domenica 25 agosto 2024

La dittatura democratica, Telegram e il suo inventore

Da quanto risulta, Pavel Durov, inventore e patron del social Telegram è stato arrestato mentre faceva scalo all'aeoroporto Le Bourget (Parigi). Stando alle prime indiscrezioni di un funzionario, Pavel Durov verrà sottoposto a carcerazione preventiva, per il timore di fuga. Le accuse sono particolarmente significative. Durov è accusato di possibile complicità con un'infinità di crimini (terrorismo, droga, frode, riciclaggio di denaro, occultamento, contenuti pedofili, ecc.), in quanto sulla sua piattaforma non avrebbe disposto sistemi di intervento per moderare gli scambi e in quanto si sarebbe rifiutato finora di cooperare con le autorità europee. Questo è, probabilmente (la base legale non è stata ancora resa nota), il primo arresto eccellente in applicazione del Digital Services Act, il regolamento censorio europeo, approvato nel 2022 ed entrato in vigore nel febbraio di quest'anno. Sono peraltro di pochi giorni fa le minacce, niente affatto velate, del commissario europeo Thierry Breton a Elon Musk, colpevole anche in quel caso di potenziale complicità con reati vari e con l'esercizio "della violenza dell'odio e del razzismo" per avere maglie troppo larghe nella “moderazione”  dei contenuti su X. Nonostante Durov sia russo, Telegram (diversamente dall'altra creazione di Durov, VK, ha sede amministrativa a Dubai, proprio per evitare interferenze governative, consentendo una maggiore libertà nelle comunicazioni. Ecco, e ora vi prego, cari progressisti europei, cari liberali, cari infaticabili combattenti per la democrazia e la libertà, metteteci una volta di più di buon umore, spiegateci ancora una volta come: 


a) non ci sia nessuna censura in Europa; 


b) sia necessario difendere con le armi i valori europei dalle orribili autocrazie orientali;


c) sia nostra inderogabile priorità la difesa dei diritti umani (tipo art. 19 UDHR: "Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione (....) di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.")


Andrea Zhok

sabato 24 agosto 2024

Jus scholae

Ragioniamoci un po’


All’affacciarsi del nuovo anno scolastico riprende vigore l’idea della cittadinanza attribuita tramite frequenza di un certo numero di anni (cinque) nella scuola, il cosiddetto jus scholae. Una proposta sostenuta da PD, Avs, 5 stelle e FI, mentre FdI e Lega esprimono ritrosia. Ancora una volta si “gioca” sul tema immigrazione con una superficialità che impedisce di mettere a fuoco la sostanza della questione. La demagogia utilizzata dai sostenitori di questo provvedimento lascia intendere che i poveri bambini figli di immigrati siano lasciati a se stessi, privati dei diritti elementari, senza dare di conto che in Italia si concede abbondantemente la cittadinanza agli stranieri e i bambini che nascono qui non subiscono nessuna discriminazione, godendo invece di ogni diritto. Un uso irresponsabile di una questione enorme, dietro il quale si cela l’interesse del capitale neo liberista di favorire un’immigrazione irregolare e caotica, le cui conseguenze sociali vanno a ricadere esclusivamente sulla qualità di vita dei ceti popolari. Perché, a proposito di scuola, i figli delle classi agiate frequentano scuole “protette” ed esclusive.


Il capitale globalista promuove, non certo per intenti umanitari, un’inclusività declinata nel senso liberista di libera circolazione di merci capitali e persone, per questo i suoi corifei decantano le magnificenze di un mondo senza frontiere. Ma noi sappiamo bene che flussi migratori indiscriminati hanno perseguito l’unico scopo di: a) deprezzare la forza lavoro autoctona; b) decontrattualizzare il rapporto di lavoro; c) introdurre una forte competizione a ribasso tra lavoratori residenti e immigrati; d) dequalificare il lavoro; e) svuotare di preziose energie giovanili i paesi generatori dei flussi migratori, così da poterli meglio controllare e sfruttare. Con l’inevitabile conseguenza di aumento del disagio sociale negli ambienti popolari, paradossalmente accusati dai liberal progressisti di insensibilità se non di vero e proprio razzismo. Insomma, un bel po’ di piccioni con una sola fava.  Lo jus scholae è la trovata furbesca e subdola che si muove nell’orizzonte della libera circolazione come intesa dal neo liberismo. Subdola perché utilizza il tema dei minori, presuntivamente discriminati. 


