mercoledì 17 agosto 2011

Crisi economica

L'Europa e la crisi perpetua ... di Marcello Veneziani

L’Europa ha due strade per uscire dalla crisi: fare un passo indietro e rompere l’unione economica, tornando alla piena sovranità degli Stati nazionali o fare un passo avanti e fondare davvero l’unione politica europea con un suo effettivo governo centrale. Oggi è nel mezzo, come si addice a chi costeggia il baratro. Ha i vincoli dell’unione monetaria ma non ha le prerogative della sovranità politica, è schiava del mercato e non è padrona del suo destino. È esposta a tutte le intemperie perché non ha una Casa e nessuno che possa decidere di aprire, socchiudere o chiudere la porta. Prima ancora dei poteri forti che mangiano quote di sovranità popolare e nazionale, l’Europa soffre i poteri deboli di un consorzio economico privo di decisione politica unitaria e di autorevole legittimazione democratica. Deve affidarsi a provvisorie coppie reali, come la Merkel e Sarkozy, prive di un mandato effettivo di sovranità per dettare legge agli altri Stati sovrani, o deve scivolare nel baratro della dipendenza economica o trascinati dal carro americano. A questo punto sono plausibili due vie: una di ripresa degli Stati nazionali con le loro piene sovranità politiche, popolari e monetarie, ammettendo che l’Euro non riesce ad attraversare la tempesta e dunque si scioglie. Fare il passo indietro, allacciare patti ma evitare le unioni. Oppure fare quel benedetto passo avanti. Come? Innanzitutto lavorando alla nascita d iuno Stato Europeo a partire dalla elezione popolare d iun capo dello Stato europeo. O meglio, se si vogliono preservare gli assetti interni e le differenze tra Stati monarchici e Stati repubblicani, un presidente del Consiglio europeo eletto dal popolo, con un governo europeo. L’investitura popolare rappresenterebbe simbolicamente l’unità del popolo europeo, darebbe autorevolezza al suo leader e al suo governo, che non sarebbe più una commissione col suo presidente ma un vero decisore politico, un sovrano seppure a tempo, con un suo governo super partes. E consentirebbe di rimediare al peccato originale dell’ Unione europea: quello di non essere stata mai decretata da un referendum del popolo sovrano europeo. Un mutamento così importante nella vita e nella costituzione degli Stati che non è mai passato dalla legge di fondazione della democrazia, il voto dei cittadini, la deliberazione dei sovrani. So che una scelta di questo genere comporterebbe mille traumi, problemi e controindicazioni. Ma non possiamo continuare con un’Europa impotente, che vive un rapporto diseguale con il principale partner, gli Stati Uniti d’America, che ha un suo leader a investitura popolare. Ma anche con gli altri grandi soggetti mondiali: la Russia, la Cina, l’India. La crisi finanziaria da pericolo può essere trasformata in una formidabile occasione costituente. In che cosa cambierebbe l’assetto europeo? Avrebbe unità di decisione in politica estera, militare, economica. Le identità nazionali resterebbero sul piano delle culture e dei popoli, e il campo delle sovranità territoriali su base nazionale riguarderebbe alcuni ambiti essenziali dell’assetto pubblico, quelli che più toccano la storia, il carattere e la vita dei popoli. Ci sarebbe poi un ambito intermedio in cui le differenze di partenza molto forti dovrebbero essere gradualmente superate: penso al sistema sanitario e previdenziale, per esempio, ad alcune leggi di sistema della tutela ambientale o dei codici civili e penali, insomma a una nutrita sfera di competenze in movimento. Questa attuale è un’Europa dimezzata, anzi decapitata. All’Europa manca oggi la testa e manca il simbolo visibile della sua unione, che è alla base di un vero patriottismo europeo, fonte di coesione e di proiezione nel futuro. Manca la grande politica che sa fondare nuovi assetti, vorrei quasi dire nuove tradizioni. Una confederazione europea sarebbe oggi una grande novità sul piano internazionale, un’iniezione di fiducia sulle piazze, i mercati e i palazzi d’Europa, e finalmente un investimento politico sul futuro, con un’investitura di popolo, come si addice a una vera democrazia. Ciò ridisegnerebbe la mappa dei poteri, i governi ripensati come governatorati, il ruolo della Banca centrale europea, interno e non superiore alla sovranità popolare e politica, la forza di un Grande Interlocutore unito sul piano internazionale. Da anni, forse da decenni, non nascono più novità, non si produce più storia, si gioca sulla difensiva e sulla ripetizione dell’esistente. È il momento di giocare all’attacco, di aver l’audacia di spostare l’agenda dei problemi dalle miserie del presente all’ambiziosa grandezza di un progetto futuro. E se va male, che tornino gli Stati nazionali, piuttosto che queste servitù senza potestà. Riportiamo la Borsa dentro la casa europea e non l’Europa dentro la Borsa. Siamo uomini, popoli e culture e non indumenti, carte e monete.

L'Fmi imbroglia (anche l'italia). Ecco la prova di Marcello Foa

Da molto tempo diffido del Fondo monetario internazionale, delle sue analisi e delle riforme che propone ai singoli Stati. L’Fmi non è sottoposto al controllo popolare ed è gestito secondo criteri che restano avvolti nell’ombra. Basta grattare un po’ la superficie per accorgersi che qualcosa non va e che l’autorevolezza che tutti gli attribuiscono è ingiustificata e pericolosa, così come ingiustificato e pericoloso è il potere immenso delle agenzie di rating. Ora i miei sospetti trovano confermo, grazie a un’inchiesta indipendente, meritoriamente ripresa recentemente dall’Unità, in un bell’articolo di Ronny Mazzocchi, che vi invito a leggere qui. Mi ha colpito questa frase: «la ricerca del FMI partiva da posizioni già predefinite e che spesso le raccomandazioni di politica economica non seguivano le analisi condotte». E ancora: “Buona parte dell’attività di ricerca del Fondo monetario ha subito in quegli anni un fortissimo condizionamento politico con il risultato di renderla funzionale alle direttive che i vari direttori generali avevano stabilito e che coincidevano proprio con il Washington Consensus” ovvero con le teorie elaborate dall’economista John Williamson d’intesa con certe lobby economico-finanziarie ben radicate nell’establishment statunitense.

Dunque: il Fmi mirava a raggiungere obiettivi che non erano affatto coincidenti con quelli degli Stati membri, ma, piuttosto, con quelli di queste lobby e che hanno condotto molti Stati sull’orlo della catastrofe (strozzati dai debiti concessi dallo stesso Fmi e dalla Banca Mondiale), con l’ingiustificato trasferimento di risorse e di aziende nazionali in mani straniere ovvero in quelle lobbz che condizionano lo stesso Fmi. Questo non è liberismo, ma manipolazione dei mercati. Pare che, secondo quanto scrive Marzocchi, con la direzione di Strauss-Kahn la situazione fosse migliorata, perlomeno sui risultati delle ricerche, che non sarebbero stati più manipolati; però dubito che l’impianto sia cambiato. E allora smettiamola di considerare il Fmi come un’autorità suprema indiscutibile e l’Italia non si faccia dettare l’agenda da organismi internazionali come questo, che non operano certo nel nostro interesse. Quando lo capirà la nostra classe politica?

1 commenti:

Massimo ha detto...

Meglio il passo indietro subito e ritornare alla piena Sovranità e Indipendenza Nazionale.