domenica 27 giugno 2010
Islam
Emanciparsi è un trucco di Valentina Colombo
Narrò Aisha - sia soddisfatto Iddio di lei -: l’Inviato di Dio Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - disse: La vergine viene consultata. Io gli dissi: La vergine si vergogna. E lui: Manifesta il suo consenso con il silenzio. Ma dice un giurista che se un tale s’innamora di una schiava orfana o vergine, e questa lo rifiuta: se egli ricorre ad un’astuzia legale e si presenta con due testimoni falsi, dichiarando che l’ha già sposata e che essa è pubere e consenziente; se il giudice accetta la falsa testimonianza; allora, benché il marito sia a conoscenza della falsità di tutto ciò, gli è permesso consumare il matrimonio». Questo detto di Maometto, contenuto in una delle raccolte principali, fonte della sharia subito dopo il testo coranico e tra l’altro trasmesso dalla giovanissima moglie del Profeta, Aisha, racchiude quello che a mio parere è il rapporto tra l’islam e le donne.
La parola chiave è qui "astuzia legale": un escamotage che consente di aggirare le rigide regole della sharia. Sono le astuzie legali previste dal diritto islamico a far sì che, nonostante la legge preveda la condanna di lapidazione per l’adultera solo nel caso in cui quattro testimoni abbiano assistito all’atto della penetrazione, questa pratica atroce sia in vigore in paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita e l’Indonesia. È di fatto non solo improbabile, ma quasi impossibile che il requisito basilare della condanna per lapidazione sussista. Tuttavia, come si afferma nel detto di Maometto appena riportato, possono essere presentati falsi testimoni che unitamente a un giudice connivente portano alla ufficializzazione della condanna.
Basti pensare alla giovane iraniana di Zahara, condannata a morte con false accuse di adulterio o alla vicenda narrata nel film La lapidazione di Soraya in cui una ragazza viene accusata di adulterio dal marito che vuole soltanto sbarazzarsi di lei. Esiste, tuttavia, anche un rovescio della medaglia. Sempre più spesso infatti le donne musulmane ricorrono alle stesse astuzie legali per raggiungere il proprio scopo principale: la tanto agognata emancipazione sia fisica sia intellettuale dall’uomo guardiano e padrone. Si tratta di una dinamica in atto nella letteratura, per esempio in paesi come l’Egitto, dove, mentre l’integralismo islamico dilaga, trovano spazio scrittrici come Ebtehal Salem. Nel suo racconto Il dovere quotidiano la scrittrice descrive il corpo dell’uomo ricorrendo ad astute metafore per evitare la censura. Suggestive nel testo le immagini create per descrivere da un lato l’impotenza del marito della protagonista come il "grappolo ammosciato sull’erba", dall’altro i capezzoli della donna come "chicchi di melograno rigonfi". L’Egitto non è la Siria, non è il Libano, di sicuro non è più l’Egitto laico e liberale degli anni Sessanta. La Salem conferma che «per quanto concerne l’atteggiamento della donna orientale riguardo al sesso, permangono dei problemi di carattere sociale e religioso». «Questo è il motivo per cui il mio racconto è una storia coraggiosa, nonostante il mio ricorso alle metafore». Ma la letteratura non è l’unico campo in cui le astuzie femminili devono farsi largo in Egitto. Molto spesso la stampa femminile occidentale, che giunge regolarmente nel paese, viene censurata. Ma solo nella copertina, i contenuti non vengono toccati.
La politica dei piccoli passi. In Kuwait, paese dove il radicalismo islamico è imperante, si assiste oggi a un’altra forma di astuzia legale femminile. Nel maggio 2005 le donne hanno finalmente ottenuto il diritto di voto. Peccato che ancora nel maggio 2008, così come era già accaduto nel 2006, nessuna delle 54 candidate al Parlamento kuwaitiano fosse stata eletta. Qualche giorno dopo il voto l’emiro Sabah al Ahmad al Sabah, aveva cercato di porre rimedio alla sconfitta elettorale e ridato speranza confermando quale ministro dell’Educazione Nuriya al Sabih e nominando per la prima volta a ministro della Pianificazione e dello Sviluppo Mudhi al Hammud, entrambe liberali e laiche. Il 1 giugno, in occasione della prima convocazione del neoeletto Parlamento, si è avuta la conferma di quanto la strada del coinvolgimento delle donne nella politica del Kuwait, in particolare, e del mondo araboislamico in generale, sia piena di ostacoli. Al momento del giuramento dei neo-ministri il 20 per cento dei deputati ha abbandonato temporaneamente l’aula perché, come ha spiegato uno di loro «le due ministre hanno violato la legge», che prevede che per potere esercitare il diritto di voto in Parlamento si debbano rispettare le norme sciaraitiche, anche nell’abbigliamento che deve essere «islamicamente corretto». Oggi in Kuwait in Parlamento siedono finalmente quattro donne, due velate e due no. Una di queste, la sessantenne velata Ma’suma al Mubarak, ha già un’esperienza politica come ministro della Salute, ed è già stata oggetto di attacchi dei salafiti che fecero in modo di allontanarla dall’incarico dopo un incendio divampato in un ospedale.
