domenica 15 luglio 2012

Strane storie dall'india


Roma, 15 luglio 2012 - Qualcuno, fin troppo speranzoso, l’aveva ribattezzato «il testimone». E’ il peschereccio «Saint Antony», l’imbarcazione sulla quale si trovavano i due pescatori che il 15 febbraio, secondo l’accusa, sono caduti sotto i colpi sparati dal maresciallo Massimiliano Latorre e dal sergente Salvatore Girone, i fucilieri di marina del battaglione San Marco che assieme ad altri quattro commilitoni difendevano dai pirati la petroliera «Enrica Lexie». Il «Saint Antony» è stato salvato in extremis dal naufragio il 23 giugno, quando è entrata in azione una squadra di 12 portuali di Kavanad, una città vicina a Kochi, munita di carrucole e di funi.

Già undici giorni prima, si leggeva sul giornale The Hindu, la barca minacciava di affondare miseramente. L’acqua aveva invaso il vano macchine ed era arrivata al ponte. Una fonte di prova fondamentale per il processo rischiava di depositarsi sui fondali di un molo di Neendakara. Il proprietario Freddie Bosco aveva ottenuto il dissequestro del peschereccio il 10 maggio, argomentando che il natante era la sua unica fonte di sostentamento. I magistrati gli avevano ordinato di non manomettere i fori dei proiettili. Bosco aveva dichiarato a caldo che nessuno avrebbe più voluto lavorare su un natante marchiato per sempre dalla morte di due membri dell’equipaggio. Coerente con la sua convinzione, ha smontato dal «Saint Antony» il motore, l’elica e ogni altra attrezzatura utile e ha abbandonato lo scafo al suo destino. Il peschereccio ha cominciato a imbarcare acqua. Informato delle cattive condizioni della sua barca, il proprietario si è limitato a promettere 42mila rupie, circa 600 euro, ai dodici portuali incaricati di salvargli lo scafo. Il recupero in extremis della carcassa del peschereccio ha pregiudicato accertamenti potenzialmente importanti. «Si sarebbero potuti fare — spiega Luigi Di Stefano, che fu perito di parte nel processo per il Dc 9 dell’Itavia abbattuto nel cielo di Ustica — prelievi per verificare la presenza di residui di polvere da sparo col sistema gas-cromatrografico o con lo spettrometro di massa». Insomma il peschereccio, immatricolato nello stato di Tamil Nadu, è stato improvvidamente «lavato», a un mese circa dall’inizio del processo.

Anche i fori dei proiettili potrebbero essere danneggiati. In altre parole dovranno essere presi per buoni le misure e i rilievi degli esperti di medicina legale e di balistica del Kerala. Non è un precedente rassicurante per gli imputati. Il 17 luglio dovrebbero essere formalizzati davanti ai giudici del Kerala i capi di imputazione a carico di Latorre e di Girone. Puntualmente, alla vigilia del delicatissimo dibattimento prende corpo una sorpresa rilevante. Una lista di documenti firmata dal «Circle inspector of police» della stazione di polizia costiera di Neendakara alla voce numero 120 accenna all’esistenza di un apparato Gps sul peschereccio colpito. In cinque mesi di dispute sulla vera posizione del «Saint Antony» per la prima volta viene rivelata una circostanza che avrebbe potuto risolvere ogni disputa fin dal 15 febbraio, il giorno della sparatoria mortale. Ma le indagini ci hanno abituato ai colpi di scena. L’autore dell’autopsia, il professor Sasikala, ha registrato minuziosamente le misure di proiettili calibro 7 e 62 trovati nel corpo del timoniere Valentine Jalestine. Il 16 febbraio aveva descritto un proiettile lungo 3,1 centimetri la cui circonferenza era alla base di 2,4 centimetri e alla punta di 2,1 centimetri. Inspiegabilmente la perizia balistica ha corretto il tiro concludendo che hanno sparato i due fucili Beretta Sc 70-90 dei marò le cui pallottole sono di calibro 5 e 56 x 45. La balistica evidentemente a Kochi non è una scienza esatta.

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