lunedì 14 giugno 2010

Donne e terrorismo islamico


Al Qaeda si affida a una falange non più compatta: fazioni affiliate, altre semplicemente ispirate e cellule autonome. Con la crescita esponenziale delle cosiddette «mamme del terrore». Si tratta spesso di convertite europee o americane che, abbracciata la nuova fede, cercano di porre un sigillo aderendo alla lotta armata. Altre sono invece mogli, figlie e sorelle dei mujaheddin che si conquistano un posto in un ambiente mai generoso con la realtà femminile Sostengono di combattere «crociati e sionisti», ma alla fine le loro vittime sono in maggioranza musulmani. La spada jihadista falcia cittadini inermi in Paesi dove dovrebbe reclutare. E’ il caso del Pakistan, che fa da piattaforma per operazioni oltre confine ma subisce, al tempo stesso, le azioni violente. E all’esterno Al Qaeda si affida — perché non ha alternative — a una falange non più compatta. Ci sono fazioni affiliate, altre semplicemente ispirate e cellule autonome. Con la crescita esponenziale dei «nomadi della Jihad» e delle cosiddette «mamme del terrore».

A Teheran Una cerimonia del 2006 in un cimitero di Teheran con donne iraniane che si votano ad attacchi suicidi. I primi sono uomini cresciuti in Occidente ma con origini asiatiche o mediorientali. Li definiscono nomadi perché oggi sono a New York, il mese dopo a Oslo e poi li trovi a Peshawar. Viaggiano, si auto-indottrinano (magari su Internet), trasformano la loro camera in una minuscola trincea, seguono predicatori a loro molto somiglianti. E’ il caso dell’imam Al Awlaki, nato in New Mexico da una famiglia yemenita, e oggi faro di chi non appartiene ad un gruppo. I nomadi appartengono al mondo e a nessuno. Si sentono isolati o rifiutati. Poi c’è qualcuno che intercetta il loro malessere, lo trasforma in odio.

Anche le donne seguono un percorso analogo. Alcune di loro sono delle convertite europee o americane che, abbracciata la nuova fede, cercano di porre un sigillo aderendo alla lotta armata. Altre sono invece mogli, figlie e sorelle dei mujaheddin che si conquistano un posto in un ambiente mai generoso con la realtà femminile. O ancora persone che hanno vissuto esperienze dure. Il riscatto arriva con un impegno portato fino in fondo. Visto che sono loro a farsi saltare per aria. Su un treno russo o nelle vie irachene. E non è raro che si portino dietro i loro bambini. Uno scenario emerso, nello stesso periodo, in luoghi lontani tra loro. Negli Usa, dove sono state incriminate una madre di famiglia di 31 anni, Jamie Paulin Ramirez, legata ad una cellula in Europa, e Collin LaRose, 46 anni, che progettava di uccidere un vignettista svedese. Nello Yemen hanno fermato un’australiana con due bimbi.

Le nuove dinamiche qaediste sono il cuore del rapporto sul terrorismo internazionale preparato dalla Fondazione Icsa con la collaborazione di diplomatici, uomini della sicurezza, esponenti delle forze armate e ricercatori. Uno studio che verrà presentato domani a Roma al ministro dell’Interno Maroni dal presidente della fondazione, l’onorevole Marco Minniti, e dal prefetto Carlo de Stefano.

Dall’analisi emerge come «Al Qaeda 2010» abbia lasciato le redini delle azioni allo spontaneismo armato— a volte un solo elemento— e a gruppi collegati. La vecchia guardia, invece, ha conservato la guida ideologica e propagandistica. Gli attacchi sono portati da formazioni «ibride». Seguono un’agenda locale — lotta al regime, separatismo— compiono nel loro teatro la gran parte degli attacchi, cercano però — quando è possibile— l’azione internazionale. Si affidano a un commando bene addestrato come negli hotel di Mumbai (2008) oppure mandano in missione un attentatore solitario (fallito attacco al jet Northwest a Natale). E’ questo tipo di formazioni a incendiare i vari fronti regionali, con quello afghano-pachistano in posizione centrale. Seguono l’Iraq, la Somalia, la Penisola arabica e l’Algeria.

Parliamo comunque di movimenti flessibili e adattabili. Un terrorismo che al fianco dei militanti tradizionali presenta estremisti definiti, frettolosamente, fai-da-te. Perché non sempre sono dei «lupi solitari» come l’attentatore di Milano, Mohammed Game. Ci sono situazioni dove l’aspetto individuale emerge solo nella fase finale. Alle loro spalle c’è un network. Piccolo, ridotto, magari composto da familiari. Ma è comunque una struttura leggera in grado di armare la mano di un uomo. E’ quello che è successo poche settimane fa nel centro di New York con l’autobomba del cittadino americano nato in Pakistan Faisal Shahzad.

C’è chi poi arde dal desiderio di combattere in Somalia, nello Yemen, nell’area tribale pachistana. Ne sono partiti a dozzine dall’Europa del Nord— i tedeschi in prima fila — e dagli Usa. Alcuni hanno trovato quello che volevano — il martirio — altri sono stati rispediti a casa dai reclutatori che non si fidavano troppo di teste calde con idee molto confuse. Altri ancora sono stati rimandati in Occidente in attesa di un ordine. Perché i «nomadi» sono davvero delle bombe a tempo.

0 commenti: