Libero" (qui).

Il tribunale di Monza (presieduto da Ghitti, il GIP di "Mani Pulite") invece non ha creduto alla colpevolezza di due altri islamici, le cui prove a carico erano assai più convincenti. Ecco come li descrive Luca Fazzo sul "Giornale" (qui): "«Un camion come questo e pam! È il mio desiderio. Un camion pieno di bombe, strapieno». Oppure: «É tutto pieno, quel posto. Vado dall’altra parte con un bidone di benzina, verso tutto e quando torno la seconda volta butto una fiamma». O ancora: «Se trovassi qualcuno che vende gli esplosivi, giuro su Allah che tenterei di raccogliere i soldi. Due macchine o un camion». E anche: «Questa caserma la faccio esplodere». Così parlavano, tra di loro, Ilhami Rachid e Abdelkader Ghadif, marocchini e aspiranti martiri. Per la Digos erano due terroristi. Per la Procura di Milano, idem. Per il giudice preliminare Silvana Petromer, che nel dicembre 2008 li spedì in cella, erano addirittura dei complici di Al Qaida, la rete di Osama bin Laden. Al processo, il pubblico ministero Nicola Piacente aveva chiesto la loro condanna per terrorismo internazionale: undici anni per Ilhami Rachid, cinque anni per Ghadif. E invece alla Corte d’assise di Monza bastano tre ore di camera di consiglio per assolverli con formula piena: macché terroristi, «il fatto non sussiste». Ilhami viene condannato per una bagatella, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina [...] Fa niente se poi una di queste idee è stata messa in atto davvero: l’attacco alla caserma Perrucchetti, di cui i due parlavano in una intercettazione («A Bande Nere c’è una caserma, dobbiamo andare a vedere») e contro la quale nell’ottobre scorso si scagliò, imbottito d’esplosivo, il libico Mohamed Game. Fa niente se qualche labile traccia collega il bombarolo della Perruicchetti agli assolti di ieri, giacché a casa di Game la Digos trovò i ritagli sull’arresto dei due, e si scoprì che visitavano gli stessi siti da guerriglieri. Fa niente. La responsabilità penale è personale, dice in sostanza la sentenza di ieri, ed è legata non alle idee ma ai comportamenti concreti. Se non c’è prova che alle chiacchiere sia seguito un tentativo - anche blando - di tradurle in realtà, allora non c’è terrorismo."

Inutile dirvi che non ho gli elementi per discutere nel merito queste sentenze e posso solo rispettarle, come si dice. Ma sono colpito da come ci possa essere una tale disparità di giudizio, soprattutto in una materia delicatissima come il terrorismo, che investe la sicurezza di tutti. Mi sembra abbastanza evidente che Rachid e Gadif, tornati a casa, non aspetteranno molto tempo prima di ricominciare le loro simpatiche attività. Del resto, come sapete, sulla giustizia italiana e sulla sua vocazione politica si discute molto, sui giornali e fuori. Ci vorrebbe una seria ricerca su questo problema.

Come quella che ha condotto Regavim, una Ong israeliana, a proposito della Corte suprema e di cui dà notizia Karni Eldad su "Haaretz" (qui). In Israele chiunque (anche i non cittadini come i palestinesi o le organizzazioni non governative) possono rivolgere "petizioni" alla Corte suprema, che è una delle istituzioni più potenti del sistema politico. Regavim ha studiato elementi procedurali costanti, come il tempo necessario per ottenere risposte dalla corte, il numero delle udienze tenute e naturalmente il risultato delle cause politicamente significative, confrontandole con l'origine della petizione, se cioè fatta da palestinesi o organizzazioni di sinistra o da loro avversari. Sono venuti fuori dati altamente significativi. Se per esempio siete di sinistra e fate una petizione, la risposta arriva mediamente in 25 giorni; se siete di destra in 88 (ignoriamo il fatto che in Italia una risposta giudiziaria in tre mesi sarebbe un miracolo...). La prima udienza arriva dopo 177 giorni per una petizione di sinistra, dopo 389 per una di destra. I provvedimenti d'urgenza di tutela prima della soluzione della causa sono emessi nel 35% delle petizioni di sinistra, e quasi mai in quelle di destra. Il presidente della corte Beneisch partecipa al 60% dei collegi per le petizioni di sinistra, a 0% di quelle di destra; nelle prime si tengono mediamente 1.9 udienze a petizione, nelle seconde 0,5 (il che significa che più della metà sono respinte senza discussione). Anche su questi dati varrebbe la pena di riflettere. Certo che dicono che la giustizia è varia come il mondo, ma – almeno in Israele – preferisce marciare come le auto inglesi, tenendo la sinistra. E in Italia? In Eurabia?

0 commenti: