martedì 20 luglio 2010

Di P3, repubblica e altre cazzate...


Colpisce la simultaneità di due grandi inchieste italiane. La retata contro la 'ndrangheta: 305 arresti tra Calabria e Milano. Lo scandalo eolico ha rivelato l'esistenza di un comitato d'affari. Un comitato d'affari con lo scopo di pilotare appalti, influenzare giudici, fare e disfare governi locali. In teoria le due inchieste non hanno niente a che fare l'una con l'altra. Il blitz contro le cosche calabresi è stato annunciato con orgoglio dal ministro dell'Interno e presentato come prova che il governo Berlusconi, nonostante tutte le calunnie, s'impegna come nessun altro nella lotta al crimine organizzato. Berlusconi, viceversa, ha minimizzato l'importanza della cosiddetta P3, parlando di "quattro pensionati sfigati". Lasciamo stare che tre di questi "sfigati" non sono affatto pensionati: Marcello Dell'Utri è ancora parlamentare, nonostante condanne in due gradi di giustizia per collusione con la mafia, ed è uno degli uomini più vicini a Berlusconi. Denis Verdini è ancora coordinatore del Pdl. Nicola Cosentino, ex sottosegretario all'Economia prima delle dimissioni forzate, è ancora coordinatore della Campania. Il quarto è Flavio Carboni, 78 anni, uno dei protagonisti del crac dell'Ambrosiano, (per cui è stato condannato a 8 anni e 6 mesi) e membro insieme allo stesso Berlusconi della vecchia P2, una reliquia della Prima Repubblica ma evidentemente ancora molto attiva nella Seconda.

In realtà le inchieste sono legate, perché tutte e due nascono quasi esclusivamente dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, che sarebbero fortemente limitate dall'attuale proposta di legge del governo. Le procure di Milano e di Reggio Calabria, con la polizia italiana, hanno ascoltato oltre un milione di conversazioni nel corso di due anni. Troppe? Berlusconi sostiene che l'Italia è il paese più spiato nel mondo. Presumo che non intenda il milione di conversazioni captate per offrire la prima grande mappa dell'universo poco conosciuto della 'ndrangheta. Sarebbe stato altrettanto difficile penetrare il comitato d'affari di Carboni. La polizia italiana sospetta che dietro Carboni si nascondano anche clan della Camorra, interessati a riciclare denaro sporco in giochi da casinò in alberghi e online.

Essendo un'indagine di corruzione e non strettamente di mafia, è molto probabile che, se fosse già in vigore la legge-bavaglio voluta da Berlusconi, la magistratura non avrebbe avuto il permesso di fare le intercettazioni. È certo invece che questa inchiesta non sarebbe mai nata se Berlusconi fosse riuscito a far passare la "grande riforma della giustizia" che insegue da anni, grazie alla quale la magistratura sarebbe sottoposta al controllo dell'esecutivo. Ed è ancora più certo che, con il divieto totale di pubblicare il contenuto delle intercettazioni imposto dalla nuova legge in discussione alla Camera, oggi non sapremmo nulla della cosiddetta P3, perché ancora non è iniziato il processo. E, per inciso, è anche possibile che un processo non ci sarà mai: è sempre assai labile il confine tra un comportamento sporco e riprovevole e un comportamento illecito da dimostrare con tanto di prove in un'aula di tribunale.

Non è giusto che i cittadini sappiano che esiste dietro le quinte della politica un comitato d'affari impegnato a spostare magistrati e presidenti di regioni e a far vincere appalti lucrosi agli amici, magari in combutta con la criminalità organizzata? Corruzione e mafia non sono facilmente separabili. E la forza delle mafie italiane sta nella loro capacità di penetrare nelle istituzioni, proprio attraverso figure ambigue come Carboni, Dell'Utri o Cosentino. Colpisce molto, per paradosso, il discorso di un boss della 'ndrangheta a proposito delle mire del suo clan sugli appalti dell'Expo di Milano. Il boss dice al suo interlocutore di non voler "prendere tutto", ma solo una "buona fetta". "Se lui parte che pensa, adesso ti faccio l'esempio, di fare il ponte fra Reggio Calabria e Messina, e allora a me mi ha già perso! Perché io non miro al ponte, magari se mi danno la pulizia del ponte mi interessa!".

Queste indagini dimostrano (per l'ennesima volta) il fallimento totale dell'approccio di Berlusconi: un capitalismo personalizzato e clientelare, fatto dai suoi amici e dai membri del suo partito, i quali sono poi quasi sempre la stessa cosa. Le grandi opere pubbliche che dovevano essere il motore della ripresa italiana, in realtà, non sono praticabili anche perché sono fonte di corruzione dei vari comitati di affari e di sostegno economico alle cosche 'ndranghetiste. C'è poi un secondo motivo che rende evidente l'intreccio tra queste due inchieste, e riguarda la magistratura. Il magistrato di punta nell'inchiesta sulla 'ndrangheta è Ilda Boccassini, bestia nera della destra berlusconiana, che ha la colpa imperdonabile di aver condannato Cesare Previti, l'avvocato di Berlusconi che ha corrotto magistrati per conto dell'azienda del premier. Per la Boccassini, come per tanti altri magistrati, indagare sulla corruzione è un dovere, come quello di indagare contro il crimine organizzato. Corruzione e crimine organizzato sono due piaghe da estirpare, per avere uno stato di diritto dove tutti sono uguali davanti alla legge.

Nello scandalo sull'eolico vediamo invece coinvolto un altro tipo di magistratura: giudici che si riuniscono con politici e affaristi per gestire nomine giudiziarie e pilotare sentenze. Ma quelli, per Berlusconi, sono solo bravi amici. I veri nemici, invece, sono le "toghe rosse", i "giudici politicizzati" come la Boccassini, che rischia la vita tutti i giorni per il bene comune, e per arginare il potere soffocante delle mafie.

1 commenti:

marshall ha detto...

E cosa sarebbe la P3?
Appunto! Dice di tutto, tranne che di questa.
Questo è come certa gente che conosco io, la quale è svelta e ligia nel criticare, ma quando agisce per il proprio interesse, se può "frega" lo stato acquistando in nero e facendo i lavori in nero. Dove sta la coerenza, e quindi la credibilità, di simili fanfaroni?