domenica 9 dicembre 2012

Veltroni l'africano (mancato)


Walter Veltroni Il 14 ottobre Veltroni annunciava che non si sarebbe ricandidato. Da allora non è più intervenuto nel dibattito politico. Ora dice la sua. Dopo l'annuncio di dimissioni di Monti è costernato: «L'irresponsabilità di Berlusconi trascina il Paese in una crisi pericolosissima. Vuole distruggere l'Italia, questa è la verità».

Berlusconi si ricandida. «Fa impressione. Siamo in una specie di condizione di presente immobile: nulla finisce mai e nulla comincia mai. E la cosa agghiacciante è che tutto ciò si svolge nella situazione più drammatica che l'Italia abbia vissuto dal dopoguerra a oggi. Siamo dentro una crisi strutturale il cui esito non è scontato. La politica dovrebbe pensare alla nuova società che emergerà da questa crisi. Sì, nuova società. Fu con il New Deal che Roosevelt portò l'America fuori dalla recessione. Nuova società non significa un'altra società, ma inventare nuove forme di responsabilità civile diffusa, un nuovo rapporto con lo Stato, un nuovo senso di comunità. Per fare questo bisogna avere quella che io mi ostino a chiamare visione. In Italia è una parola associata al termine visionario, uno da ricoverare, più o meno. In altre culture se non hai la visione, cioè se non disegni il destino che vuoi proporre al tuo Paese quando lo devi guidare, non hai cittadinanza».

Visioni a parte, due cose concrete da fare subito. «Della prima mi capitò di parlare proprio con il Corriere nel 2008: questo Paese deve stipulare un nuovo patto per la crescita tra produttori. C'è una comunità di destino tra gli operai e gli imprenditori: se finiscono i secondi finiscono anche i primi, e se i primi lavorano in condizioni di scarso coinvolgimento e basse retribuzioni, gli effetti sulla produttività si vedono. Secondo me la non firma dell'accordo sulla produttività è un errore: ripararlo sarebbe un bene. Il secondo aspetto è la legalità. Possiamo fare le manovre finanziarie che vogliamo, ma se tutto questo verrà succhiato, come è succhiato, dalla spirale dell'illegalità nelle sue varie forme, sarà come svuotare il mare con un cucchiaino. Non ci si rende conto che questo è il primo problema del Paese, non solo del Sud: nel dibattito politico italiano non c'è questa questione».

Cosa dovrebbe fare il centrosinistra al governo? «Dire la verità agli italiani, fare riforme radicali, non avere paura dell'impopolarità: chi governa non deve temere le scelte difficili. Certo si può anche dire "meno tasse, più soldi a tutti", ma la gente sa che non è così. Io mi aspetto che questa sia la prova del centrosinistra. Il rischio è la coazione a ripetere che la scelta dissennata del ritorno di Berlusconi porta con sé. Non cadiamo nella trappola: la scelta deve essere riformismo contro populismo. Il pericolo è che si ricominci con il pro Berlusconi, anti Berlusconi, che è proprio il contrario di quanto l'Italia necessita oggi e necessitava anche nel 2008. In questo senso mi è dispiaciuto quando Bersani ha detto in tv che nel 2008 abbiamo perso perché siamo andati da soli. No, la verità è che si ripete l'errore del '98 quando l'estrema sinistra aveva fatto cadere Prodi. Nel 2006 si costituì un gabinetto con 106 sottosegretari che teneva insieme Mastella e Ferrero, Dini e Pecoraro. Dopo un anno ci fu una prima crisi e poi i cortei dei ministri contro il governo in cui erano. Quando decidemmo, tutti d'accordo, di non ripresentarci con 13 partiti fu perché sapevamo non solo che così non avremmo vinto ma che anche il neonato Pd sarebbe morto. Lo dico perché non si faccia un'analisi sbagliata. Del resto, i sondaggi dimostrano che un Pd a vocazione maggioritaria può arrivare al 40 per cento. Quindi ciò di cui c'è bisogno è un Pd come quello emerso dalle primarie, ricco di culture diverse, con la sua complessità ed eterogeneità».

C'è un centrosinistra che diffida del centro. «Io mi auguro che questo Paese evolva in un bipolarismo tra un centro moderato e un centrosinistra riformista e il Pd deve facilitare anche attraverso le scelte elettorali e istituzionali questo esito e guardare senza fastidio all'aggregazione che sta nascendo al centro. È un fatto positivo se sostituirà la destra populista».

Con Sel al governo si potrà fare quello che lei propone? «Sono convinto che Bersani lo potrà fare, ne ha la forza e le capacità, lo ha dimostrato vincendo le primarie: non possiamo ripetere esperienze già compiute. Con Vendola bisogna costruire una convergenza su cose vere, fattibili. Non dobbiamo compiere l'errore di promettere cose che non si possono realizzare».

Il futuro di Monti? «L'Italia deve essere grata a lui, a Draghi e ancora più a Napolitano: hanno evitato il tracollo del Paese. Monti ha governato con grande autorevolezza e competenza, ed è una risorsa anche per la fase nuova che si è aperta, come una risorsa continuò a essere Ciampi».

Perché non ha appoggiato Renzi che ricorda il Veltroni del Lingotto? «Io e Prodi abbiamo creduto per primi nel Partito democratico, quando non ci credeva nessuno, e per primi nelle primarie. Per questo penso che sia venuto naturale a tutti e due ritenere che fosse giusto non dichiarare le nostre scelte. Io ho seguito con attenzione e persino con affetto tutte e due le candidature, e anche le altre. Credo che Renzi si sia reso conto di aver semplificato molto. E questo è andato a suo danno. Tutta la sua impostazione era "togliamo di mezzo quelli che non hanno vinto". Personalmente ho vinto con Prodi nel '96, due volte a Roma, e poi portammo il Pd al 34% in condizioni difficilissime, quindi lezioni su questo tema faccio fatica a prenderle. Comunque lui ha perso persino le primarie, e perciò credo si sia reso conto che vincere sempre non è così facile. Infatti nel suo discorso finale ha dato un contributo importante e ritengo che potrà continuare a darlo. Il Pd ha bisogno di tutti, ma non lo dico perché io sono - e questo forse è stato anche uno dei miei difetti - una persona che ha sempre voluto l'unità. Lo dico perché si vede elettoralmente: quando il Pd mostra tutta la sua identità e non solo quella più tradizionale cresce».

Lei non si ricandiderà. «Sì, e non c'entra niente la vicenda di Renzi. Tra il 2001 e il 2012 il mio ruolo nazionale è durato sostanzialmente due anni, quelli in cui ho fatto il segretario del Pd. Ciò nonostante, ho ritenuto giusto non ricandidarmi. Ho 57 anni, sono stato al governo due anni, se io e D'Alema abbiamo fatto questa scelta, tanto più avrebbe dovuto compierla anche Berlusconi».

Dirà addio alla politica? «Oggi la mia vita è cambiata, hanno un posto importante altre passioni, come quella per la scrittura. Ma senza stare in Parlamento continuerò a fare politica. La passione politica è l'unica cosa dalla quale non ci si può dimettere».

Maria Teresa Meli

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