A casa stateci voi! Dopo otto mesi, mancano i posti in terapia intensiva!
Sembrava che di lockdown non si dovesse più parlare. E invece rieccoci quasi al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. Un lockdown morbido, un coprifuoco nazionale notturno. Basterà? Chissà. Peccato però che questo gioco dell’oca si stia svolgendo sulla pelle della povera gente. A marzo c’erano i morti, fino a mille al giorno, e pochi posti letto in terapia intensiva, circa 5.000, quindi il governo – che inizialmente aveva sottovalutato l’epidemia – si trovò costretto a chiudere il Paese per oltre due mesi. Milioni di italiani si sono affidati a Conte, che ogni 3-4 giorni appariva in Tv e sui social come il comandante in capo che ci avrebbe portato fuori dal pericolo. Un sacrificio enorme che in tanti hanno affrontato con la speranza che, passata l’emergenza, nei mesi estivi il governo avesse utilizzato l’enorme deficit previsto, più di 100 miliardi, anche per realizzare nuovi reparti di terapie intensive per l’autunno/inverno.
Dai primi dati estivi emerse che i posti in terapia intensiva sarebbero più che raddoppiati, intorno a 11.000 posti letto, più altri 3.000 sarebbero stati realizzati in autunno. Ma in questi giorni è arrivata la doccia fredda. Dal bollettino Covid del 23 ottobre diffuso dall’Ansa si parla di soli 6.628 posti disponibili. A cosa sono serviti dunque gli oltre 100 miliardi di deficit? A parte la cassa integrazione, che in molti stanno ancora aspettando e l’elemosina dei 600 euro una tantum alle Partite Iva, il governo si è messo a distribuire mancette a destra e a manca senza affrontare il problema sanitario: dai soldi a pioggia per i bonus monopattini cinesi ai banchi a rotelle che non sono neppure arrivati, con le scuole che stanno per chiudere di nuovo. A marzo il governo fece il lockdown perché su 5.000 posti letto in terapia intensiva, quasi 4.000 erano occupati anche a causa dell’emergenza Covid. Il servizio sanitario nazionale stava per collassare. Ma da marzo ad oggi sono passati quasi otto mesi, un periodo più che sufficiente per rafforzare il servizio sanitario. E invece niente. Otto mesi persi nelle dirette facebook di Conte e nelle comparsate televisive di virologi poi rivelatisi veterinari o esperti in punture di zanzare. Per evitare il collasso del Ssn servivano almeno ventimila posti in terapia intensiva, ma – dati alla mano – ne sono disponibili oggi appena 1.500 in più rispetto a marzo. Ovvio che il Governo vada in crisi e paventi nuovi lockdown.
Ma la colpa non è solo del Governo, anche le Regioni hanno la loro fetta di responsabilità. Tutti si scagliano contro Regione Lombardia, ma ad onor del vero a Milano c’è ancora l’intero reparto di terapie intensive in fiera pronto per essere utilizzato per l’emergenza Covid. Non condividiamo la scelta di Fontana di ordinare il coprifuoco o di voler mettere Milano in lockdown, anche perché la Lombardia è in grado di affrontare l’emergenza meglio di altre Regioni. Lo sceriffo De Luca, ad esempio, che è stato rieletto per la durezza del suo agire, chiuderà la Campania in un lockdown totale per via dell’aumento esponenziale dei contagi, tacendo le sue responsabilità in tema di servizio sanitario. Ma i napoletani d’improvviso hanno iniziato a rivoltarsi. Stesso discorso nella Puglia del rieletto Emiliano. E chissà se ci saranno anche qui proteste. Il dato di fatto saliente è che il Governo ha avuto otto mesi di tempo per affrontare il problema della carenza di posti letto nelle terapie intensive e non lo ha fatto. E così si scarica di nuovo l’emergenza su famiglie, attività commerciali, lavoratori con partita Iva, piccole e medie imprese. Le proteste di Napoli sfociate nella violenza non vanno minimizzate, sono un segnale di insofferenza che le opposizioni, prima che sia troppo tardi, dovrebbero cercare di incanalare nell’alveo democratico. È facile dire “state a casa” a chi è garantito da un salario di Stato, ma milioni di famiglie vivono delle loro attività professionali o d’impresa; loro a casa non ci possono stare. “A casa” dovrebbero andarci Conte e il suo governo, non gli italiani.
(Paolo Becchi e Giuseppe Palma)
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