giovedì 18 novembre 2010

Veltroni il pd e le elezioni


ROMA - Walter Veltroni, che succede al Pd? Ieri la Puglia, ora Milano: ogni volta che si vota alle primarie, vincono gli altri. «Ci sono volte in cui dispiace aver ragione. Com'è scritto nel documento firmato da 75 parlamentari, la perdita della vocazione maggioritaria del Pd può comportare rischi molto forti per il destino del partito del riformismo italiano. Purtroppo i sondaggi e le primarie confermano che la riduzione delle ambizioni comporta la riduzione del peso politico. Rimango convinto che il Pd non possa non aver dentro di sé un'ambizione maggioritaria, altrimenti non è il Pd. Dev'essere un soggetto capace di accendere un sogno nella società italiana, un razionale e realistico sogno. E l'unico sogno che la storia politica ci ha dimostrato essere realizzabile è quello riformista di Martin Luther King, di Olof Palme, di Brandt, di Obama: il cambiamento radicale del presente non attraverso il racconto di una società altra, ma attraverso la sfida molto più dura di cambiare la società com'è oggi. Se il Pd rinuncia a questa ambizione, se rinuncia a dire alla società italiana che la vuole portare fuori dal tunnel dove si trova da tempo immemorabile, il Pd non è se stesso».

Com'è possibile che il primo partito di opposizione perda consensi proprio mentre li perde il primo partito di maggioranza? «Ma i sondaggi dicono pure che nessun partito italiano ha un elettorato potenziale grande come il nostro: i numeri si invertono, il 24% diventa il 42. Quel divario dev'essere colmato attraverso il ritorno a un'ispirazione che sia da Pd. Se il Pd si trasforma in una forza a fatica distinguibile, se rinuncia al suo essere più com'è il Partito laburista inglese o il Partito democratico americano che come sono i partiti socialisti europei, non ce la farà a costruire l'alternativa di cui l'Italia ha bisogno».

Bersani come si sta muovendo e come l'ha trovato lunedì sera da Fazio? «Io apprezzo il lavoro che sta facendo Bersani. Siamo in una fase in cui bisogna garantire il massimo di convergenza, e in questa crisi la convergenza c'è. Però mi è spiaciuto, nel suo intervento a "Vieni via con me" sotto molti aspetti apprezzabile, non sentire mai l'aggettivo "democratico". Bersani ha detto "sinistra", "progressisti"; mai "democratici". Per me non è un aggettivo che si usa per privazione degli altri; democratico è il pensiero politico più forte che la storia del '900 ci abbia consegnato, ancora valido per essere usato nel tempo successivo: l'unico pensiero politico che abbia radici di cui dobbiamo essere orgogliosi. Essere democratico non è meno che essere di sinistra; è la più radicale delle politiche di cambiamento. Il Pd deve assumere senza equivoci questa identità, coniugata con il suo verbo fondamentale; che non è il verbo "difendere", ma il verbo "cambiare". Il paese ha bisogno di un cambiamento profondo».

Franceschini, Letta, la Bindi sostengono un'alleanza vasta con Fini e Casini. Lei che ne dice? «La cosa più grave che può accadere al Pd è dividersi tra chi sostiene che bisogna allearsi con Vendola e Di Pietro e chi con Fini e Casini. Solo il fatto che si discuta di questo contraddice il progetto originario, secondo cui dovevano essere gli altri a discutere se allearsi con noi. Il Pd non ritroverà il consenso perduto se non ritorna centrale, se non individua le grandi frontiere di innovazione necessarie all'Italia. Su quelle vediamo chi c'è».

Quindi lei non esclude un'alleanza allargata? «Sono per un'alleanza allargata programmaticamente a chi ci sta. Non cadiamo nel vizio da Prima Repubblica di discutere prima di alleanze che di cose, e in primo luogo di precarietà e legalità, che sono le due cose fondamentali. E potrei continuare: ambiente, scuola. Questi sono i temi su cui il Pd deve ritrovare una fortissima capacità di innovazione, per rappresentare il perno di un'alleanza più vasta possibile in vista delle elezioni. È evidente che non possiamo essere solo noi. Non invoco né l'autosufficienza né l'isolamento. Il punto è la centralità, è se sei tu a indicare la frontiera su cui costruire un'alternativa fondata su un'idea d'Italia, su un messaggio positivo, non solo sul dire che Berlusconi non va bene».

Che impressione le fa l'ascesa di Vendola? «Non ho paura di avere altri alla mia sinistra. Se Nichi ha successo è un bene; a condizione che il Pd, forza di centrosinistra, sia capace di intercettare il voto degli astensionisti e i voti in uscita dal centrodestra, anziché mettersi a fare lo stesso mestiere di Vendola. Lui può svolgere una funzione positiva: evitare che l'esasperazione di una radicalità che rinuncia a una sfida di governo porti a una posizione minoritaria e ininfluente. L'ultima cosa che noi possiamo fare è immaginare una campagna con lo schema del '94, con i progressisti da una parte, al cui interno prevalgono le posizioni più radicali. Il centro è nato perché al centro si è aperto uno spazio».

