venerdì 19 novembre 2010

Mostri




Come sarà giudicato in futuro il salvataggio della Grecia e dell'Irlanda? A pensar male si fa peccato, si sa, ma non ci sentiamo di escludere la possibilità che i salvataggi degli ultimi mesi saranno guardati come il prodromo di un diretto controllo di Bruxelles sulle politiche economico-fiscali degli Stati membri. Speriamo solo di essere smentiti in futuro. Gli americani dicono don't miss the big picture!, "non perdere di vista il quadro generale!". E dato che il quadro particolare nella danza tra UE e governo irlandese è ormai chiaro, possiamo spostarci a quello più grande. Sul caso Irlanda, non possiamo fare a meno di pensare un po' male, anche se si fa peccato. E' ormai ufficiale l'imminente sbarco nella capitale irlandese di un gruppo di monitoraggio composto da membri della Banca Centrale Europea, della Commissione Europea e del Fondo Monetario Internazionale. La ragione: "ispezione delle finanze irlandesi". Il termine "ispezione" è tutto un programma, se ne converrà. Se si guarda da vicino, l'Irlanda è ormai in amministrazione controllata, con buona pace del riluttante primo ministro irlandese Cowen il quale sino all'ultimo ha tentato di resistere alle pressioni pro-salvataggio di Bruxelles. Quale la causa? Di chi è la colpa? Non importa molto ormai. Quello che ci interessa è invece che siamo alla seconda. Alla seconda capitale europea la cui politica economica e fiscale passa quasi direttamente nelle mani del triangolo Bruxelles-Francoforte-Berlino.

Al riparo dalla concitazione giornalistica e dal brusio metallico di stampanti che sfornano agenzie, editoriali e analisi sullo psicodramma irlandese, forse è giunta l'ora di arrendersi all'evidenza. Dopo Atene, è il turno di Dublino. Dietro certe facce crucciate e gravi, in una pretesa disperazione in cui sembra insita il conforto, i massimi esponenti delle istituzioni comunitarie, Barroso e van Rompuy in testa, assaporano il gusto di una vittoria senza gaudio. Una delle ultime prerogative dello Stato Nazione europeo, la politica economica, cade quasi direttamente sotto diretta tutela comunitaria. Perché non sussurrare allora che la UE ha finalmente trovato il modo di mettere le mani sulla politica economica degli Stati membri? D'altronde sono rimaste poche le sostanziali competenze esclusive dei membri della UE: accanto alla politica economica-fiscale stanno solo la politica di difesa e quella estera (peraltro implicitamente connesse).

Potremmo anche ammettere una tale eventualità, se solo la cessione a livello comunitario avvenisse in un limpido processo democratico, fuori da uno schema puramente emergenziale e non più risultato di trattati scritti al riparo dagli occhi timorosi di noi cittadini, costretti a sbirciare dal buco della serratura per sapere cosa ne sarà di noi. Se fosse il risultato di un processo costituente europeo che sancisse finalmente il passaggio ''dall'arcipelago Europa'' (la definizione è tremontiana) ad una costituzionale e confederata Europa, governata da un processo democratico su modello statunitense, ci staremmo dentro con tutte le scarpe e forse ci piacerebbe crederci. Ma visto che questo non è, il problema diviene il metodo. Perché in questo caso metodo è sostanza. Certo, nessuno può dimenticare che i trattati di Roma giunsero proprio dopo una guerra fratricida tra popoli europei (e il tentato sterminio di uno di essi) e come conseguenza delle ferite arrecatici a cui fece seguito il declino dell'Europa nel mondo. Ma è altrettanto vero che l'Europa degli anni '50 non è più quella d'oggi e che mettere nella mani di burocrati il destino di decine di milioni, se non centinaia, di cittadini europei è troppo concedere. Di 'estasi burocratica' parlava anche Dostoevskij. Quella dei burocrati di Bruxelles rischia di far franare tutto il progetto europeo. Vorremmo non doverlo fare, ma a mente fredda 'insinuiamo' (con cautela s'intende) che di questa Europa che coglie gli Stati nel momento della difficoltà per accrescere 'il di sé potere', non sentiamo proprio il bisogno. Tutt'altro.

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