venerdì 20 novembre 2009

Rachida

Un film algerino. Quell'Islam che terrorizza l'Islam è il vero nemico dell'Occidente di Costantino Pistilli

Le principali vittime del fondamentalismo islamico sono proprio i musulmani. A dircelo sono i numeri dell’antiterrorismo, a ricordarcelo i media, mentre a farcelo vedere ci ha pensato una regista algerina con il film "Rachida" (2002). Falciati dagli attentati (le cifre del rapporto del Dipartimento di stato americano per il 2008 parlano chiaro), dalla segregazione e dalle mutilazioni fisiche (infibulazione, lapidazione, acido), la vita dei musulmani in patria è un confronto quotidiano con il terrore. Altrove, in Italia per esempio, ci sono pugni, schiffi e calci, mentre per finanziare il Jihad gli estremisti attivi nei Paesi della "Casa della Guerra" impongono “il pizzo” ai commercianti musulmani. Leggete Fuck You New York, il best seller del tunisino di K. Hajaji, per averne una dimostrazione pratica. Ma torniamo alla regista algerina Yamina Bachir-Chouikh che racconta la vita quotidiana dei musulmani, e la loro convivenza fianco a fianco dei fondamentalisti. Siamo in Algeria, Rachida è un insegnante, e un giorno viene avvicinata da un gruppo di ragazzi. Tra loro c’è un ex-studente che vuole costringerla a portare una bomba nella scuola dove insegna. Lei si rifiuta e lui le spara, senza ucciderla. Dopo essere guarita, la protagonista decide di lasciare Algeri e di ritirarsi in un villaggio. Qui trova un altro impiego come insegnante, ma i terroristi arrivano perfino lì. Una notte decidono di colpire e bruciare il villaggio e di rapire le ragazze più belle. Ancora una volta Rachida riesce a fuggire e a salvare la vita di un bambino, e il giorno dopo torna a scuola a insegnare. Purtroppo nella realtà le cose vanno anche peggio: Zakia Guessab, insegnante anche lei, è morta perché quella bomba è davvero esplosa nella scuola dove insegnava. Che sia finzione o realtà, è il ritratto di un mondo in cui le donne vengono isolate e perseguitate perché, ad esempio, avere una cicatrice da arma da fuoco sul ventre viene considerato il segno di un parto cesareo. Così come lo stupro viene coperto e nascosto perché è considerato un disonore, e madri, mogli e sorelle, sono martoriate dal macismo degli integralisti o semplicemente dalla grettezza del maschio di casa... Tutto questo la regista algerina lo vive realmente oltre a raccontarlo (ha perso il fratello in un attentato), ma la sua testimonianza è un seme gettato per ridare dignità a un popolo che quotidianamente si sforza di difendere la normalità, fatta di matrimoni, scuole, amici e amori, e un tocco di femminilità magari affidato a un po' di rossetto, oppure a un velo che non copre il volto come dovrebbe.

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