Il governo è alla ricerca del regalo da fare agli italiani. Da settimane si rincorrono ipotesi di misure fiscali o previdenziali da inserire, al più tardi, nella legge di stabilità. Palazzo Chigi fa pressione sul ministero dell'economia: tempi strettissimi per una misura d'effetto. L'ultima ipotesi è stata lanciata ieri dal Messaggero, con un aumento del bonus in busta paga dai famosi 80 a 100 euro tondi. Come noto la misura è stata varata dall'esecutivo Renzi a inizio mandato, in piena luna miele con gli italiani, ed è limitata ai redditi inferiori ai 26 mila euro lordi, sono esclusi i pensionati e gli incapienti. Lo stesso premier nelle settimane scorse ha fatto capire che adesso serve una misura per rendere più inclusivo il bonus, facendolo arrivare ai pensionati con redditi bassi. Questo piano non è tramontato, ma a Palazzo Chigi i consiglieri del premier hanno anche studiato la possibilità di aumentare il vantaggio per chi già lo percepisce, portando il «credito Art. 1 Dl 66/2014» (questa la voce del bonus in busta paga) da 80 a 100 euro.
La giustificazione a questa e a altre ipotesi simili è che bisogna rilanciare i consumi. Ma tutto fa pensare che si tratti di un modo per non perdere il capitale di consensi guadagnato con la prima versione del bonus, che dal punto di vista elettorale è stata un po' un buco nell'acqua, nel senso che la misura è stata approvata lontano da elezioni politiche, peraltro quando i consensi per il nuovo Presidente del Consiglio erano ancora alti. Ma tutti i regali hanno un costo e ieri il governo si è affrettato a smentire. Da New York, dove si trova Renzi, fonti vicine al premier hanno assicurato che «Non c'è alcun piano di portare a 100 gli 80 euro (che restano una misura stabile del governo)». Il problema, manco a dirlo, sono le coperture. Tutta l'operazione costa più di quattro miliardi di euro, che graverebbero su un bilancio, quello del 2017, che è già ad alto rischio di procedura di infrazione europea per deficit eccessivo. Una soluzione è stata indicata giorni fa dallo stesso Renzi con un annuncio che è passato un po' in sordina. Il taglio dell'Ires che era in programma nel 2017 slitterà di un altro anno. Si liberano così 3,7 miliardi che sono già stati messi a bilancio, che passano con un colpo di bacchetta dalle imprese alle famiglie. Il dato certo è che la ricerca di un segnale forte da dare agli italiani è ormai la principale occupazione del governo. Restano in campo le altre ipotesi. Un ritocco alle aliquote Irpef ad esempio. Poi le pensioni. Ma l'intervento per rendere più flessibile i criteri rigidissimi della Fornero e delle altre riforme è sempre più a rischio. Qualsiasi soluzione generalizzata rischia di fare infuriare l'Unione europea.
Probabile che su questo tema alla fine prevalgano le ragioni dei conti pubblici. E che si arrivi a una soluzione che privilegia l'uscita anticipata dal lavoro come scelta individuale e i cui costi ricadono interamente sul pensionando che la fa. Sotto forma di un «prestito», come ha anticipato giorni fa il Giornale, che passi per i fondi pensione, le banche o l'Inps. La previdenza riguarda, per definizione, il futuro. E il consenso elettorale non si guadagna con una riforma delle pensioni, per quanto generosa possa essere. Il centrosinistra abolì lo scalone della riforma Maroni, gravando sull'equilibrio della previdenza italiana per quasi dieci miliardi all'anno. Ma poi perse le successive elezioni. Renzi lo sa.
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