martedì 10 gennaio 2012
Razzismo al contrario
Mai più vantarsi del made in Italy. Questo tricolore che tanto sbandieriamo, soprattutto negli ultimi mesi di enfasi unitaria, sta diventando scomodo. Abbiamo vissuto anni in cui il solo pronunciare la parola patria e mettere alla finestra una bandiera diventava oggetto di caccia all’uomo: era, quella, la stagione di una certa egemonia, che eliminava come nostalgie fasciste anche le più elementari espressioni di identità nazionale. In seguito la storia ha un po’ camminato. Prima gli slanci repubblicani e risorgimentali di Ciampi, poi tutto il fritto misto del centocinquantesimo anniversario, in qualche modo hanno ripulito la bandiera dalle sovrastrutture ideologiche, restituendole la sua missione originaria di unire, non certo di dividere. Un buon lavoro di tutti quanti. Ma potrebbe essere inutile. La luna di miele sembra già finita: improvvisamente, esibire il tricolore e proclamarsi italiani procura una nuova patente, nemmeno così nuova, nemmeno così originale, più che altro buona per tutti gli usi e per tutte le occasioni: razzismo. Né più, né meno.
È L’Eco di Bergamo a raccontare l’esperienza surreale di Antonino Verduci, macellaio in Treviglio, vetrina direttamente sul centro storico. Non è ben chiaro come e perché, ma ad un certo punto le sue vendite hanno cominciato a scendere in modo preoccupante, per via di un’inspiegabile nomèa nata attorno al negozio: è gestito da marocchini musulmani, si raccontava in giro, magari vende carne particolare che arriva da chissà dove. Stanco di passare per quello che non è, bravo o cattivo che sia come venditore, comunque non straniero, il macellaio ha dunque deciso di avviare una personalissima campagna pubblica, «per fare chiarezza, per evitare qualsiasi equivoco»: sul vetro del suo negozio sono comparsi un tricolore e un cartello molto chiaro, «Macelleria italiana».
In modo istintivo e artigianale, la mossa del macellaio è un po’ quella che si vedono costretti ad adottare i costruttori di biciclette nostri per distinguersi dall’invasione dei prodotti asiatici: «Bicicletta tutta made in Italy», scrivono sui loro telai. Lo stesso fanno gli scarpari, i sarti, gli stessi fornitori di alimentari. Contro la marea dei prodotti più o meno taroccati, più o meno sottocosto, e comunque di provenienza esotica, l’ultima frontiera delle nostre aziende è puntare tutto sulla propria italianità, che per fortuna significa ancora qualcosa. Questa l’intenzione del macellaio trevigliese, ma evidentemente anche l’intenzione più elementare, in questa era di perbenismo conformista e di buonismo tanto al chilo, diventa un boomerang pericoloso. Neppure il tempo di farsi la vetrina made in Italy e il macellaio si ritrova messo al muro, al muro più odioso dell’epoca moderna, quella rete dei social-network dove tanta bella gente sfoga tutta la sua furia inquisitrice, fustigatrice, moralizzatrice, senza mai esporsi e rimetterci in proprio. Il popolo di Facebook, come viene troppo rispettosamente definito, prontamente lancia la sua fatwa: «Orrore», «Macellaio razzista», «Boicottiamolo», «Ricorda la scritta negozio ariano ai tempi del nazismo», e via bombardando. Italiani e marocchini, più italiani che marocchini, tutti a lapidare il razzista del tricolore. In nome della vigilanza permanente antirazzista, il pessimo soggetto va perseguitato pubblicamente. Magari, dipingiamogli un marchio indelebile sullo stipite o sulla saracinesca: a suo tempo funzionava….
Diciamolo: forse dovremmo smetterla di dare tanto peso all’eminente popolo della rete. Sinceramente, sta diventando un termometro troppo autorevole per tutto, dalla politica al costume, dalla cultura alla giustizia. Stiamo attribuendo a questa massa informe e anonima, che lancia i suoi siluri da chissà dove, il ruolo di ago della bilancia su qualunque fenomeno e su qualunque questione. Anche in questo caso, la denuncia contro il macellaio razzista mobilita anime troppo equivoche e sfuocate, perché davvero l’Italia intera debba sentirsi così malmessa. Purtroppo, però, vale la famigerata regola: infanga infanga, qualcosa resterà. Così, alla riapertura del lunedì mattina, la macelleria tricolore si ritrova in qualche modo sotto protezione, con passaggi di volanti della Polizia a scanso di effetti collaterali. Anche questo è un segno dei tempi: dal lontano pregiudizio verso le insegne «Macelleria islamica» siamo arrivati alla «Macelleria italiana» sotto scorta. Bello: potremo tutti raccontare ai nostri nipoti che ad un certo punto, chissà come, dichiararsi italiani significò essere razzisti. Purtroppo, noi c’eravamo.
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