domenica 30 novembre 2014

La (fasulla) abolizione del cnel

Il Cnel è vivo e vegeto. Il 31 marzo Renzi prometteva: "L'abolizione del Cnel è solo l'antipasto". Peccato che il carrozzone sia ancora lì di Sergio Rame

Lo scorso 31 marzo, fresco di nomina a presidente del Consiglio, Matteo Renzi prometteva: "L'abolizione del Cnel è l'antipasto della semplificazione della pubblica amministrazione che arriverà nelle prossime settimane". Gli italiani stanno ancora aspettando l'antipasto. E, con buone probabilità, rimarranno a bocca asciutta. Perché il carrozzone è ancora lì, a Villa Lubin, nel parco romano di Villa Borghese: vivo e vegeto. Nessuno lo tocca. Buen ritiro per dirigenti sindacali in pensione, pagati profumatamente dai contribuenti.

Dall'annuncio di Renzi sono passati ben otto mesi. E il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, presieduto dall'ex ministro Antonio Marzano, è stato puntualmente infilato tra gli enti pubblici da finanziare nel 2015. Certo, la legge di Stabilità ne ha imposto una considerevole decurtazione, ma di abolizione manco a parlarne. In realtà, anche per quanto riguarda la dieta dimagrante il tutto è piuttosto fumoso. La manovra, che dovrà avere il via libera di Montecitorio nelle prossime ore, taglia genericamente 16 milioni di euro ai vari organismi istituzionali, Cnel compreso. Come spiega Tino Oldani su ItaliaOggi, il Cnel riceve dalle casse pubbliche quasi 20 milioni di euro. Di questi tre servono a pagare lo stipendio del presidente (217mila euro), l'indennità fissa dei 64 consiglieri (25mila euro all'anno a testa) e i rimborsi per i viaggi e le trasferte all'estero (1,2 milioni di euro all'anno). Altri 7 milioni di euro vengono impiegati per pagare gli 80 dipendenti del carrozzone. I restanti 9 milioni, infine, vengono stanziati per finanziare studi e consulenze che, in quanto organo costituzionale, il Cnel dovrebbe utilizzare per incidere in parlamento. Peccato che, in cinquant'anni di duro lavoro, sono stati presentati appena quattordici disegni di legge, circa uno ogni tre o quattro anni. Di questi nessuno è mai stato approvato.

A difesa di Renzi va detto che la soppressione del Cnel è un'operazione tutt'altro che facile. Essendo un ente previsto dalla Costituzione, per chiuderlo serve una legge costituzionale che richiede ben quattro passaggi in parlamento. Renzi l'ha incardinata nella riforma del Senato che dall'8 agosto, quando ha incassato il primo via libera, è al palo. Fermo lì. Mancano, insomma, altri tre passaggi. E con l'aria di elezioni anticipate che tira il Cnel potrebbe avere ancora vita molto lunga.

Il vero scandalo del carrozzone di Villa Lubin non è solo il costo a carico dei contribuenti. Se si va a spulciare i nomi dei 64 consiglieri, si scopre che sono stati tutti (o quasi) nominati da Cgil, Cisl e Uil. Un esempio su tutti è Raffaele Vanni, classe 1992 e fondatore ed ex segretario della Uil. Per ben 54 anni è stato consigliere al Cnel con l'incarico di responsabile per il Sud. Vi è rimasto fino al 2012 quando il numero dei consiglieri è stato ridotto da 121 a 64. "Il Cnel imbottito di ex sindacalisti e i record di Raffaele Vanni - spiega Oldani - sono solo un assaggio della capacità dei dirigenti sindacali di garantirsi un futuro roseo, quasi sempre a spese dei contibuenti". Nel libro Da qui all'eternità Sergio Rizzo racconta decine di casi di buen ritiro per ex dirigenti sindacali. Con tanto di nomi, cognomi e prebende. Se Renzi dovesse mai riuscire ad abolire il Cnel, metterebbe a segno il primo, vero colpo all'egemonia incontrastata di Cgil, Cisl e Uil.

