venerdì 2 settembre 2011

Punti di vista (sulle "primavere arabe")

"Ideologia e ruolo di generali egiziani e capetti libici con cui ci tocca trattare".

Roma. I generali egiziani che hanno sottoposto a un brutale esame ginecologico le donne arrestate in piazza Tahrir per appurare se fossero o no vergini – cioè: se fossero o no puttane – non soltanto si sono tutti specializzati nell’accademia militare di West Point, ma hanno sempre fatto parte della “catena di comando” americana. Da questo orribile episodio è bene partire per mettere a fuoco ruolo e ideologia non solo del Consiglio supremo delle Forze armate che oggi governa in Egitto, ma anche di tutti i regimi militari arabi, incluso quello libico passato – e quello futuro – che senza alcuna ragione in occidente sono sempre stati considerati laici. Infatti, né la cricca militare che dal 1970 governa con gli Assad la Siria, né quella – più legata ai servizi segreti – che governava con Saddam Hussein l’Iraq, né i generali libici sodali e complici – sino a quando non l’hanno tradito – di Muammar Gheddafi, né il Fln algerino e le sue propaggini attuali, né i militari che governano con Omar al Bashir il Sudan e tantomeno quelli che costituiscono il nerbo del regime di Abdullah Saleh in Yemen sono mai stati “laici”. L’equivoco nasce con il golpe di Gamal Abdel Nasser, poi con la vittoria del Fln in Algeria, poi del Baath in Iraq e poi in Siria. Da allora, il nazionalismo panarabo, il nasserismo, il baathismo sono confusi in occidente col nazionalismo turco di Kemal Atatürk – con cui nulla hanno a che spartire, anzi – così come le rutilanti divise da generali di questi leader – lo “spirito da caserma”, nella peggiore accezione del termine, che informa i loro discorsi e atti di governo, è scambiato da fior di analisti come testimonianza di laicismo. Nulla di meno vero.

Tutti i dittatori arabi di stirpe nasseriana – quindi anche Gheddafi – baathista hanno sempre governato seguendo in pieno il motto di Michel Aflaq, fondatore del Baath: “Il nazionalismo arabo è il corpo. L’islam è l’anima!”. Il fatto è che sin dal momento in cui hanno conquistato il potere – sempre con golpe militari – questi rais hanno avuto ben chiaro di non saper maneggiare alcuna ideologia, alcuna visione del mondo, alcuna proposta di società che non fosse interamente e profondamente radicata nell’islam. La sharia è il loro punto di riferimento legislativo costante, ed è sulla sharia e nella strettissima alleanza con gli ulema (e non raramente con gli stessi Fratelli musulmani) che si sono basati per un cinquantennio per modificare in senso islamista le legislazioni e le costituzioni – quelle sì laiche – ereditate dal periodo mandatario o coloniale. Loro modello di riferimento è stato un “progetto di Costituzione Islamica” messo a punto dall’Organizzazione del consiglio islamico (Oci) su ispirazione saudita, negli anni Settanta.