Chiarito il quadro in cui si agita questa richiesta, poniamoci ora la domanda: “questa” scuola promuove davvero la cittadinanza? A questa domanda purtroppo bisogna rispondere negativamente. L’istituzione scolastica, oggi, non rappresenta affatto il luogo della costruzione del cittadino. Essa rappresenta invece il luogo dell’adeguamento forzato dell’individuo alle linee guide del credo globalista. Basti considerare il fatto che sia diventato curriculare l’insegnamento della davosiana Agenda 2030, con tutta la sua stucchevole retorica ideologica sulla Sostenibilità declinata in tutte le salse. La scuola odierna (da un bel po’ di anni ormai) non rappresenta più il luogo dell’“istruzione” (parola ormai considerata desueta), ma quello dell’apprendimento di “competenze”. Competenze che hanno sostituito i contenuti disciplinari. Ci si accorge del baratro culturale coltivato nella scuola di ogni ordine e grado quando si finge di stupirsi del fatto che i giovani non sappiano rispondere alle domande più semplici, che siano di geografia o di italiano o di storia o di matematica. Nella scuola contemporanea è tutto un insistere su percorsi preconfezionati, con tanto di “mappe concettuali”, test, griglie... cosa che, inevitabilmente, pone in essere il superamento della stessa figura dell’insegnante. A che serve infatti un insegnante quando tutto è deconcettualizzato, semplificato, banalizzato?


Chi conosce la realtà della scuola sa bene che essa non garantisce vera educazione alla cittadinanza, in quanto non favorisce ai figli degli immigrati l’integrazione nel tessuto culturale del paese ospitante ma, al contrario, ne sancisce l’estraneità. Si può davvero includere solo se non si rinuncia alla propria identità, in questo caso culturale. Quante volte – troppe – mi sono trovato di fronte ragazze e ragazzi pakistani, cinesi, filippini, peruviani, maliani… del tutto incapaci di comprendere una semplice frase, figuriamoci poi un concetto relativo alla disciplina! In questi casi sapete come avviene l’inclusione? Abbassando, diciamo pure eliminando, non dico la qualità dei contenuti, ma gli stessi contenuti.  L’acuto Boni Castellane coglie bene il punto. Qualche giorno fa scriveva: «Pensare che un percorso scolastico conferisca di per sé i fondamenti culturali, civili e linguistici sufficienti a rendere una persona un cittadino integrato in un contesto nazionale, significa credere, più o meno coscientemente, più o meno volontariamente a un equivoco». Ancora: «Far credere che invece sia ancora così, che una persona proveniente da qualsiasi parte del mondo per il solo fatto di frequentare la scuola per un certo numero di anni diventi automaticamente italiano, significa confondere il trascorrere del tempo in un luogo con la reale acquisizione di conoscenze e di valori». La scuola è diventata una palestra nella quale si rincorrono progetti sponsorizzati e finanziati (con tutta la corruzione che ne deriva in termini di accaparramento dei fondi e della loro distribuzione a un corpo docente purtroppo spesso complice) dall’Unione europea. Progetti che tutti, irrimediabilmente, si rivestono di propositi etico-sociali (razzismo, ciberbullismo, sessismo, ambientalismo, sostenibilità di ogni tipo…) apparentemente giusti, ma che ripropongono pari pari i temi cari all’agenda liberal globalista. Invertire la rotta.