Radical chic

Il "radical" pensa al prossimo soltanto se viene da lontano. La sinistra pretende di essere superiore moralmente alla destra in quanto altruista verso lo sconosciuto e lo straniero. Ma la solidarietà astratta dimentica chi è vicino di Marcello Veneziani

C' è un punto cruciale su cui la sinistra ha costruito la sua pretesa superiorità morale, etica e sociale rispetto alla destra. Parlo di ogni sinistra, comunista o liberal, socialdemocratica, cristiana o radical, compreso quel residuo di sinistra in via di liquidazione che boccheggia nel presente. E parlo di ogni destra, liberale o conservatrice, reazionaria o popolare, tradizionale e perfino fascista. Quel punto basilare è il prendersi cura dell'umanità, il famoso I care, la fratellanza o la generosità verso i più deboli, i poveri e gli oppressi. In una parola la solidarietà. Quell'asse regge la pretesa di ogni sinistra a ergersi su un trespolo di superiorità, una cattedra morale o giudiziaria, e da lì giudicare il mondo, gli altri e gli avversari. Il sottinteso è che la sinistra sia mossa da un ideale, un valore - la fratellanza, la filantropia, l'amore per l'altro, la solidarietà, trasposizione sociale della carità - e la destra invece sia mossa sempre e solo da un interesse, se liberale, o da un istinto, se radicale. La prima è per definizione altruista, aperta, la seconda egoista o al più familista, comunque cinica, chiusa.

A questa «utopia necessaria» e benefica, Stefano Rodotà ha dedicato un libro, Solidarietà (Laterza, pagg. 141 euro 14) elogiato dalle «anime belle» della sinistra. Troneggia una tesi che già affiorava ne Le due fonti della morale e della religione di Bergson: la vera solidarietà sta nell'amare il lontano, lo sconosciuto, lo straniero. In realtà c'è un altro modo di concepire il legame sociale, solidale e comunitario che non è indicato da Rodotà. È il legame affettivo che parte dal più caro e si fonda sulla prossimità. L'amore stesso è fondato sulla predilezione: la persona amata non è intercambiabile con un'altra, non si può amare dello stesso amore chi è caro e famigliare e chi è remoto e ignoto. Non si potrà mai chiedere a una persona di amare di più chi non conosce o è straniero rispetto a sua madre o suo figlio. Non si potrà mai pretendere che si senta più fratello dello sconosciuto rispetto a suo fratello: non si può capovolgere una legge di natura, biologica e affettiva, carnale e spirituale. Su quella legge naturale ha retto ogni consorzio umano e si traduce in legame d'amore e famigliare, legame civico, sociale e nazionale. Posso essere aperto all'umanità e ben disposto verso ogni uomo, ma a partire da chi mi è più vicino, da chi appartiene alla mia vita, con cui condivido il pane (compagno, cum-panis ), la provenienza e la storia. Perché dovrei giudicare egoistica questa preferenza, o cinica la morale che ne consegue? Amare chi ti è caro e vicino non è chiudersi al mondo in una forma deplorevole di egoismo, ma è la prima e più autentica apertura agli altri nella vita reale.

Su quei legami reggono le prime fondamentali comunità, le famiglie, quell'energia anima l'amore tra due persone, quella fonte dà coesione alle patrie e le altre forme di comunità, inclusa la confraternita, fino alla colleganza di lavoro. L'errore o la mistificazione che si compie al riguardo per sancire la superiorità morale dei solidali cosmici, è paragonare un valore universale a una degenerazione del principio opposto: non si confronta l'amore verso lo straniero con l'amore a partire da chi ti è più caro, ma la fratellanza all'egoismo, l'amore per l'umanità al cinismo. Sarebbe facile a questo punto compiere la simmetrica operazione e paragonare l'amore per chi ti è vicino al disprezzo, l'odio o l'indifferenza verso il prossimo dietro l'alibi e l'impostura della filantropia universale. Due spiriti acuti e profondi come Leopardi e Dostoevskij criticarono il cosmopolitismo filantropico sottolineando che l'amore per l'umanità o per lo straniero di solito si sposa all'insofferenza o all'indifferenza verso chi ti è concretamente vicino, familiare o compatriota. Ovvero nel nome di un amore astratto, utopico e solo mentale, si nega e si rinnega l'amore reale, quotidiano per le persone a noi più prossime. Nell'amore per l'umanità si spezzano i legami reali e si opta per un individualismo planetario: il single sradicato che abbraccia il mondo intero.

