martedì 7 dicembre 2010

Milano, Abdel Hamid Shaari


E' il titolo di un incontro che nel 2001 si teneva al celebre Istituto culturale islamico di viale Jenner, fondato nel '89 da Abdel Hamid Shaari. Il candidato sindaco alle prossime comunali di Milano nella lista civica "Milano Nuova" non è mai stato condannato, ma la sua vita è costellata da luce e ombre

Abdel Hamid Shaari, presidente del Centro islamico di Viale Jenner si candida con una lista civica per le amministrative di Milano. Si presenta come l'uomo del dialogo: la grande lista raccoglierebbe infatti non solo extracomunitari islamici, ma anche di altre religioni e paesi. Anzi, essendo Shaari «non contrario all'integrazione, ma all'assimilazione: vorrei vivere in una società dove posso fare quello che fanno tutti gli altri, sia nel rispetto dei doveri che nel godimento dei diritti», gli obiettivi della sua lista non possono non risultare a prima vista encomiabili.

Un po' come le iniziative del Centro islamico, che si rende disponibile ad iniziative socialmente utili come corsi di lingua araba, e addirittura scuole per imam (per controllare il messaggio religioso). Ci si trova dunque innanzi ad un virtuoso esempio di islam moderato? Chi è veramente il nuovo candidato milanese? A ripercorrere le tappe principali della vita di Shaari emergono certo tanti passi virtuosi. Ma anche diverse ombre: pur non essendo stato mai indagato, Shaari è stato spesso lambito da episodi poco limpidi. Di origine libica giunge in Italia nel '67, quando si iscrive al Politecnico di Milano (architettura); poi si laurea in ingegneria. Risale agli anni dell'università anche la riscoperta dell'Islam: Shaari sembra essersi integrato perfettamente nel capoluogo lombardo dove rimane a vivere.

Nel '89 il passo che lo porta all'attenzione pubblica: insieme a Ahmed Nassreddin e Sa'ad Abu Zeid fonda l'ormai celebre Istituto culturale islamico di viale Jenner. Viene attivata una mensa per i bisognosi, la prima scuola araba: buoni esempi insomma del tentativo di integrazione ma anche di sostegno alle comunità islamiche in Italia. E fin qui niente di strano. I primi problemi iniziano però pochi anni dopo, quando un imam di Viale Jenner viene ucciso in uno scontro a fuoco, al confine con la Bosnia, proprio all'alba del conflitto che sbriciolerà l'ex Jugoslavia. Secondo viale Jenner, l'imam partecipava ad una catena di aiuti umanitari. Secondo Nocs e Digos, alcuni membri dell'istituto di viale Jenner collaborano con la resistenza arabo-bosniaca, e anzi l'istituto è una delle più importanti basi di Gama' a al-Islamiyya, un gruppo politico con tendenze terroristiche: e il 26 giugno '95 scatta per questo l'Operazione Sfinge, con 72 indagati (dopo cinque anni tutti assolti).

L'istituto islamico si dichiara estraneo, e la vita in viale Jenner riprende. Fino al 2001. Quando dalla moschea si dipanano nuovi fili di terrore. Nel 2005, dopo le dichiarazioni di un “pentito” della rete di Al Qaeda, i carabinieri arrestano 12 persone: la moschea è di nuovo indicata come la base del gruppo, che pianificava attentati contro questura, comando dei carabinieri, aeroporto di Linate e ambasciata tunisina. Ispiratore (con un vero e proprio “lavaggio di cervello” sui fedeli) e coordinatore del gruppo è l'imam della moschea, Abu Imad. Ad aprile 2010, Imad viene condannato a 3 anni e 8 mesi per associazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo in cassazione, ma viene allontanato dalla moschea, di cui è guida spirituale, solo lo scorso febbraio. Ed è, ancora, un fedelissimo del centro di viale Jenner Mohammed Game, il kamikaze libico che si fece esplodere davanti la caserma Santa Barbara nel 2009. In entrambi i casi i dirigenti dell'istituto islamico hanno sempre preso le distanze.

Tuttavia, racconta a Tempi un “infiltrato” nel centro islamico, «già nel 2001, a ridosso dell'11 settembre, nel centro islamico venivano vendute videocassette dal contenuto “forte”. C'era un'intervista a Bin Laden di Al Jazeera, così come libri; c'erano le registrazioni di esecuzioni operate dai terroristi ceceni. C'era anche la registrazione, soprattutto, di un incontro tenuto nello stesso centro. Il titolo era “Terrorizzare è dovere religioso, assassinare è tradizione"». Il contenuto di quest'ultimo video è inequivocabile: «Si parlava di Islam come religione della forza, del dovere del musulmano di essere terrorista, dei “nostri ignoranti imam, non appena si sentono accusare che l'Islam si era diffuso con la spada, si affrettano a negarlo per affermare che la nostra è una religione di pace”».

Che responsabilità ha in tutto ciò il presidente della moschea Shaari? «Nessuna responsabilità penale è stata mai provata, ma quanto meno c'è una responsabilità morale, per ciò che veniva diffuso all'interno del centro». Shaari torna alle cronache nel 2003, citato in un articolo di Magdi Allam sul Corsera. Al giornalista avrebbe raccontato dell'idea di trasformare l'Istituto di viale Jenner in una onlus, per avere conti trasparenti e registrati. Ma Allam, a questi virgolettati, aggiunge indiscrezioni su un'indagine della Guardia di Finanza, che avrebbe scoperto il coinvolgimento dello stesso Istituto in un traffico di regolarizzazione dei clandestini, con il rilascio di falsi certificati di lavoro. Tutto il contenuto dell'articolo è stato immediatamente smentito da Shaari, e non risultano altri riscontri in merito all'indagine citata da Allam. Il sottosegretario degli Interni Nitto Francesco Palma, lo scorso 19 luglio, rispondendo ad un'interrogazione parlamentare alla Camera sul caso Abu Imad e su viale Jenner, ha concluso: «Negli ultimi tempi, pur rivendicando sempre una linea fondamentalista, l'istituto sembra aver attenuato alcune posizioni, stemperando l'iniziale opposizione verso l'integrazione con la società italiana». Quanto c'è di vero in tutto questo, resta però ancora da scoprirlo.

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