Antonio Catalano

martedì 6 agosto 2024

Multiculti inglese

Quello che sta accadendo in Inghilterra è l'ennesimo campanello d'allarme - che, temo, rimarrà inascoltato - intorno al carattere strutturalmente fallimentare del modello liberal-globalista, dominante negli ultimi quattro decenni. I fatti che si riescono con qualche fatica a ricostruire sono i seguenti. Una settimana fa a Southport, Merseyside, durante una festa rivolta ai bambini, Axel Rudakubana, un ragazzo diciassettenne, nato a Cardiff da genitori ruandesi, ha attaccato gli astanti a colpi di coltello, uccidendo tre bambine (6, 7 e 9 anni). Altre 9 persone, tra cui due adulti, sono state ferite; sei sono in gravi condizioni. Le ragioni dell'attacco non sono chiare, ma si sospetta la malattia mentale. Il soggetto aveva una diagnosi di ASD (autism spectrum disorder), diagnosi che stante quel che è successo non sembra molto calzante, ma che comunque richiama qualche problema di carattere psichiatrico. Sulla scorta della tragedia, immediatamente, parti della popolazione locale sono insorte prendendo di mira “gli immigrati”, categoria abbastanza indeterminata da finire per estendersi a tutti i soggetti in qualche modo identificabili come "etnicamente eccentrici", inclusi anche gli islamici. Questi ultimi hanno messo a loro volta in moto pattuglie di difesa, che hanno iniziato a prendere di mira negozi, pub e "inglesi bianchi". In brevissimo tempo gli scontri si sono propagati ad altre aree del paese: Manchester, London, Sunderland, Hartlepool, Aldershot, Belfast, ecc. Ciò che si evince, con una certa angoscia, dai filmati, è che gli scontri hanno preso una piega schiettamente etnico-razziale, in cui per essere aggrediti da una di queste bande contrapposte basta essere "del colore sbagliato". La reazione del governo è stata caratteristica: si sono accusati dei disordini i soliti "gruppi di estrema destra" e le "fake news", come se questa - quand'anche vera - fosse una spiegazione. Il problema, ovviamente, è che, come sempre accade in queste situazioni, l'evento scatenante è sempre solo un'occasione, una scintilla occasionale, la cui eventuale irrazionalità non rappresenta un semplice "errore".


Le autorità, ad esempio, hanno puntato il dito su alcune fake news che dipingevano l'omicida come islamico, mentre la famiglia non lo sarebbe. Ma è ovvio che l'eventuale notizia falsa ha potuto fare da accelerante solo perché una fiamma covava da tempo. (Va da sé, che anche se la famiglia fosse stata davvero di origine islamica, questo, razionalmente parlando, non avrebbe significato nulla, ma chiaramente la questione qui non ha più a che fare con imputazioni che potrebbero reggere in un tribunale: qui il fenomeno è sociale e acefalo). Sul tema delle fake news va anche notato che una delle ragioni per cui esse attecchiscono così facilmente è l'inaffidabilità sistematica delle news ufficiali. Ad esempio, inizialmente non si riusciva in nessun modo a sapere quali fossero le caratteristiche etniche dell'aggressore, che veniva presentato come un "giovane gallese". Come accade oramai sistematicamente, l'omissione era intenzionale, perché - questa è l'idea - al lettore l'aspetto etnico non deve interessare, essendo giuridicamente irrilevante e potenzialmente fuorviante. Ma nel momento in cui il pubblico capisce che le informazioni ufficiali non sono più notizie, ma lezioni paternalistiche, finisce per accettare più volentieri informazioni "clandestine". 


Stesso discorso si può fare per le solite accuse a molla all'Estrema Destra, come se si trattasse di un morbo, un virus, un fungo che accidentalmente cresce in certe aree e che andrebbe solo debellato con l'adeguato fungicida. Ma anche laddove a promuovere disordini così estesi ci siano gruppi politicamente organizzati di estrema destra, la domanda reale è sempre: perché sono nati, perché crescono, perché hanno seguito? Ed è qui che l'inadeguatezza culturale delle odierne classi dirigenti, sostanzialmente ovunque in occidente, si rende visibile. L'attitudine ad esaminare i fatti sociali in termini di dinamiche strutturali e culturali di lungo periodo è pressoché assente. Si ragiona in termini legalistici, come se la società fosse un tribunale in cui si va a valutare solo la responsabilità personale per violazioni di legge dimostrabili. Ma ovviamente il livello a cui nascono le tensioni e gli scontri è sempre solo in minima parte alla luce del sole, e solo un'esigua minoranza dei conflitti riescono ad essere identificati e condotti davanti ad una giuria. Di fatto, quanto maggiore è la conflittualità sociale, tanto più grande sarà la percentuale di conflitti che non risulta ufficialmente visibile.


