domenica 16 gennaio 2011

Islam e libertà


Roma. Il 1° novembre del 2004 il regista olandese Theo van Gogh venne ucciso per gli undici minuti del film “Submission”: un’attrice al centro di una stanza spoglia legge le storie di musulmane vittime di soprusi familiari, rivolgendosi sempre e soltanto a un unico interlocutore. Allah. Il tono della voce è cantilenante. Si narra la vicenda di una donna violentata dallo zio che non viene creduta dai familiari, di una ragazza vittima di abusi da parte del padre e costretta al silenzio, di una donna accucciata in un angolo che si protegge il volto con le mani, di altre donne coperte da lividi. Quando la cinepresa non le inquadra gli occhi, l’unica parte del corpo che sfugge al velo, è per mostrare gli effetti della sharia sull’altra metà del cielo: botte, occhi gonfi, palandrane scure. Ogni storia ha una sura coranica di riferimento. Scelta tra le più misogine del libro sacro. Usata dal regista, Theo van Gogh, per marchiare la pelle o gli abiti delle attrici. Un versetto è ben leggibile sulla schiena dell’adultera, tra una cicatrice e l’altra lasciata dalle cento frustate previste dalla legge divina. Un altro ha come sfondo i lividi della moglie maltrattata. Un altro ancora è proiettato su un burka che sottolinea le forme invece di nasconderle. Adesso la sceneggiatrice di quel film maledetto e così discusso, Ayaan Hirsi Ali, annuncia ad Amsterdam che non si farà il sequel, dal titolo “Submission II”. “E’ troppo rischioso”, ha scandito la dissidente islamica oggi riparata negli Stati Uniti e autrice di best seller internazionali sull’islam. Non c’è soltanto un problema di sicurezza, altissimo, visto che tanti, troppi vignettisti, artisti e giornalisti sono stati minacciati di morte dopo il caso Van Gogh in tutta Europa.

C’è anche un problema di costi: “I produttori, il cast e gli attori dovrebbero rimanere anonimi”. Il che rende la produzione impossibile Il produttore del film, Gijs van de Westerlaken, parla di “una specie di autocensura collettiva dettata dalla paura”. Se il primo “Submission” non lo trasmette ormai più nessuno, non le televisioni, non i festival di cinema (bisogna spulciare su Internet per vedere il cortometraggio), il sequel è morto sul nascere, dopo anni di scrittura e di ricco gossip attorno alla pellicola. Si sa che la sceneggiatura prevedeva come tema gli uomini nell’islam: un antisemita, un omosessuale, un bon vivant assimilato all’occidente ricco e secolarizzato, per finire con un aspirante kamikaze. Allah avrebbe parlato direttamente.

Ce n’era abbastanza per scatenare un’altra ondata di minacce e odio. “Nel film i gay saranno chiamati creature di Dio”, aveva detto Hirsi Ali, la cui denuncia sulla condizione della donna musulmana ha fatto sì che la comunità islamica la consideri “apostata”. Per bloccare la produzione del sequel era intervenuto anche il presidente del Parlamento iraniano, Gholam Ali Haddad Adel, che aveva chiesto ai paesi islamici di mobilitarsi per bloccare la produzione della seconda parte del film, in quanto rappresenterebbe “un pericolo per la religione islamica e un nuovo attacco contro i musulmani dopo la pubblicazione delle vignette offensive del profeta in numerosi quotidiani europei”. Nei giorni scorsi il Fiqh, il grande giureconsulto di esperti islamici, a nome della Muslim World League aveva annunciato la condanna di ogni pellicola che avesse ritratto Maometto o Allah. Dopo l’uccisione dell’amico Van Gogh, Ayaan Hirsi Ali aveva detto, a domanda su chi sarebbe stato il regista del sequel: “Non posso rivelarlo. Sarà anonimo, come tutto il cast. L’unico nome che leggerete sarà sempre e soltanto il mio”. Non vedremo neppure quello.

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