giovedì 16 ottobre 2025

In commissione covid

Cosa ci fu negato: la verità sulla sindemia e sull’emergenza infinita

Oggi, 15 ottobre, ricorre il quarto anniversario di una misura infame: il Green Pass, che combattei in Parlamento e nelle piazze. Fu l’apice di un delirio giuridico che divise i cittadini, calpestò il lavoro e la dignità, e legittimò una segregazione senza precedenti. Fu la più grave distorsione giuridica e sociale della nostra Repubblica: lungi dall’essere uno strumento sanitario, era semmai un mezzo di controllo politico che divideva i cittadini, violava libertà fondamentali e consolidava un’emergenza artificiale, priva di basi scientifiche che fossero in grado di reggere a serie obiezioni. A quattro anni di distanza, l’Italia non ha ancora avuto il coraggio di fare i conti con quel disastro, di riconoscere l’abuso e di chiedere giustizia per chi fu umiliato e privato del lavoro in nome di una falsa sicurezza. All’inizio della sindemia Covid – un drammatico "stress test" che ha sconvolto intere società e snaturato quel che rimaneva delle democrazie – regnavano paura, confusione, un senso di assedio globale. Anche chi, come me, faceva parte della maggioranza del governo, affrontava un fenomeno inedito: era possibile — persino inevitabile — commettere errori nella prima fase, quando il c.d. Comitato tecnico scientifico proponeva misure drastiche in un contesto d’incertezza, mentre Paesi diversissimi fra loro per regime politico e caratteristiche sociali convergevano tutti su misure di emergenza simili.


C’è stato perfino un momento in cui Teheran, Roma, New York, Mosca, Parigi, New Delhi e Tel Aviv erano contemporaneamente in confinamento. Regimi opposti per ideologia, struttura e interessi — teocrazie, democrazie liberali, autocrazie, economie pianificate o ultracapitaliste — convergevano nella stessa risposta sincronizzata, in nome di una paura condivisa. Una convergenza mai vista nella storia, che allora sembrava temporanea ma che ha finito per modellare un nuovo paradigma politico globale: la normalizzazione dello stato d’eccezione, la gestione tecnocratica della società, la subordinazione della libertà al controllo sanitario. Ma ciò che non era inevitabile — e accadde in Italia — fu la successiva trasformazione dell’emergenza in una nuova architettura giuridica a vocazione permanente, che sospese libertà fondamentali e normalizzò l’abuso di potere. A tutti i cittadini, e pure a noi parlamentari di allora, fu negato di sapere: le informazioni reali erano filtrate, le autopsie vietate, i protocolli imposti. Imperava un maccartismo che rendeva impervia qualsiasi altra idea. Ora l’audizione parlamentare della professoressa Maria Rita Gismondo squarcia il velo, con anni di ritardo: ha raccontato che le intubazioni sistematiche furono causa diretta di migliaia di morti, che si trattò di malasanità indotta da protocolli errati, mentre i suoi avvertimenti restavano inascoltati. Ha ricordato le autopsie eseguite di nascosto, che rivelarono gravi errori clinici, e l’assurdità dei tamponi riservati ai sintomatici, del panico organizzato, delle mascherine inutili, della censura contro chi osava dubitare. Io rimasi allora in maggioranza solo per una ragione: bloccare l’adozione del MES, che avrebbe trascinato l’Italia nel destino della Grecia. Ci riuscii assieme ad alcune decine di parlamentari intransigenti, e la nostra azione fu fondamentale per impedire lo scenario mostruoso della distruzione finanziaria. Ma quando la gestione Draghi portò l’emergenza a sistema — con green pass, obblighi e discriminazioni — non c’era più alcun margine di manovra. Creammo forse l’ultima vera opposizione parlamentare della Repubblica. Arrivò perfino il momento in cui - caso unico - potevo entrare in uno qualsiasi dei 47 parlamenti del Consiglio d’Europa tranne che in quello di cui ero membro. Il Draghistan era un’aberrazione tutta italiana, prigioniera di un racconto sempre più lontano dal vero.  Oggi la Gismondo conferma ciò che molti di noi denunciarono: non fu prudenza, fu una politica che scelse la paura come metodo di governo.


Pino Cabras

giovedì 9 ottobre 2025

Cercansi sovranisti

Sottraendo Ilaria Salis al suo processo per un voto (quello dell’interessata, si suppone), il Parlamento europeo ha certificato che l’Ungheria non è uno Stato di diritto. Quindi, per coerenza, dovrebbe espellerla dall’Ue e chi la fece entrare nel 2004 (commissione Prodi) dovrebbe ammettere l’errore. Non solo per l’Ungheria, ma anche per altri Paesi dei nove spensieratamente imbarcati nella stessa infornata: Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Cekia, Slovacchia, Slovenia. Il principio circense “Più gente entra, più bestie si vedono” ha prodotto disastri e altri ne produrrà. Tipo la guerra mondiale in cui tentano di trascinarci non l’Ungheria (che anzi è il primo freno), ma i tre Baltici e la Polonia. Estonia, Lettonia e Lituania hanno poco più degli abitanti di Roma, ma controllano in Ue l’Economia (Dombrovskis), gli Esteri (Kallas) e la Difesa (Kubilius); la Polonia il Bilancio (Serafin). E non passa giorno senza che inventino, spesso in combutta con Zelensky, un attacco russo per giustificare il riarmo e l’escalation e regolare vecchi conti. La Merkel ha appena ricordato le responsabilità di baltici e polacchi nel troncare il dialogo Ue-Mosca fino all’agognata guerra in Ucraina. Gli stessi baltici, polacchi e ucraini si opposero ai gasdotti Nord Stream che rifornivano mezza Europa di metano russo a poco prezzo, contribuendo alla nostra prosperità. Quando un commando di terroristi li fece saltare, il primo a esultare fu l’attuale ministro degli Esteri polacco Sikorski: “Thank you Usa!”. Ma si scordò di coordinarsi con Kiev, che tentava di attribuire l’attentato a Putin.


Poi i giudici tedeschi scoprirono che il più grave attacco a un’infrastruttura europea dal 1945 era opera di terroristi di Stato ucraini, con complicità polacche: uno fu individuato in Polonia, ma fuggì in Ucraina su un’auto blu dell’ambasciata di Kiev; un altro è in carcere in Italia in attesa di estradizione; un terzo, Volodymyr Z. (tutto vero), l’hanno arrestato l’altro giorno in Polonia. Ma ora il premier polacco Tusk dichiara che “il problema del Nord Stream non è che sia stato fatto saltare, ma che sia stato costruito”. Chissà se quel fantoccio di Merz gli risponderà, visto che la Germania è in ginocchio anche per quell’attentato. Tusk aggiunge che “non è nell’interesse della Polonia consegnare questo cittadino a un altro Stato”: cioè eseguire l’ordine di cattura internazionale. Che però spetta ai giudici, non al governo: bell’esempio di Stato di diritto. Però Tusk è un noto “liberale”, quindi può fare impunemente come e peggio del “sovranista” Orbán: anche esaltare e proteggere i terroristi. Ma dove sono i nostri “sovranisti”? Che aspettano a fuggire a gambe levate da un’Europa dominata da questi manigoldi?


Marco Travaglio