Nuovamente si discute di misure cautelari coercitive che limitano la libertà personale degli stupratori prima della sentenza definitiva. Chi chiede la condanna anticipata della custodia in carcere e chi invoca la presunzione di non colpevolezza. La polemica si ripete oggi dopo la sentenza 232 della Corte Costituzionale, così come nel 2012 dopo la sentenza di Cassazione n. 4377. La Corte costituzionale infatti sta proseguendo lungo la linea di smantellare il duro e rigido trattamento delle misure cautelari coercitive previste per gli autori di violenze sessuali dal pacchetto sicurezza Maroni/ Carfagna, che nel 2009 era intervenuto con la mano pesante sull’onda della percezione del cd allarme sociale dello stupro di strada. Per raggiungere l’obiettivo e giustificare la urgenza del decreto legge il Governo non aveva messo mano a una riforma specifica e dedicata alla violenza maschile contro le donne, ma aveva operato all’interno delle norme speciali previste per i delitti di mafia.
Aveva così dovuto operare una doppia parificazione, la prima tra la violenza sessuale base (che raccoglie in una unica figura di delitto tutti gli atti sessuali violenti, nella loro ampia e differenziata gamma) e la violenza di gruppo (oltre altri reati cd. a sfondo sessuale ) e la seconda tra questi e i delitti di mafia (associazione di tipo mafioso e delitti posti in essere con metodi o per finalità mafiose). Instaurando così delle presunzioni indifferenziate e assolute –anziché relative – di adeguatezza della sola custodia in carcere, senza alcuna possibile alternativa. Da allora il giudice in tutti tali casi doveva applicare obbligatoriamente sempre e solo la custodia cautelare in carcere, senza più poter esercitare una scelta nel ventaglio delle varie misure previste dal codice di procedura penale e senza poter più graduare secondo il criterio della adeguatezza al caso concreto. La svolta fu operata in nome del bene collettivo “sicurezza pubblica”, come indica il valore dichiarato nel titolo stesso di quella legge (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori) e delle altre leggi intervenute in materia.
E pensare che faticosamente avevamo spostato la collocazione della violenza sessuale entro il bene giuridico individuale della “persona”, sganciandolo dal bene collettivo della moralità pubblica e del buon costume!
Orbene, proprio in nome della sicurezza pubblica, ogni atto di violenza sessuale, stupro semplice, stupro di gruppo, prostituzione minorile, pornografia minorile, turismo sessuale assunsero un trattamento severo, quello riservato alla mafia, giustificando la “straordinaria necessità e urgenza” –, indispensabili per scavalcare il Parlamento – con “l’allarmante crescita di episodi collegati alla violenza sessuale” (assunto indimostrato per mancanza di un Osservatorio nazionale). Non può allora meravigliare che la norma fosse presto portata alla Corte costituzionale che nel 2010 (n. 265) la dichiarò illegittima proprio nella parte in cui aveva disposto l’obbligatorietà della misura di custodia in carcere per i casi di prostituzione minorile, violenza sessuale e atti sessuali con minorenni (la sentenza si riferiva a giudizi per questi tipi di delitti).
Pur ritenendo corretto assoggettarli ad un regime cautelare speciale, riteneva tuttavia ingiusto e irragionevole averli trattati alla pari dei delitti di stampo mafioso, tanto più che altri delitti pur sanzionati con pene ben più elevate restavano assoggettati alla regola generale della custodia in carcere “soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”. Si trattava di una presunzione assoluta di adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere che violava il quadro costituzionale di garanzie riservate alla libertà personale. Come non concordare!? Infatti la sentenza non provocò dissensi. Con successive sentenze lo stesso principio è stato applicato ad altri delitti inseriti nel pacchetto sicurezza dalla L.38/2009, tra cui l’omicidio volontario (sent. n. 164/2011) e ora ha investito la violenza di gruppo.
Ha senso discutere della validità di una assimilazione tra violenze sessuali e violenze mafiose per la loro pericolosità sociale? O dell’accorpamento in una unica figura di reato di violenza sessuale di una gamma assai differenziata di comportamenti violenti? Occorre andare oltre oltre il discusso tema del trattamento cautelare carcerario (prima della sentenza definitiva di condanna) e investire tutti i casi di violenza maschile, non solo sessuale e non solo di gruppo. Ma il problema è proprio qui: in termini di politica del diritto e di libertà femminile. Le sentenze fanno polemizzare, tuttavia confondendo spesso diritti e desideri. Ma con quale risultato a favore della libertà femminile? Ancora una volta la attenzione si focalizza sui delitti di violenza sessuale, occultando il più vasto l’ambito della violenza maschile contro le donne (“di genere”) che non è solo sessuale, bensì anche fisica, psicologica, economica e alligna prevalentemente nelle relazioni di prossimità e intimità, nonché trova origine nei rapporti di potere uomo/donna che nella famiglia trovano il luogo privilegiato di costruzione.
La violenza maschile contro le donne esige di trovare modi nuovi per essere affrontata, svincolandosi dalla contrapposizione tra uguaglianza e differenza, liberandosi dalla strettoia tra garantismo e giustizialismo e intraprendendo strade ad oggi inedite che sappiano contenere assieme libertà femminile e diritto.
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