giovedì 26 novembre 2009

Eh, si si...

L'uomo non ha radici, ma gambe per muoversi. Reinventiamoci, oltre le identità di Franco Bolelli*

Sei cristiano o musulmano o buddista o ateo. Sei italiano o coreano o russo o camerunese o messicano. Sei professore o panettiere o programmatore o pubblicitario. Sei marito o figlio o amico di qualcuno. Sei di sinistra o di destra, progressista o conservatore, sei capitalista o proletario o borghese. Bene, una volta - fino a non tanto tempo fa - da queste definizioni si capiva generalmente chi era una persona. Solo che non si capiva chi era quella persona come singolo essere umano: ma questa era un'altra storia, perché a identificarti sembravano sufficienti le tue appartenenze e i tuoi ruoli sociali, professionali, culturali, religiosi, ideologici, nazionali, familiari. Ora tutto questo ci sta sempre più stretto, ora è soltanto nelle condizioni più arretrate e più deboli che gli umani accettano ancora di definirsi in base a qualcosa di esterno. Più una società è avanzata, più i legami con le radici e le identità si allentano e cresce impetuosamente la spinta fisiologica verso esperienze uniche e singolari (tanto più che questa storia delle "nostre radici" è veramente insensata: gli alberi hanno radici, noi umani abbiamo gambe per muoverci). Sarà anche vero che nel mondo connesso e globale ci sono pensiero unico e appiattimento (ma prima di crederci vorrei vedere almeno qualche prova, a me sembra che una qualche omologazione agisca soltanto su un pubblico generalista sempre più ristretto, e che comunque ci sia infinitamente meno pensiero unico di quando a dominare erano le ideologie e le identità totalizzanti): ma è altrettanto e anzi ancora più vero che a sgretolarsi è innanzitutto l'idea dell'uomo medio, dei modelli generalisti e di tutte le categorie che costringono la varietà dentro un'uniforme Disidentità, è così che si chiama. Solo che il nome sembra suggerire una mancanza, laddove invece il mutamento dovremmo cominciare a vederlo e viverlo non come una perdita ma come un'opportunità: invece di guardarla dal punto di vista di quello che non abbiamo più, la dissoluzione delle identità tradizionali possiamo tramutarla in una grande forza evolutiva. Ogni volta che non si riesce a definire una persona, un fenomeno, un progetto, ci sono eccellenti probabilità che quella persona, quel fenomeno, quel progetto possiedano qualcosa in più, qualcosa che è più grande delle convenzionali categorie di classificazione e di rappresentazione. Perché è così - al di là delle identità binarie - che possiamo mettere a fuoco chi noi siamo davvero, con la nostra unicità, il nostro dna, il nostro carattere, le nostre scelte. Perché è così - fuori dal loro ruolo prescrittivo e costrittivo - che invece di ingabbiarci le identità tradizionali possono ancora in qualche modo nutrirci. Perché se vogliamo guardare negli occhi l'evoluzione, allora non possiamo fare a meno di costruirci un'identità espansa, dinamica, molteplice. Sì, si può essere disorientati quando un'identità consueta ci si scioglie fra le mani e ancora non se ne vede una nuova, ed è proprio in questo stato di incertezza che annaspa oggi gran parte degli umani, quella che punta i piedi davanti al mutamento. Ma non si può non accorgersi che oggi tutti i problemi più grossi - dagli scontri di civiltà ai conflitti locali fino alle guerre per bande e alle faide familiari - nascono sotto il segno delle identità generaliste, religiose, etniche, ideologiche, sociali: identità tanto difensive quanto aggressive, identità che per esistere hanno bisogno di un nemico, identità costruite e rinfocolate dall'idea di un sopruso subito, identità che si pretendono assolute e comunque moralmente migliori. Ma se è vero che le tradizionali appartenenze esterne saranno eternamente il rifugio naturale per chi ha più debole senso della propria singolarità, quello che sta accadendo oggi è che l'evoluzione si compie superando e sorvolando il piatto territorio delle identità. Per chi - in qualunque campo dell'esperienza e della conoscenza - sperimenta, inventa, espande, evolve, le appartenenze e i ruoli normativi sono ormai assolutamente marginali se non insignificanti. Per avere ancora una funzione non dissuasiva, le nostre identità storiche, sociali, etniche, religiose e tutte le identità esterne devono confluire dentro quella grande corrente vitale dove sono in azione le nostre identità biologiche, le nostre personalità e caratteri, le sostanze chimiche del nostro organismo, e le energie, esperienze, relazioni, progetti, mitologie personali, e tutti quei materiali che ci sono serviti per plasmarci e che ci serviranno per reinventarci. In un mondo connesso e globale e in una prospettiva evolutiva, è così che si costruisce un'identità espansa. Quello che sei geneticamente, quello dove sei cresciuto, quello che noi stessi abbiamo fatto e scelto per essere noi stessi. Tutto insieme, tutto in coevoluzione. Nessuna identità sarà mai più forte di questa.

*Scrittore, tra i suoi libri: Più mondi; Con il cuore e con le palle; Cartesio non balla

3 commenti:

Nessie ha detto...

"invece di guardarla dal punto di vista di quello che non abbiamo più, la dissoluzione delle identità tradizionali possiamo tramutarla in una grande forza evolutiva".

Si dà il caso però, che quelli che dirigono questo fenomeno modialista e globalista della "dissoluzione dell'identità", la loro identità se la tengano ben stretta di generazione in generazioni. E non permettono nemmeno inquinamenti di sangue.
In parole povere, si predica agli altri ciò che non si accetterebbe mai e poi mai per sè stessi.

Eleonora ha detto...

L'ho postato apposa, Nessie. Per far capire con che razza di bestie abbiamo a che fare. Con chi esattamente dobbiamo combattere. "Loro" stanno tranquilli, noi invece no. E si, c'è una grossa contraddizione, quella che hai rilevato tu. La nostra identità non vale quanto la loro, ovviamente. Noi possiamo (e dobbiamo) finire in qualsiasi tritacarne, loro sono intoccabili.

Nessie ha detto...

...e "invisibili", perchè non c'è nessuno che li abbia nemmeno mai fotografati.