mercoledì 5 dicembre 2012

Re Giorgio, la magistratura e le trattative stato-mafia

E brava Liana di Carlo Bertani

Sapevamo di liane sulle quali volava Tarzan, con Jane che lo aspettava e cucinava lo stufato di rinoceronte mentre Cita schiamazzava per avvertire di nuovi pericoli, sempre fra una liana e l’altra. Questa era la legge della jungla: mille pericoli in agguato. La nostra Liana, invece, è una persona ed è una giornalista di Repubblica: Liana Milella, cronista giudiziario del quotidiano di De Benedetti, la quale quando avverte pericoli non schiamazza come Cita, bensì scrive. E, appena emanata la sentenza della Consulta che ordina di distruggere le intercettazioni telefoniche Mancino-Napolitano, non schiamazza, starnazza un telegrafico post che riportiamo integralmente dal titolo – più che esplicativo – “E adesso distruggere subito” – che ci fa venire in mente solo Torquemada:

"Sarebbe sbagliato se la procura di Palermo, dopo la decisione della Consulta, attendesse ancora. Il passo obbligato adesso è uno solo, nel rispetto dovuto tra istituzioni. Chiedere al gip, nel giro di poche ore, di distruggere le telefonate di Napolitano con Mancino. Sarebbe un errore, un atto di arroganza, attendere le motivazioni della sentenza. Nelle poche righe del comunicato della Corte c’è già tutto quello che i pm dell’inchiesta Stato-mafia devono sapere." (1)

Finito: tutto qui. Manca solo, al termine, il classico “capito mi hai”? per farlo diventare un avvertimento in stile mafioso. Da parte di Liana Milella. Ora, che i magistrati di Palermo non conoscano la legge mi sembra un’accusa un poco eccessiva: sanno benissimo – a parte ricorsi in sede europea – che le sentenze della Corte Costituzionale si rispettano.

Il problema, allora, si sposta dalle parti della Corte Costituzionale, la quale – col trascorrere degli anni – s’è trasformata sempre di più in una Corte “Presidenziale” e “Governativa”. Ci viene in soccorso, per introdurre il dubbio, un articolo (2) comparso sul Fatto Quotidiano e passato subito nel dimenticatoio, nel tritacarne della carta stampata per il quale la notizia dell’uomo che morde un cane scaccia quella del cane che morde l’uomo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si lagna per l’alto numero dei casi presentati dall’Italia (quasi il 10%!) sul totale dell’area OCSE: siamo in testa, seguiti da Turchia e Russia le quali, però, ci sopravanzano per il cumulo delle multe. Si tenga presente che il ricorso in sede europea è possibile solo quando sono stati esauriti tutti i ricorsi in sede nazionale: in pratica, sono tutti ricorsi contro sentenze della Consulta e, in minor numero (giacché il ricorso alla Consulta è spesso promosso da avvocati e magistrati, per opposte ragioni) dalla Cassazione.

Note sono le sentenze su Rete4 e su Europa7 – che l’Italia non applica, continuando a pagare sanzioni – meno note altre, come la “sentenza Agrati” (personale scolastico) nella quale, in un paio di paginette, i magistrati europei quasi irridono ben due (!) chilometriche sentenze della nostra Corte Costituzionale, affermando che il “re è nudo”: le sentenze – spiegano i giudici europei senza mezzi termini – sono state redatte in quel modo ampolloso e confuso per una sola ragione, ossia per dare ragione ai vari governi ed impedire i giusti rimborsi. Ma torniamo all’attuale sentenza: a meno che Mancino telefonasse per dare a Napolitano la ricetta degli arancini siciliani, lì si parlava di mafia, di trattativa stato-mafia la quale, non dimentichiamo, ha lasciato sul terreno due eroici magistrati, Falcone e Borsellino. Più Livatino e tutti gli altri. I magistrati italiani sono “usa e getta”? Se non lo sono li “gettiamo” in un pilastro di cemento oppure li disintegriamo con l’esplosivo? Vede, Milella, se lo Stato italiano fosse prodigo di risposte sulla lotta alla mafia, sui suoi contatti (il cosiddetto “terzo livello”), sulle modalità d’esecuzione dei suoi affari, su chi è “a servizio” e chi, invece, rischia la pelle, potremmo concludere che bene ha fatto la Consulta ad impedire un conflitto istituzionale.

Così non è, siamo chiari. Al punto che – per evitare le “talpe” – Falcone e Borsellino si rinchiusero per mesi alla fortezza dell’Asinara, lontani da tutto e da tutti per preparare l’istruttoria di un importante processo di mafia. Senza essere “sparati” prima: sapevano che sarebbe successo dopo. Per gli italiani, questa sentenza ha il sapore della “sabbia”, ossia di quella sabbia che fu gettata (e continua ad esserlo) su mille inchieste: ricorda come veniva chiamata la Procura romana? “Il porto delle nebbie”. In tempi nei quali le cosche stanno impadronendosi sempre di più degli appalti, entrano nelle amministrazioni, controllano il territorio al Nord quasi come al Sud e infarciscono le amministrazioni di loro uomini, non sarebbe stato più produttivo mostrare le carte? O non c’è nulla, e quindi Re Giorgio (l’appellativo non è mio, è del New York Times) potrebbe tranquillamente mostrarlo agli italiani, magari spiegando cosa è successo, oppure c’è qualcosa: allora – in una vera democrazia – Napolitano, Mancino, Martelli e chi altro è coinvolto dovrebbero portare loro stessi quelle intercettazioni ai magistrati, insieme alle dimissioni da qualsiasi carica istituzionale. Ci sarebbero ancora da dire due parole sul suo giornale e su chi e che cosa rappresenta: basta appoggiare il “salasso-Monti” e si sacrifica anche l’antimafia? Beh, allora vale anche qual che disse l’ex ministro Lunardi: “Con la mafia si deve convivere.” Che pena, per lei e per i bravi giornalisti di “Repubblica”, ridotti a dei pennivendoli schiavi del pensiero dominante e uniformato, urbi et orbis, nel nome del saccheggio della popolazione. Concludiamo con la nota locuzione di Falcone, che ricordava i troppi “professionisti dell’antimafia”. Capito mi hai, Milella?

NOTE



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