Capisco che il primo ministro Starmer, o chiunque altro fosse stato al posto suo, non possa in questo momento far altro che appellarsi all'ordine pubblico, agli arresti, ai processi, alle cariche della polizia, ma è un errore drammatico pensare che sia a questo livello che tali problemi possono trovare una soluzione. Si tratti di problemi che montano nei decenni e ci mettono un minuto a prendere fuoco, magari per un fraintendimento. Sul piano strutturale il problema è abbastanza semplice da descrivere: ampi movimenti migratori di persone su brevi periodi di tempo creano sempre tensioni, perché producono incertezza, insicurezza e competizione sul mercato del lavoro. Se poi queste persone presentano anche costumi o una cultura rilevantemente divergenti, le tensioni ne risultano ancora più esacerbate. Si tratta comunque di processi di carattere prevalentemente quantitativo. Le variabili decisive sono la quantità di persone per unità di tempo. Come diceva Polanyi, nei fenomeni sociali la variabile più importante è la loro velocità. Il medesimo mutamento se avviene in dieci o in cinquanta anni, semplicemente non è  il medesimo fenomeno e non ha le medesime conseguenze. Non si tratta di predicare società ermeticamente chiuse, che non sono mai esistite, ma di comprendere che l'alternativa non può mai essere il "liberi tutti". Qui alla rigidità ideologica conservatrice (che fu, e che ancora talvolta fa capolino) di una società etnicamente e culturalmente "incontaminata" ha fatto da contraltare negli anni una rigidità ideologica opposta e simmetrica, in cui la "contaminazione", il "multiculturalismo", il "melting pot" sono diventati altrettanti slogan pubblicitari, vaghi, retorici e soprattutto ipocriti.


Le argomentazioni del globalismo liberale hanno sempre mescolato disinvoltamente argomenti pseudo-utilitaristi (ci serve manodopera, chi ci pagherà le pensioni, ecc.) con argomenti pseudo-umanitari (iil dovere dell'accoglienza, l'amore per il diverso, il diritto d'asilo, ecc.). L'importante è sempre stato poter utilizzare una batteria argomentativa quando l'altra appariva momentaneamente implausibile. Ma di fatto i meccanismi profondi che hanno alimentato la retorica del "melting pot" qui sono di due soli tipi, un meccanismo crudamente economico e un meccanismo ideologico. Sul piano economico, la libertà di movimento della forza lavoro consente al capitale di ottenere mano d'opera a buon prezzo senza dover pagare per la crescita e l'educazione di quelle braccia, che arrivano pronte dall'estero. Questo processo abbatte il potere contrattuale del lavoro meno qualificato, tenendo bassi i salari. Sul piano ideologico, la visione liberale ha proposto un modello di universalismo astratto in cui le componenti culturali, linguistiche, religiose, e di costume sono considerate fattori marginali e contingenti, che era non solo possibile, ma doveroso mettere da parte. La combinazione di queste pressioni nel lungo periodo hanno creato ferite sociali profonde, squilibri, tensioni, tipicamente più percepite nelle fasce della popolazione meno abbiente. Spero di sbagliarmi, ma per alcuni paesi come Francia e Regno Unito non so se se ne potrà uscire con qualcosa di meno che una sorta di guerra civile. Non ci resta che sperare che in altri paesi ci siano ancora in margini per un allentamento dei processi degenerativi. Una cosa, comunque, è sicura. La retorica di chi dice che, siccome migrazioni ci sono sempre state, bisogna semplicemente "accogliere il cambiamento", è complicità nel degrado.


Andrea Zhok