mercoledì 1 luglio 2020

Gatti, uomini e mostri

In questi giorni le immagini del gatto arrostito dall'ivoriano stanno girando ovunque, suscitando indignazione e rabbia. Il video è decisamente raccapricciante, tuttavia, ancora una volta, il dito sembra risultare più interessante della Luna agli occhi del pubblico. Ciò su cui bisognerebbe concentrarsi non è tanto il gesto scabroso in sé, quanto ciò che esso rappresenta. Ovvero l'insensatezza delle politiche economiche e migratorie degli ultimi anni, entrambe partorite e difese dallo stesso mondo e dagli stessi gruppi d'interesse. Nel marasma della propaganda globalista a reti unificate, le giuste domande vengono soffocate sul nascere. 

Che senso ha riempire l'Italia di immigrati a cui non viene dato alcun futuro se non quello di patire la fame e fare l'elemosina? Che senso ha strillare "porti aperti!" quando la maggior parte di questi individui finisce, nel migliore dei casi, a zappare la terra come bassa manovalanza? Che senso ha parlare di razzismo e fratellanza quando gli unici ad arricchirsi sono coloro che sguazzano nel business dell'accoglienza, la criminalità organizzata (a cui si aggiunge una nuova entrata: la mafia nigeriana) e qualche politico in vena di applausi? Dove sta l'umanità nel gettare persone per strada senza porsi alcuna domanda sulla sicurezza, sull'integrazione, sulla sostenibilità economica, sui contrasti religiosi, etnici e sociali?

Dov'è il progresso nel trasformare le città in tuguri, pur di sfoggiare un multiculturalismo farlocco da spot pubblicitario? E come fanno coloro che si spacciano per tolleranti a tifare, allo stesso tempo, per le politiche di austerity che impediscono allo Stato di aiutare gli indigenti? Come fanno questi rivoluzionari di Capalbio a non accorgersi della distruzione del tessuto sociale, della guerra tra poveri, dell'annientamento della classe media in favore di una polarizzazione settecentesca? La risposta a queste domande mostra la realtà in tutta la sua gravità: sulla piastra, assieme al gatto, ci siamo tutti noi.

Matteo Brandi

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