sabato 6 novembre 2010

Immigrazione, chiesa, industria e sindacati


E’ talvolta sufficiente leggere le cronache quotidiane (spicciole, dozzinali ma onnipresenti) per rilevare – ennesima conferma – come le strutture politiche, economiche e sociali che maggiormente si prodigano per l’implementazione dei fenomeni immigratorî sono riconducibili essenzialmente a tre precise categorie:

a) la grande industria e le relative associazioni padronali, legate a doppio filo alla logica del maggior guadagno possibile e pertanto naturalmente tese allo sfruttamento lavorativo del nuovo mercato degli schiavi;

b) le organizzazioni politico-partitiche che fino a questo momento abbiamo ascritto alla categoria della falsa sinistra ma che, date le recenti involuzioni dello scenario politico-istituzionale, potremmo allargare alla vera destra, che alla luce di un calcolo elettorale e – in maggior ragione – in seno al rapporto di subordinazione delle organizzazioni stesse nei confronti dell’alta finanza e del sistema bancario a-nazionali trovano ragion d’essere nell’ideologia della cosiddetta “integrazione” e che attraverso le federazioni sindacali e i patronati riescono a trarne altresì un profitto materiale e,

c) la Chiesa cattolica che, attraverso i suoi tentacoli sociali rappresentati dall’associazionismo “caritatevole” e ponendo le proprie fondamenta su una dubbia moralità ecumenica e cosmopolita, opera per la difesa delle dinamiche schiavistico-migratorie intorno alle quali hanno saputo allestire un lucrativo indotto in termini economici e di proselitismo.

Ad accomunare le tre categorie è una marcata supponenza di superiorità morale, sulla quale non c’è motivo di approfondire, che nulla si potrebbe aggiungere a quanto esposto dal Manzoni nell’appendice al capitolo terzo delle sue Osservazioni sulla morale cattolica (“Del sistema che fonda la morale sull’utilità”). Se della morale tutti si fanno portatori, però, alcuni più di altri si sforzano di trovare una giustificazione al fenomeno nei termini economici. La Confindustria ne ha ben donde: dietro il trito refrain degl’italiani che “certi lavori non li vogliono più fare” si cela la più solida verità che certi lavori non vorrebbero essere fatti in condizioni di schiavismo, condizioni che spesso gli immigrati – relegati al rango di paria della società produttiva – accettano di buon grado. Hanno anche il coraggio di fare la ramanzina: “gli operai brasiliani (o serbi, o cinesi) producono di più”: certo. Tralasciano il fatto che sono retribuiti un terzo con un terzo in più delle ore lavorate. Oppure: “le badanti ormai sono tutte straniere”; col trascurabile dettaglio che viene loro retribuito un quarto (quando va bene) dei contributi spettanti e coprono turni di lavoro ai limiti delle leggi (della natura, prima che del lavoro). Fanno i loro conti in tasca anche le organizzazioni della cosiddetta ”sinistra”, e il mondo sindacale: oltre all’apporto di consensi elettorali che una prassi politica improntata all’accoglienza scellerata può conferire, occorre ricordare anche il tornaconto economico che i Patronati e le strutture preposte all’ “integrazione” ricevono dall’immigrazione incontrollata. Tornaconto economico che si manifesta talvolta tramite i contributi che lo Stato versa loro in cambio della cura delle pratiche di natura fiscale, previdenziale e assistenziale, nonché dalle quote associative e dalle tariffazioni imposte ad alcuni servizi.

La Chiesa e il suo capillare associazionismo hanno invece sempre tentato di sottrarsi a queste logiche di lucro, dietro il dogma del dovere dell’accoglienza. Ogni tanto, tuttavia, anche costoro provano di giocare coi numeri, senza sapere che i numeri, se usati a sproposito, si vendicano e reclamano giustizia. E’ il caso della Caritas, che anche quest’anno ha stilato il suo Dossier statistico (il 20°) sul fenomeno dell’immigrazione. Seguendo la scia tracciata dai precedenti diciannove, l’organizzazione caritatevole continua a non avere dubbi: l’immigrazione è la soluzione, non il problema; l’unico problema è rappresentato dalla mancanza della “cultura dell’altro”.

Tralasciando le smancerie sincretiste e il “volemose bene” che caratterizzano una lunga sezione del rapporto, analizziamo invece la parte in cui la Caritas toglie la mano dal cuore e la posa sul portafogli. Il Rapporto mette sulla bilancia le entrate e le uscite registrate dallo Stato relativamente al suo rapporto cogli immigrati, e scopre che le prime sono superiori alle seconde di circa un miliardo di euro, cifra che quindi rappresenterebbe il saldo in attivo percepito dalle casse pubbliche grazie all’apporto economico garantito dall’immigrazione. Quanto spende quindi lo Stato per gl’immigrati? Sommando le spese per la sanità, le spese scolastiche, quelle per le politiche abitative, quelle giudiziarie e i trattamenti della Previdenza sociale, circa dieci miliardi di euro. Le entrate sarebbero, come abbiamo precedentemente accennato, superiori: tra contributi previdenziali, gettito Irpef e Iva e tasse per permessi di soggiorno si raggiungerebbe la considerevole cifra di undici miliardi.

