martedì 5 ottobre 2010

Islam e immigrazione controllata


Il martirio di Begm Shnez, lapida­ta a morte a Modena, Italia, dal marito ai cui islamici voleri si op­poneva, e della loro figlia venten­ne, Nosheen Butt, massacrata a sprangate in quanto colpevole di rifiutare il matrimonio combina­to dal padre, riaccende nel modo più bru­tale i riflettori sull’immigra­zione nel no­stro Paese. O, per meglio di­re, sulla sua so­s tenibilità. Non tanto, o non solo, per i numeri del feno­meno, quanto piuttosto per il ti­po di cultura degli stranieri che si stabiliscono da noi, per il loro gra­do di compatibilità, per le loro re­ali possibilità di realizzare quel che sembra essere l’imperativo categorico dei nostri tempi:l’inte­grazione. È un discorso scomodo, ma che va fatto. Cominciando con il rovesciare la pro­spettiva: siamo noi a doverli integrare, o non sono invece loro a dover manifestare il de­siderio di conformarsi alle nostre leggi e alle nostre usanze? Hamad Khan Butt, il padre-padrone-omicida, non è un clandestino: vive nel Modenese da una decina di anni, ha un regolare impie­go come saldatore. Ma non è «integrato». E non lo è per­ché non vuole affatto inte­grarsi. I nostri costumi gli fan­no schifo, le nostre leggi gli fanno un baffo. Vuole conti­nuare a esercitare sulla fami­g­lia una tirannia che noi con­sideriamo barbara, ma che per lui è un inalienabile dirit­to, né più né meno. In questo caso l’applicazione pratica di tale diritto è sfociata in tra­gedia e l’ha portato in carce­re. Ma in migliaia di altre si­tuazioni non si arriva all’omi­cidio e quindi il sopruso re­sta chiuso tra le mura dome­stiche, libero di perpetuarsi. Che cosa facciamo? Lo accet­tiamo nel nome delle «tradi­zioni diverse che meritano ri­spetto» oppure lo contrastia­mo? E nel caso, come? E per fare un passo più in là: vogliamo prendere atto che non tutte le immigrazio­ni sono uguali e che, di conse­guenza, dobbiamo variare e adattare il nostro modo di af­frontarle? Che non è razzi­smo dire che le comunità ci­nesi, laboriose quanto imper­meabili, ci pongono (e so­prattutto porranno nel futu­ro) problemi di convivenza diversi da quelli dei popoli dell’Europa dell’Est? Che c’è un abisso nell’atteggiamen­to con il quale vengono in Ita­lia i magrebini o i filippini? Possiamo cominciare a par­lare, senza che ciò suoni be­stemmia, di immigrazione selettiva? Interrogativi delicati, che in molti Paesi occidentali so­no al centro del dibattito poli­tico, ma che affrontati qui da noi rischiano la parodia, stretti come sono tra il buoni­smo a prescindere della sini­stra e di larga parte del mon­do cattolico e le posizioni del­la Lega Nord, spesso sensate ma altrettanto spesso com­promesse da eccessi non so­lo propagandistici. In questo quadro, il movi­mento di Bossi è comunque riuscito a farsi passare per l’unico baluardo contro l’im­migrazione selvaggia. Ma in realtà questo è un argomen­to che sta a cuore a tutti gli italiani, anche a coloro che politicamente sono rappre­sentati da partiti per i quali il comandamento, ancor pri­ma che «integrazione», è «ac­coglienza», senza eccezioni (un’accoglienza che poi, vis­suta sulla propria pelle, non di rado provoca più di una crepa in convinzioni ideolo­g­iche apparentemente grani­tiche). Ed è sicuramente un tema molto sentito nel Popo­lo della libertà, dove gli ac­centi sono diversi da quelli del Carroccio, ma dove l’ova­zione tributata al sindaco di Milano, Letizia Moratti, quando pochi giorni fa ha pubblicamente pronunciato il suo no alla moschea è più eloquente di mille discorsi. Se, come tutto lascia pensa­re, si andrà ad elezioni antici­pate, non sarebbe affatto ma­le se l’inevitabile rivalità tra i due partiti del centrodestra si manifestasse anche su que­ste questioni cruciali. Non potendo fare alcun affida­mento sull’opposizione, se il Pdl non lasciasse ai leghisti l’esclusiva sulla materia si produrrebbe finalmente an­che da noi quel confronto dal quale ottenere forse qual­che risposta alle domande che ci sbattono quotidiana­mente in faccia Hamad Khan Butt e molti suoi fratel­li musulmani.

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