Non puoi islamizzare i generali islamizzati

Oggi, l’apparente islamizzazione dell’Egitto non è dunque un “regalo avvelenato” di piazza Tahrir che avrebbe sepolto un regime corrotto, ma perlomeno laico. L’islamizzazione piena della società egiziana è un processo ormai quarantennale, di cui i generali egiziani hanno fatto sempre parte. La novità dell’Egitto post Mubarak è un’altra: per la prima volta dal 1954 i Fratelli musulmani hanno libertà d’azione e possono condurre quelle pressioni vincenti sul regime che hanno sempre vittoriosamente condotto, partecipando in pieno al processo politico e democratico. Partecipazione che – si è subito visto – fa peraltro molto bene alla Fratellanza perché nel momento stesso in cui da forza di opposizione è diventata potenziale forza di governo è entrata in crisi, si è spaccata e ha rovinosamente perso consensi (dal 24 per cento al 17 in quattro mesi secondo Gallup). Si vedrà cosa accadrà alla Fratellanza libica, su cui sempre più si era appoggiato Gheddafi. Certo è che il progetto di Costituzione presentato pochi giorni fa dal Cnt non è affatto basato su Fraternité, Liberté, Egalité, come millanta a Parigi, davanti a Nicolas Sarkozy, Mahmoud Jibril, ma – proprio come in Egitto dal 1980 e in Algeria dal 1985 – sulla sharia quale “fonte unica di ispirazione della legislazione”. Dunque il ruolo dei generali egiziani, così come dei generali che hanno un peso determinante nel Cnt libico, sarà esattamente opposto e speculare a quello dei generali in Turchia, unici – ma soccombenti – difensori di una strenua laicità dello stato. L’essenza del regime egiziano, da Nasser a Mubarak, passando per Sadat, che ha avuto nelle Forze armate la sua spina dorsale, è intimamente e storicamente intrisa non solo di islam, ma anche di islamismo. L’alleanza dei golpisti del 1952 (il generale Neguib, i colonnelli Nasser e Sadat) con i Fratelli musulmani non era tattica o opportunistica, ma si basava su una piattaforma comune e condivisa di nazionalismo e aspirazione a una società retta su principi islamici. I due momenti trovavano il loro punto d’unione nell’ossessione comune della distruzione dello stato di Israele, tramite il jihad, la guerra santa nella più fanatica accezione islamista, saldamente motivata dall’ “oltraggio” di uno stato degli ebrei sul “sacro territorio dell’islam”. Ossessione pienamente condivisa non solo da Gheddafi, ma anche da quell’ Abdessalam Jallud – suo braccio destro sino al 1993 – che oggi – ahimé, con la benedizione del ministro Franco Frattini – si prepara a giocare un ruolo centrale, sia pure in ombra, nella “nuova Libia”. La rottura di Nasser con la Fratellanza nel 1954, e le persecuzioni dei suoi militanti, non miravano affatto a colpire la sua piattaforma islamista, ma le continue trame, complotti e intrighi intessuti nella tradizione che portarono all’assassinio del fondatore Hassan al Banna nel 1948. Ne era ben cosciente lo stesso Nikita Kruscev, che prima dell’abbraccio della sua Urss all’Egitto nel 1956 sosteneva pubblicamente che quello egiziano era un regime “retrogrado e semifeudale”. Certo, l’essenza dell’Egitto nasseriano, dall’ideologia più che confusa e intrisa della giovanile ammirazione per il nazismo, era quella “Société militaire”, descritta da Anouar Abdel Malek, che traduceva il “socialismo arabo” nel controllo dell’economia