Questo miliardo di euro, tuttavia, si perde per strada non appena si comincia a tinteggiare con le tinte fosche della realtà il roseo paesaggio tracciato dalle benevole calcolatrici della Caritas. La stima delle entrate, infatti – pur prendendola per buona – va considerata al netto di un consistente tasso di evasione e di elusione fiscale e previdenziale. Esempio lampante è quello delle detrazioni d’imposta che, in ragione dei cosiddetti “carichi di famiglia”, consentono ai lavoratori dipendenti di ridurre l’Irpef dovuta a seconda del numero e della tipologia dei propri familiari “a carico”, che non superano cioè il (vergognosamente basso) limite dei 2841 euro di reddito lordo annui. Quindi, il genitore di un ragazzo che ha lavorato tre mesi in estate e ha percepito tremila euro lordi di reddito, non può usufruire, per tutto l’anno, di dette detrazioni; un semplice controllo incrociato dei codici fiscali è sufficiente ed efficiente prevenzione, da parte dell’Agenzia delle Entrate, nei confronti di truffe e false dichiarazioni. Per un lavoratore immigrato la normativa è la medesima, ma la realtà è differente. Un cittadino della Repubblica Centrafricana, ad esempio, si reca in un ufficio anagrafico del suo paese e richiede uno stato di famiglia, e prima di emigrare in Italia se ne fa autenticare una traduzione. Una volta arrivato a Fiumicino, si reca difilato in una sede dell’Agenzia delle entrate e richiede il codice fiscale per sé, per i suoi cinque figli e per la moglie che ha lasciato in Africa; ciò gli consentirà di usufruire di una altissima detrazione fiscale e di percepire un bonus straordinario per famiglie numerose. E fin qui va ancora bene, e si rimane nelle pur larghe maglie della legge (salvo l’ipotesi in cui gli uffici dell’erario di Khartoum, di Durazzo o di Canton non inviino all’Agenzia delle entrate le situazioni reddituali dei familiari degli immigrati (!) ); i guai cominciano quando si entra nel sottobosco dei lavoratori e dei datori di lavoro fittizi, nelle regolarizzazioni mirate al conseguimento del permesso di soggiorno e nelle doppie e triple identità: “lavoratori” che non versano un centesimo all’Inps e all’erario ma che in compenso registrano lauti incassi dalla previdenza sociale in termini di assegni familiari, indennità per malattie o infortunio, recupero contributivo, indennità di disoccupazione, ecc. Fino a poco tempo fa, una sola branca dell’Inps era economicamente in attivo, la Cuaf (Cassa Unificata Assegni Familiari), da cui addirittura l’Istituto, in tempi di magra, attingeva fondi per il pagamento dell’Ivs, delle pensioni. Ora, grazie alle migliaia di figli minori dei lavoratori (reali o meno) stranieri, il segno meno del debito si registra in tutti i bilanci di previdenza.

E le spese dello Stato per la sanità? Anche qui il rapporto della Caritas pecca di un sospetto ottimismo, e non tiene conto di un notevole tasso di elusione della partecipazione alla spesa: tralasciando le dichiarazioni mendaci relative alla situazione reddituale del nucleo familiare (che permettono l’esenzione del ticket), è inoltre prevista, per gli stranieri irregolarmente presenti sul territorio, l’attribuzione di un codice Stp (straniero temporaneamente presente) che permette l’accesso alle prestazioni sanitarie nonostante lo condizione di clandestinità; le spese per tali prestazioni, a seconda della loro tipologia, non possono essere coperte dal servizio sanitario nazionale, e il clandestino è quindi tenuto a pagare o l’intero prezzo della prestazione stessa o comunque a parteciparvi tramite il ticket. Salvo che il clandestino medesimo non sottoscriva una “dichiarazione d’indigenza”. Insomma, è sufficiente che dica: “non ho denaro”, e non gli sarà richiesto nulla. E la spesa – come per i trattamenti previdenziali di cui sopra - se la ripartiscono gli altri contribuenti. Ma questo alla Caritas non interessa.

E le spese che lo Stato deve sostenere per l’ingrasso dei Patronati e dei centri servizi dei sindacati? Non mi sembra di averle viste menzionate nel dossier dell’organizzazione caritatevole, forse troppo impegnata a pontificare di “cultura dell’altro”. Le sedi sindacali si sono infatti ormai trasformate in centri servizi per l’immigrazione, in cui a lavoratori trimestrali e sottopagati (italiani, stavolta) è dato il compito di sbrigare tutte le pratiche assistenziali, previdenziali e fiscali che gli immigrati necessitano. E le nostre Confederazioni non campano solo con il contributo del tesseramento che viene loro richiesto (poi i vari Bonanni ed Epifani si ubriacano a forza di brindare, che hanno raggiunto milioni di iscritti), ma con i contributi che alle organizzazioni sindacali, ai Patronati e ai Caf versa lo Stato per il disbrigo di ogni pratica. Un “bilancio truccato”, insomma, quello della Caritas. Che, al pari del padronato e dei partiti deve continuare a svolgere il suo ruolo di esecutrice di ordini ben più alti. Ordini che impongono lo sradicamento delle identità delle nazioni e la globalizzazione della pirateria dei mercati. Tanto da far passare per una “risorsa” il più squallido e lucroso dei mercati degli schiavi. Come sempre, da parte loro, sulla pelle dei popoli.

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