sabato 6 agosto 2011

Sui nomadi


Pretendere sicurezza e case agibili quando si offre un servizio alla comunità è comprensibile. Pretenderle quando il servizio è costituito da spaccio e malavita è inaccettabile. Potrebbe sembrare di cattivo gusto commentare col dito ammonitore una tragedia quale può essere la perdita di un bambino, ma nel momento in cui i genitori dello stesso si scagliano contro il Comune per la scarsa vivibilità dei campi rom, il commento diviene lecito. La notizia è apparsa su tutti i tg e i giornali e la storia del piccolo rom morto folgorato nel campo di Tor de’ Cenci, a Roma, ha fatto già il giro del web. “Stava camminando carponi” racconta la nonna del bimbo “all’improvviso ho sentito una piccola esplosione, poi piangere e un rantolo”.

Gli zii lo avevano conosciuto da poco, tornati solo di recente dall’Olanda e già con l’hobby del paragone tra l’uno e l’altro luogo di residenza: “Una fine orribile che si sarebbe potuta evitare, se solo i nostri connazionali vivessero in condizioni più umane”. Ed ecco la stura, un lungo elenco delle condizioni disastrose in cui versa il suddetto campo rom: “una fiorente attività di spaccio di eroina e cocaina”, “fili elettrici scoperti e bombole del gas lasciate in giro”. L’aspetto più deprimente è che i locali si lamentano come se la colpa fosse dello scarso intervento del sindaco, come se gli spacciatori fossero esterni e le bombole le sganciassero in mezzo al campo gli assessori della giunta.

A chiusura dell’articolo, venenum in cauda, l’intervento di un ragazzo rom di 18 anni, Feritz, che si lamenta del fatto che ci sono più di quattrocento individui nel campo di Tor de’ Cenci e che le persone vivono come nei carri bestiame. E aggiunge che non ha un’altra “scelta su dove vivere”. Feritz, tu puoi scegliere: puoi scegliere un lavoro congruamente stipendiato, puoi scegliere un domicilio regolamentato e non abusivo, puoi scegliere di allontanarti dalla topaia in cui hai trovato ricetto e di non avere nulla a che fare con la malavita che puntualmente viene ospitata nei campi nomadi. Puoi recarti in chiesa, puoi trovare una moglie italiana, puoi essere a tutti gli effetti un cittadino di Roma. Devi solo abbandonare la cultura parassita che inevitabilmente impregna i tuoi educatori, i tuoi parenti, i tuoi compagni di campo.

Altro veleno, stavolta in un servizio di Studio Aperto: una donna rom che esprime la sua indignazione perché “nessuno viene a pulire” il posto dove vive. Parliamone: ci sono persone che pagano tasse sostanziose per una nettezza urbana di qualità minima, con strade sporche e marciapiedi invivibili, e lei chiede che vengano gratis a mondarle casa? Per quanto ancora dovremo aspettarci il nomade questuante e non il nomade lavoratore in regola, che si guadagna pane, casa e -perché no?- nettezza urbana? Tremiamo ancora quando ci troviamo da soli in una stazione con la sola compagnia di un nomade, saturi come siamo delle notizie atroci che riguardano i tanti Feritz sparsi per la capitale, e alla fine proprio chi vive nelle Torri di Avorio ci chiede comprensione ed ospitalità.

Eppure di iniziative ce ne sono state: alcune del tutto inutili, come la distruzione di molte baraccopoli romane, puntualmente ricostruite, altre bollate come progetti discriminatori dall’opposizione. La schedatura dei nomadi ne è un esempio; in quest’ultimo caso si era proposto di prendere le impronte digitali di tutti gli individui rom e sinti in modo tale che essi fossero provvisti di un documento d’identità valido, ma… ANATEMA! Vogliono marchiarli come vacche da macello! Discriminazione razziale! Fu esplosione di polemiche prima ancora che la proposta erompesse dalle labbra del Governo. Non si pensò nemmeno che, a prescindere dalla discriminazione, questo strumento avrebbe permesso l’identificazione di migliaia di nomadi e che non solo dalla parte degli ospitanti, ma anche dalla parte degli ospiti ci sarebbe stato un netto miglioramento della qualità della vita: basti pensare a quanti datori di lavoro sarebbero stati più predisposti ad assumere manodopera con regolare carta d’identità e quanti, invece, ora come ora, rifiutano di assoldare in nero. Sarebbe stata una chance di occupare un posto di lavoro regolare.

E allo stato attuale forse avremmo tolto ai disoccupati nomadi l’occasione di giustificare la propria inattività e di debellare una volta per tutte l’odiosa frase: “Ma nessuno vuole un rom come dipendente in Italia”. Feritz, sei causa del tuo male: ora piangi te stesso. La carità cristiana invocata da Benedetto XVI è, sì, uno slancio, un impeto che dovrebbe attraversarci e farci dire: “Ti aiuterò io”. Però, Feritz, devi anche incoraggiarla: lamentarti di ciò che hai, nella tua posizione di estraniamento dalla legge, non è un buon inizio. Non sai quante volte di fronte ad una ragazza-madre con un bimbo aggrappato al bel seno, ci si è stretto il cuore alla sua richiesta d’aiuto e in contemporanea la nostra mano è scattata, impulsiva e guardinga, alla borsa. Non prendere il fatto per quel che è: chieditene anche le cause, Feritz. Nel corso degli anni abbiamo subito furti, siamo stati aggrediti, siamo stati scippati, i nostri bambini sono stati malmenati addirittura a scuola, un luogo che dovrebbe appianare tutte le faide etniche: rispondici, Feritz, abbiamo forse tanto torto a diffidare?

1 commenti:

samuela ha detto...

Per stessa ammissione di chi studia la cultura rom -con grandi difficoltà perchè i rom esigono che la loro lingua sia riconosciuta ma pretendono che i gagi non la imparino- qualunque spazio su cui essi mettano piede è un puro spazio d'uso, per estensione compresi gli essere viventi che su quello spazio vivono. Qualunque cosa può essere fatta a chiunque. Tutto fuori dal campo è nemico, pezzo di carne da utilizzare, a prescindere dalle condizioni oggettive. Questo va oltre ogni possibilità di condurre un parassita/predatore alla ragione. Di supplicare la loro ragione. Si parla al nulla più assoluto e feroce, è meglio che la giornalista lo sappia.