Proprio a seguito di questa esperienza la Mubarak sta facendo scuola alle altre tre colleghe deputate. Incontrandole in Parlamento lo scorso novembre ho chiesto loro quali fossero state le loro prime iniziative, a livello legislativo, a favore delle donne kuwaitiane. Tutte, nessuna esclusa, mi risposero che per il momento non avevano ancora promosso alcuna iniziativa correlata all’ambito prettamente femminile. Il motivo? La necessità di "distrarre il nemico" ovvero i conservatori. Tuttavia una grande vittoria quelle donne coraggiose l’hanno già ottenuta. A seguito di una reazione dei radicali islamici alla presenza di deputate non velate, nella fattispecie Rola Dashti e Aseel al Awadhi, pochi giorni prima del mio arrivo era stata emessa una sentenza della Corte costituzionale in cui si stabiliva che il non portare il velo non rappresentava un oltraggio alla religione islamica. Queste sono le piccole grandi vittorie che porteranno a quelle ancora più importanti quali l’effettiva parità. Alla stessa politica dei piccoli passi si assiste nella rigidissima Arabia Saudita. Quando due anni fa l’attivista Wajeha al Huwaider ha lanciato la campagna affinché le donne sauditepossano guidare, le chiesi che senso avesse concentrarsi sulla guida in un paese in cui le donne non sono ancora persone, in cui esistono solo se accompagnate da un guardiano, in cui vengono lapidate, e hanno da poco ottenuto il permesso di avere una carta d’identità. Lei mi rispose scoppiando a ridere: «Lasciaci raggiungere il volante e poi guideremo il paese!».
Le scuole segrete per ragazze che sfidano i talebani di Viviana Mazza
Sedute sui tappeti di casa, chine sui libri di testo, ragazze di diverse età si aiutano l’una con l’altra a studiare. Amina ha 16 anni, vuole fare la maestra. Abita a Kandahar. La scuola è poco distante da casa, ci si arriva a piedi attraverso le stradine del distretto di Loy Wiyala, ma il padre Abdul rifiuta di mandare lei e le sue sorelle. «Ho smesso di mandare le mie figlie a scuola perché temo che qualcuno le uccida», ha spiegato al Financial Times. «Ho paura dei talebani e anche che possano essere rapite». Genitori come Abdul hanno deciso così di creare scuole clandestine in casa propria, per le ragazze della famiglia allargata. I funzionari nel sud dell’Afghanistan dicono che oggi è una pratica diffusa, anche se non vi sono dati. Come ai tempi dei talebani, che negli anni 90 avevano bandito l’istruzione femminile, ma alcune maestre li sfidavano insegnando in casa e in cantina. E non senza rischi: Loy Wiyala, ad esempio, è usato come rifugio dai talebani che si immolano come kamikaze contro le forze Nato.
I politici occidentali spesso citano i progressi nel promuovere l’istruzione femminile in Afghanistan come segno dei risultati ottenuti in questi 9 anni di guerra. Per l’Unicef, è un successo il numero dei bambini e delle bambine iscritti a scuola. Da circa un milione nel 2001 (tra cui 100mila bambine) sono passati oggi a 7 milioni (2,5 milioni bambine) secondo dati del governo di Kabul. Ma le violenze degli ultimi anni hanno prodotto significativi passi indietro.
Gli attacchi contro le scuole sono in aumento in Afghanistan. L’Unicef ne ha contati 348 nel 2008 (tra cui le 15 ragazze aggredite con acido a Kandahar) — il triplo rispetto al 2007, secondo l’organizzazione Care. Sono stati 610 nel 2009, un’escalation legata anche alle elezioni (le scuole sono state usate come seggi). Nel sud del Paese, che resta sotto controllo talebano e dove i progressi dell’offensiva Nato sono finora scarsi, l’Unicef stima che dal 2008 a oggi almeno il 50% ma forse l’80% delle scuole siano state costrette a chiudere (caos e violenze ostacolano anche la raccolta di dati). La paura di andare a scuola è grande non solo nelle campagne ma anche in città, non solo in certi distretti tradizionalmente sotto controllo talebano ma anche in aree dove le comunità locali appoggiano l’istruzione delle ragazze come a Kunduz, nel nord, dove a maggio si sono registrati tre attacchi contro scuole femminili con gas tossici— proprio come l’anno scorso.
L’Unicef mira ad aumentare del 20% il numero di bambine iscritte alle elementari e soprattutto ad assicurare che restino a scuola. Quando compiono i 13 anni, molti genitori rifiutano di mandarle, non solo per paura che restino uccise. Un problema frequente è che non accettano che l’insegnante sia un uomo— le professoresse sono poche. Un circolo vizioso. In un paese in cui l’80% delle donne sono analfabete, servono ragazze come Amina per spezzarlo.
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