giovedì 19 novembre 2009

Obama e Guantanamo...

Il presidente Usa non mantiene la promessa sul supercarcere. Obama: “No, we can’t” Guantanamo non chiude di Stefano Magni

Il 22 gennaio scorso, due giorni dopo il suo insediamento, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva promesso di chiudere il super-carcere di Guantanamo entro il gennaio del 2010. La promessa non è stata mantenuta. Dopo una prima anticipazione del ministro della Giustizia Eric Holder su un ritardo pressoché inevitabile, ieri Obama ha dichiarato alla stampa che la chiusura del campo in cui sono rinchiusi 215 sospetti di terrorismo verrà rimandata a data da destinarsi. Probabilmente “più tardi nel corso del 2010”. “Avevamo una scadenza precisa e l’abbiamo mancata” ha detto il presidente alla Nbc, affermando anche di “non essere meravigliato” della cosa, visto che “sapevamo che sarebbe stata dura da rispettare”. Più che per motivi tecnici, la chiusura di Guantanamo è un terreno minato per ragioni giuridiche. Cosa fare dei suoi 215 prigionieri, gli ultimi rimasti dopo la scarcerazione di tutti gli altri da parte dell’amministrazione precedente? I cinque musulmani uiguri, prosciolti da ogni colpa, sono stati già liberati e trasferiti all’estero. Altri cinque sospetti verranno processati da tribunali militari. I cinque sospetti pianificatori dell’attacco dell’11 settembre (fra cui Khalid Sheik Muhammad, considerato la mente dell’attacco e reo confesso della decapitazione del giornalista Daniel Pearl) saranno processati da una corte civile a New York e probabilmente verranno condannati a morte. La sorte degli altri 200 è però incerta. La maggior parte di essi, infatti, è costituita da presunti terroristi giudicati molto pericolosi, ma, allo stesso tempo, difficilmente perseguibili secondo la legge americana. La loro posizione, dunque, è ancora molto difficilmente definibile e per questo vale ancora quel vero e proprio “limbo” di Guantanamo, al di fuori della legge e del territorio statunitensi. Anche per i “certi”, comunque, i problemi non sono affatto finiti. Il processo ai cinque presunti pianificatori dell’11 settembre ha sollevato un vespaio di polemiche che non accenna a diminuire. “Abbiamo un comandante in capo che non si rende conto che siamo in guerra” ha dichiarato ieri Debra Burlingame, sorella del pilota dell’aereo dirottato che fu fatto schiantare sul Pentagono. Il capo-gruppo dei Repubblicani in Senato, Mitch McConnell sottolinea il rischio di portare persone così pericolose sul suolo americano. Considerando, poi, che c’è la possibilità concreta che vengano assolti e lasciati liberi: molte loro ammissioni sono state estorte con la tecnica del “water-boarding”, ora riconosciuta come tortura, e dunque ritenute prove non valide in una corte federale. Il senatore McCain, sconfitto da Obama alle presidenziali, ma comunque d’accordo con il suo rivale sulla chiusura di Guantanamo, è anch’egli perplesso per il futuro processo: “Sono criminali di guerra. Hanno commesso atti di guerra contro gli Stati Uniti”, dunque dovrebbero essere processati da tribunali militari. Ma per Obama, così come per il partito Democratico, il terrorismo non è una guerra, bensì una forma di “estremismo”. E’ sulla base di questa diversa definizione che Guantanamo avrebbe dovuto essere chiuso. La sua sopravvivenza dimostra, ancora una volta, che la nuova amministrazione, nonostante la sua retorica di pace, spesso è costretta a proseguire l’azione (di guerra) di George W. Bush.

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