E i «rottamatori» di Renzi? «L'innovazione è sempre benedetta e benvenuta. Ma si fa con il coraggio di scelte politiche, non agitando l'esigenza di cambiamento di per se stessa. Quando noi andammo oltre il Pci, non pensammo di "rottamare" Tortorella o Chiaromonte; chiedemmo di dar vita a qualcosa di nuovo. E lo facemmo consentendo a quella sinistra, nella coalizione dell'Ulivo, di governare per la prima volta l'Italia».

Si riaffaccia l'ipotesi di un ruolo politico per Saviano. Che ne pensa? «Il successo di "Vieni via con me" conferma l'esistenza di una nuova maggioranza silenziosa che non ne può più di una politica rissosa, pesante, inconcludente, che si è stancato di Berlusconi e del suo universo orrendo. È una maggioranza di italiani che vorrebbe girare pagina e ogni volta che può esprimersi si esprime, stavolta con un programma tv. È un fatto culturale prima che politico, il segno di un'inversione di tendenza. Saviano è l'espressione di questo mondo che tiene alla legalità e non capisce perché uno scrittore venga sfidato da autorità che dovrebbero essere al suo fianco, perché debba prendersi gli insulti di Maroni e Berlusconi. Ho affetto e stima per Roberto, so come vive, so che ogni volta che i governanti anziché stargli vicino lo scagliano lontano aumentano per lui isolamento e solitudine. Ma so anche che Saviano non è politicamente collocabile. È trasversale, perché la legalità costituisce un pre-valore, che dovrebbe essere comune a tutti».

È vero che il Pd ha trovato una linea comune per la riforma elettorale? Qual è la vostra proposta? «È nell'Assemblea nazionale che abbiamo votato all'unanimità le linee guida della nostra posizione sulla nuova legge elettorale. E abbiamo confermato le ragioni di una proposta che va nel senso di un sistema sul modello di quello francese. Ma siamo aperti a cercare con gli altri soluzioni che rimuovano le anomalie dell'attuale legge elettorale e consentano all'Italia di avere un sistema stabile».

Si va verso elezioni anticipate? «Chi vuole le elezioni è nemico dell'Italia. Non lo dico per una forzatura propagandistica, ma perché sento una preoccupazione persino drammatica su quel che accade su scala europea. Quando Van Rompuy dice che sono in gioco in queste ore l'Ue e l'euro, dice una cosa gigantesca, che dovrebbe far fermare tutti a riflettere. Stiamo per vedere incrinata la più grande conquista politica di questo nuovo secolo. L'Italia arriva al momento critico con tutti gli indicatori negativi: crescita di debito, deficit, spesa pubblica; calo delle entrate fiscali. Ricordo che, quando ero al governo con Prodi, ogni giorno Ciampi entrava nella nostra stanza sorridendo, e ci mostrava la differenza in positivo rispetto al giorno prima dello spread tra i Bund tedeschi e i nostri Btp. Oggi il divario è tornato a livelli mai raggiunti dal 2000, da quando siamo nell'euro. Ci attendono manovre di rientro dal debito molto forti. Sento parlare di 45 miliardi di euro per la prossima primavera. In queste condizioni, l'idea di elezioni anticipate è un'idea da nemici dell'Italia».

Chi vincerebbe? «Sarebbe un voto dall'esito incerto. Nessuno degli schieramenti sarebbe in grado di garantire la modernizzazione e la stabilizzazione necessarie. Rischiamo di perdere sei mesi per ritrovarci in uno stallo peggiore di quello di oggi».

Lei quindi è per un governo tecnico? «Questo governo è finito. È finito il ciclo politico di Berlusconi, per quante manovre e campagne acquisti possa tentare. Si deve dar vita a un governo di responsabilità istituzionale, che non sia un ribaltone, ma raccolga tutte le forze in Parlamento preoccupate di questa condizione del tutto particolare in cui versano l'Italia e l'Europa, e delle conseguenze sociali sugli italiani che si impoveriscono, sulle aziende che chiudono. Un governo che, come il governo Ciampi, rassereni e dia sicurezza al paese, cambi la legge elettorale, prepari il terreno a una dialettica di tipo europeo tra schieramenti diversi».

Quanto dovrebbe durare? «Non certo un mese. Deve avere il respiro necessario per fare tutto questo, non nell'interesse dei partiti ma dell'Italia. Lo chiedono tutte le forze sociali, dalle organizzazioni degli imprenditori a quelle dei lavoratori. Dobbiamo sancire la fine del berlusconismo ed evitare che Berlusconi trascini nella sua crisi anche le forze del centrodestra. Tutte le forze responsabili diano vita a una fase di transizione, con un governo di altissimo profilo, immagine e autorevolezza; oppure il paese rischia moltissimo».

Chi dovrebbe guidarlo? «Ho fatto il nome di Ciampi non per caso. Non necessariamente dev'essere la persona che occupa lo stesso ruolo. Ma persone con quella cifra, quella autonomia, quell'indipendenza esistono. L'Italia, ricordiamolo sempre, è molto migliore di come oggi la si rappresenta».

Aldo Cazzullo

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