da parte dei generali che, superati i 50 anni, andavano in pensione per divenire amministratori delle tante società che gestivano un’economia largamente nazionalizzata (e quindi asfittica). Sì che, sino a oggi, l’esercito – sia nelle sue strutture che in quella grande sorta di Iri al cous cous che controllaè stato ed è l’unico a garantire in Egitto una pur minima finzione di “ascensore sociale”, riservato sempre però al massimo ai ceti medi. Per di più, il “ruolo nazionale” dell’esercito egiziano e il suo indubbio prestigio di fronte al paese (riscontrato nei giorni della rivolta di febbraio) si sono comunque dovuti sempre confrontare con l’impietosa realtà: una serie rovinosa di sconfitte sul campo contro Israele (1956 e 1967) e anche nell’ enorme suo impegno nella lunga guerra civile yemenita (1961- 1966). Solo Sadat, nel 1973, riuscì a non perdere la guerra del Kippur, ma Ariel Sharon, che minacciava il Cairo a poche decine di chilometri su suolo egiziano, fu fermato non dai carri armati egiziani, ma dall’embargo petrolifero arabo. La prova provata della totale permeabilità all’islamismo delle Forze armate egiziane emerse con crudele chiarezza nel 1981, con l’attentato a Sadat. Nonostante il recente arresto del fratello Muhammad, implicato nelle attività di un gruppo fondamentalista, il manipolo di attentatori guidato dal sottotenente Khalid al Istanbuli si piazzò infatti indisturbato e incontrollato sul camion che apriva la parata militare, per fare così liberamente fuoco sulla tribuna d’onore crivellando Sadat e decine di alti dignitari. Nei decenni successivi, Mubarak in tanto ha tenuto ben lontano da ogni forma di rappresentanza politica (e dai quadri dell’esercito) gli islamisti e i Fratelli musulmani, in quanto ha fatto propria la loro piattaforma politica e ha favorito la piena reislamizzazione dell’Egitto. Nulla di originale, questa era la strategia di Sadat – che si vantava di esibire sulla fronte una vistosa zabibah, il callo che il tappeto lascia sulla pelle del fedele musulmano fondamentalista quando si inchina nella preghiera – che infatti già nel 1980 aveva modificato la Costituzione che da allora prescrive che la sharia non è più “una” ma “la” fonte di ispirazione della legislazione. Esempio perfetto di questa politica è stato il bando e il ritiro del passaporto egiziano imposto da Mubarak allo sheikh Yusuf Qaradawi, teorico di riferimento del fondamentalismo dei Fratelli musulmani e star della predicazione shariatica su al Jazeera, che ha sempre esaltato la gloria dei kamikaze che facevano strage di civili in Israele e ha emesso una fatwa in cui autorizzava anche le donne a diventare kamikaze. Però, dopo averlo allontanato come militante politico, in piena consonanza con l’ideologia islamista di Qaradawi, il regime di Mubarak, ha organizzato il 12 maggio 2002 un concerto al teatro dell’Opera del Cairo, alla presenza di tutte le massime autorità egiziane, in cui la cantante Amal Maher ha esaltato le gesta e la figura della prima kamikaze palestinese donna, Wafa Idris, che si era fatta esplodere il 12 gennaio precedente a Rehov Jaffa, nel pieno centro di Gerusalemme, uccidendo un pensionato israeliano di 81 anni e ferendo decine di civili. Ovviamente, il testo della elegia sanguinaria cantata da Amal Maher rispecchiava in pieno la “teologia del terrore” di Yusuf Qaradawi.

