mercoledì 22 giugno 2011

Una ola a lui

... che c'avrà pure i suoi difetti e i suoi scheletri negli armadi... ma almeno ci racconta un pò di verità. Sempre che uno non ne sia al corrente.


Il primo colpo, quasi di karatè, arriva mentre i giornalisti stanno ancora sbranando pizzette e salatimi gentilmente offerti dalla maison Armani a chi è invitato al tradizionale incontro post sfilata con il più famoso dei nostri stilisti. «La moda è delle banche che ovviamente hanno un'influenza molto importante sul business - dice re Giorgio - poi però le banche influiscono sui giornali e così il cerchio si chiude. Secondo me il nostro lavoro serve a far vedere capi che possano essere indossati dalla gente, cose che abbiano un senso». Nella sala cala un silenzio irreale, la quiete prima della tempesta. Armani sembra l'attaccante dei sogni di qualsiasi allenatore, uno che in campo non molla la palla neanche a morire: un cocktail di Eto’o, Ibrahimovic e Messi con una buona dose del genio sregolato di Maradona. «Non è un mistero per nessuno che in molti casi le banche dettino legge nel business delle griffe più degli stessi proprietari - continua - io invece dipendo solo dalla mia creatività e da quella dei miei collaboratori, facciamo un lavoro serio, da cui dipende il lavoro di tanta gente. Certo se poi sui giornali si dice bene di una sfilata per motivi diversi dalla bellezza degli abiti, il nostro lavoro è in gran parte annullato. Per me le sfilate sono una grande verità che tutti dovrebbero rispettare». Inevitabile a questo punto una vera e propria esplosione di domande e discussioni: con chi ce l'ha mister Armani e perché buttarla in polemica così?

Niente da fare. Lui è impetuoso e inarrestabile: «Miuccia Prada - dichiara - ha scelto la strada dell'ironia e del cattivo gusto che piace. Nel suo genere è geniale come lo sono i due Dolce&Gabbana. Io ho scelto di vestire la gente. Mi rifiuto di fare baracconate soprattutto sull'uomo, penso sia una mancanza di rispetto verso i consumatori. M'infastidisce che certe cose vengano osannate dalla stampa anche quando le collezioni sono brutte. In mezzo a tutto scommetto che certi prodotti si vendono relativamente, ditemi dunque voi perché si fanno certi giochetti». Per quanto scossa da queste parole a dir poco forti, la platea reagisce: c'è chi tenta di riportare il discorso sulla moda appena vista beccandosi insulti dai colleghi e chi invece spara la domanda più scomoda: scusi, signor Armani, non è che l'imminente quotazione di Prada alla borsa di Hong Kong le picchi sui nervi oltre ogni dire? Lui serafico risponde: «Hong Kong è una borsa più facile delle altre, non facciamoci troppe illusioni. Le quotazioni in borsa servono per fare entrare dei soldi nelle casse di un'azienda. Io non ho debiti. Non ho il problema di restituire alle banche i soldi prestati per rendere forte il nome». E poi, quando la domanda cade ancora su Prada che ha rilanciato le espadrillas in versione metropolitana, Armani dribbla per un secondo ma poi si lascia scappare una battutaccia: «Lo sfigato piace solo sui giornali». A questo punto noi giornalisti ci precipitiamo a telefonare al quartier generale di Prada ricevendo un garbato no comment ricordando tra l'altro che stavolta tacere è un atto dovuto visto che la quotazione è fissata per il 24 di questo mese. Da Dolce&Gabbana rispondono con metodo statistico e solo alla stampa amica.

Insomma: è guerra. Non solo in passerella, ma anche nella stanza dei bottoni, dove Armani e Prada sono due rette parallele destinate a non incontrarsi mai. Il gruppo guidato da Patrizio Bertelli e Miuccia Prada insegue da dieci anni il progetto di quotazione e ora si prepara finalmente allo sbarco ad Hong Kong, da cui la famiglia incasserà circa 900 milioni di euro, grazie a una valorizzazione della maison decisamente superiore rispetto alla media dei concorrenti: 9 miliardi, pari a circa 24 volte l’utile stimato per il 2011. Una scelta impegnativa, comunque: per qualsiasi azienda andare in Borsa significa infatti assoluta trasparenza dei bilanci e un flusso continuo di informazioni al mercato.

Dall’altra parte, Re Giorgio, seduto su 600 milioni cash: un tesoretto da fare invidia a molte aziende, e non solo del settore. «Il mio fieno in cascina», come si compiace di definirlo, con l’accento sulla parola «mio»: se il gruppo fosse quotato in Borsa quella liquidità andrebbe investita, mentre restando azienda familiare può essere usata per «rimediare a situazioni impreviste o cogliere opportunità importanti, senza chiedere niente a nessuno», come ha detto lui stesso commentando l’ultimo bilancio. È una sfida fra giganti, comunque, e lo si vede dai numeri: 2,04 miliardi di euro il fatturato 2010 di Prada (+31,1% rispetto all’anno precedente), 1,58 miliardi quello di Armani, con una crescita inferiore (+4,3%), ma un utile netto record: 161 milioni, in crescita dell’80 per cento. Poco più sotto, ci sono Dolce & Gabbana, con 1,13 miliardi di fatturato, in crescita del 9,9% rispetto all’anno precedente. Per loro, nessun progetto di quotazione, anche perchè negli ultimi tempi hanno avuto altri problemi: erano stati infatti accusati di avere evaso il fisco per circa un milione di euro tra il 2004 e il 2005. Ma ne sono usciti a testa alta: assolti perché il fatto non sussiste.

1 commenti:

Nessie ha detto...

Anche sulla moda ci mettono le zampacce le solite Banche? :-(