L'utopia che muove la fratellanza universale è il principio egualitario, ossia la convinzione che tutti gli uomini siano uguali non solo in ordine ai diritti e ai doveri ma anche sul piano degli affetti. Anzi, in questa prospettiva merita più attenzione e più cura chi ci è più estraneo. Non solo si respinge il principio del merito secondo cui ognuno riceve secondo le sue capacità e le sue opere, e si sostituisce col principio del bisogno secondo cui ognuno riceve in base alle sue necessità; ma si sostituisce la priorità su cui si fonda l'amore (la persona amata, la famiglia, gli amici, i compatrioti o i consociati) con la priorità assegnata agli stranieri. Da qui il passaggio dal legame comunitario che unisce le società al principio di accoglienza che apre al suo esterno. In questo caso la coesione sociale sarebbe fondata sull'adesione allo stesso principio: ci unisce l'idea di accogliere lo straniero e formare con lui una società aperta e universale.

Questa disputa ideologica è tutt'altro che riservata ai circoli intellettuali perché è piuttosto la traduzione culturale di un tema cruciale di massa nella nostra epoca. Si fronteggiano nella vita di ogni giorno due visioni del mondo: quella di chi affronta l'universale a partire dal particolare e quella di chi affronta il particolare a partire dall'universale. Il primo può dirsi principio d'identità fondato sulla realtà, il secondo è un principio di alterità fondato sull'utopia, come dicono gli stessi assertori, Rodotà incluso. La solidarietà può esprimersi in realtà in due modi: quello di chi privilegia lo straniero e si fonda sul principio di accoglienza, e quello di chi parte da chi è più vicino e fonda il principio di comunità. È la sfida del nostro tempo: comunità o universalismo, anche se taluni pensano nella loro utopia che si possa fondare una comunità su basi universalistiche, una specie di comunità sconfinata che coincide con l'umanità, secondo il vecchio progetto cosmopolitico illuminista. In realtà l'unico sciagurato tentativo di tradurre nel reale questa utopia egualitaria e universalista è stato il comunismo e sappiamo gli esiti catastrofici. Ora il tentativo è ridurre questa utopia politica a prescrizione morale, preservando i diritti individuali. Così l'accoglienza solidale diventa la base del moralismo radical, ultima spiaggia della sinistra egualitaria. L'utopia del mondo migliore dichiara guerra al mondo reale, alla vita e alla natura, sacrificando l'uomo concreto all'umanità. E ribattezza questa guerra contro la realtà come solidarietà all'umanità...

giovedì 27 novembre 2014

La polizia fiscale del pd

Il Pd costituisce la polizia fiscale: siamo tutti spiati. Lo Stato di polizia fiscale vagheggiato da Vincenzo Visco, ex ministro dell'Economia e spauracchio di tutti i contribuenti, sta per diventare realtà di Gian Maria De Francesco

Lo Stato di polizia fiscale vagheggiato da Vincenzo Visco, ex ministro dell'Economia e spauracchio di tutti i contribuenti, sta per diventare realtà. Ieri la commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento del piddino Marco Causi che consente all'Agenzia delle Entrate di utilizzare appieno le banche dati del fisco «per le analisi del rischio di evasione» senza concentrarsi sulle liste selezionate, ovvero solo sui contribuenti a maggior rischio, così come previsto dal decreto Salva Italia. Le informazioni raccolte dall'Agenzia delle Entrate attraverso le banche dati, si legge nella proposta di modifica, verranno utilizzate per la definizione della giacenza media nei conti correnti bancari e postali ai fini della determinazione Isee (l'indice che consente di ottenere sgravi su prestazioni e servizi sociali, ndr). La misura viene prevista sia come semplificazione degli adempimenti richiesti ai contribuenti sia come verifica dei dati dichiarati.

I discepoli di Visco, che costituiscono l'ossatura del gabinetto economico di Renzi, hanno raggiunto l'obiettivo tanto agognato sin dal 2006. A quell'epoca era stato, infatti, predisposto il super-sistema della Sogei che consentiva di incrociare i dati di tutte le agenzie pubbliche (Entrate, Territorio, Dogane, eccetera) relativi a un unico contribuente. Con Monti si completò l'intelaiatura dell'opera estendendo il controllo anche ai conti correnti bancari (entro il 31 marzo di ogni anno le banche inviano al Fisco la movimentazione dell'anno precedente), ma limitandone l'utilizzo ai potenziali evasori. «Contro l'evasione basta l'incrocio delle banche dati», disse Renzi. Detto fatto: eliminati gli scontrini fiscali e aggiustati gli studi di settore, ora arriva pure il giro di vite sulle banche dati. E Visco gongola.