Mubarak venduto come Ceausescu

La piena condivisione dei nazionalisti arabi della piattaforma islamista non si limita alla reislamizzazione normativa più spinta. Emerge infatti con cruda chiarezza nel conflitto tra islamisti e copti in Egitto, così come nella persecuzione degli ebrei e nel mantenimento dei lavoratori immigrati nello stato di dhimmi in Libia. Diversa la storia della Jamahiriya libica, ma solo per quanto riguarda il caotico sistema di rappresentanza politica. Non è dunque per solo opportunismo politico che tutti i rais arabi cosiddetti laici, negli ultimi trenta anni, gli Assad padre e figlio in testa, hanno fondato migliaia e migliaia di nuove moschee, facendo solo molta attenzione a impedire che venissero gestite da ulema legati ai Fratelli musulmani. Un generale contesto arabo che ancor più spinge il feldmaresciallo Hussein Tantawi e i suoi colleghi del Consiglio supremo della Forze armate egiziane a cedere – come ben si vede in queste settimane – alla tentazione di sfruttare il colpo di fortuna dell’11 febbraio e, sul corpo di Hosni Mubarak gettato in pasto alle tricoteuses, per costruire un regime bonapartista al cous cous. Le prime sue mosse di governo, a partire dalla nuova legge elettorale, delineano con chiarezza questo percorso. Come ha sempre fatto Mubarak, sono molto sensibili alle istanze degli islamisti, anche perché costituiscono, col magro 17 per cento attribuito dai sondaggi più seri ai Fratelli musulmani (in calo di 7 punti in pochi mesi) il più forte partito egiziano. Ma soprattutto sanno di potere godere della straordinaria frantumazione di tutte le forze politiche, nessuna delle quali pare oggi in grado di raggiungere il 10 per cento dei consensi. La polverizzazione dei partiti offre dunque oggi ai generali egiziani una straordinaria giustificazione per mantenere una tutela reale e anche formale sull’intero processo politico e sui futuri governi, a partire da quel sacrificio del capro espiatorio che sarà il processo a Hosni Mubarak. Simbolo assieme cinico e avvincente di questo processo è la vicenda di quel nuovo Fouché arabo che è il generale Omar Suleiman. Pochi lo hanno notato, ma quello che per un ventennio è stato il braccio destro politico di Hosni Mubarak, colui che rappresentava le posizioni dell’Egitto in tutti i contesti internazionali – lasciando a Mubarak solo il suo pomposo ruolo protocollare – e che molti indicavano come suo possibile successore (magari col ruolo di tutore del figlio Gamal), non solo non è in galera assieme al suo principale, non solo non è in esilio, ma continua a fare “l’uomo ombra” del regime. La ragione è semplice: è stato Omar Suleiman l’autore del tranello in cui Mubarak è caduto l’11 febbraio, quando ha subito il putsch dei generali organizzato (su diretta ispirazione degli Stati Uniti) da lui stesso e da Tantawi. La prova è evidente: Mubarak, per forza di carattere, per sfinitezza fisica (è in fase terminale per un cancro), forse avrebbe rifiutato comunque l’esilio in un momento in cui aveva tutte le carte per pretenderlo e comunque organizzarlo. Ma è evidente che non ha tenuto con sé nella villa di Sharm el Sheikh i suoi due figli, Gamal e Alaa, che sapeva benissimo avrebbero rischiato se non la vita, quantomeno l’ergastolo, se non avesse avuto ampie assicurazioni di immunità per sé e per la sua famiglia. Assicurazioni che forse Omar Suleiman e Hussein Tantawi intendevano mantenere – le prime settimane Mubarak e famiglia continuarono a godere a Sharm dello status e della protezione degne di un ex rais – ma che hanno subito tradito non appena la piazza ha iniziato a rumoreggiare e a chiedere conto delle malefatte del regime. Siccome Tantawi e Omar Suleiman di quelle malefatte (come ovviamente sostiene ora la difesa di Mubarak) erano pienamente complici e beneficiari, hanno prontamente deciso di dare letteralmente in pasto il vecchio rais, con una piccola corte di loro subordinati, evitando il ruolo di coimputati facendosi giustizieri. “Mubarak aveva la totale conoscenza di ogni proiettile sparato”: con queste parole Omar Suleiman si è volutamente fatto carnefice del suo benefattore e padrone e conta – con eccellenti possibilità di successo – di far dimenticare alla Corte che giudica Mubarak e agli egiziani che dal 28 gennaio all’11 febbraio 2011, centinaia di egiziani sono morti nelle piazze per ordine di un governo in cui lui ricopriva la carica di vicepresidente, mentre Hussein Tantawi era ministro della Difesa, quindi il responsabile diretto, quantomeno a livello politico, della repressione e delle stragi. Uno schema non nuovo, la ripetizione con una non piccola differenza dell’apparente rispetto delle regole del diritto, di quella ignobile farsa che fu il processo che portò alla fucilazione – per mano del suo capo dei servizi e del suo ministro della Difesa – di Nicolae Ceausescu (schema che appare identico anche nella caduta di Gheddafi). Con la sola differenza di un evidente patto, di un do ut des, che i due aspiranti Bonaparte del Cairo, così come quelli di Bengasi, hanno stretto con gli islamisti, che prevede la loro amnesia sulle proprie palesi responsabilità in cambio di sensibili cedimenti alla loro piattaforma politica. Con una eccezione che riguarda però unicamente l’Egitto (in Libia si dovrà vedere, ma le premesse sono pessime): la politica estera e i rapporti con Israele, su cui non possono cedere. La corruzione dilagante nei vertici militari egiziani era ed è finanziata dal versamento annuale di due miliardi di dollari da parte degli Stati Uniti. Buona parte di questa manna era ed è impiegata per l’acquisto di armamenti (ovviamente negli Stati Uniti) con relative prebende e mazzette per i vertici delle Forze armate egiziane. E’ quindi assolutamente improbabile che i generali egiziani, per bonapartisti e opportunisti che siano, vogliano e possano correre il rischio di inaridire questa fonte zampillante di denaro che finisce in parte direttamente nelle loro tasche. Da qui, il probabile loro rispetto dei fondamentali della politica estera di Mubarak, anche nei confronti di Israele, magari con qualche strappo verbale.

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