Al danno per i cittadini si aggiunge pure la beffa. Anche i candidati o eletti alle cariche pubbliche, vale a dire i politici, potranno detrarre i finanziamenti ai partiti, considerati «erogazioni liberali». Si tratta di un beneficio tutto a favore della casta. La nuova legge sul finanziamento conferma le maxidetrazioni del 26% per il cittadino che finanzia un partito. Il discorso è diverso per i politici: che, eletti o candidati, ricevono spesso richieste di contributi obbligatori dalla casa madre (in virtù del taglio del contributo pubblico). Onorevoli e consiglieri si sono fatti lo sconto per fare bella figura e pagare un po' meno tasse. A spese nostre. Intanto, il governo ha deciso di porre la questione di fiducia sul ddl Stabilità in modo da chiudere la partita a Montecitorio per domenica. Si supererà quota 30 con il Jobs Act e la Stabilità al Senato. Alla faccia della democrazia parlamentare.

Tra gli emendamenti approvati ieri anche il taglio alle pensioni d'oro dal 2015. Grand commis, medici, baroni universitari - ultra65enni e ancora in servizio - riceveranno trattamenti calcolati con le regole in vigore prima dell'introduzione della riforma Fornero. Tra le altre modifiche approvate anche il dimezzamento dei tagli ai patronati (da 150 a 75 milioni), mille euro di buoni acquisto per le mamme con almeno 4 figli (e Isee di 8.500 euro) e 100 milioni per gli asili. Le notifiche di atti giudiziari sotto i 1.033 euro diventano a pagamento. Di chi è la colpa? Di un'inchiesta di Report sugli sprechi . Ma le spese di giustizia non erano già comprese nella fiscalità generale?

Sui derivati e sui favori alle banche

La commissione Finanze di Montecitorio farà la "radiografia della situazione" dei contratti derivati del settore pubblico e non. Nel frattempo però esce indenne la norma della legge di Stabilità che rende Morgan Stanley, Jp Morgan e Deutsche Bank "creditori privilegiati" dello Stato italiano

I contratti derivati finiscono al centro di un’indagine parlamentare. Ma nel frattempo i buoi sono scappati, nel senso che è uscita indenne dal passaggio in commissione alla Camera la norma, contenuta nella legge di Stabilità, che introduce la possibilità per le banche d’affari con cui il Tesoro ha in essere derivati per 160 miliardi di ottenere depositi di garanzia che li tutelino in caso di default dell’Italia. Il presidente della commissione Finanze di Montecitorio, Daniele Capezzone (FI), ha fatto sapere che “con il consenso di tutti i gruppi presenti” la commissione “ha deliberato l’avvio di una indagine conoscitiva sull’utilizzo degli strumenti finanziari derivati, nel settore pubblico e non”. Nell’arco di quattro mesi saranno sentiti rappresentanti del ministero dell’Economia, della Corte dei conti, della Cassa depositi e prestiti, della Consob, di Banca d’Italia, della conferenza delle Regioni e dell’Anci, oltre che l’Associazione bancaria italiana, esponenti “delle principali banche e intermediari finanziari”, esperti e studiosi della materia. Obiettivo, “arrivare a un rapporto finale che offra un monitoraggio, una vera e propria radiografia della reale situazione esistente in Italia rispetto ai derivati”, spiega Capezzone.

L’iniziativa, sollecitata dal deputato di Sinistra ecologia e libertà Giovanni Paglia, arriva però dopo che l’articolo 33 della Stabilità sugli “accordi di garanzia in relazione alle operazioni in strumenti derivati” ha superato l’esame della commissione Bilancio della Camera. La norma, caldeggiata dal Tesoro e in particolare dalla responsabile della direzione Debito pubblico Maria Cannata, comporta che Morgan Stanley, Jp Morgan, Deutsche Bank e le altre banche con cui negli anni novanta lo Stato ha sottoscritto derivati diventino creditori privilegiati dell’Italia. Vale a dire che in caso di crisi del debito verranno rimborsati per primi, mentre gli altri, compresi i piccoli risparmiatori italiani, dovranno mettersi in fila.

Paglia, nella lettera a Capezzone, ha chiesto che vengano “acquisiti altri elementi di valutazione, con particolare riguardo al profilo di possibile maggior rischio insito nell’assunzione dello Stato di eventuali garanzie, data anche l’incertezza sulle prospettive macro e di finanza pubblica”. Umberto Cherubini, docente di Finanza matematica e gestione dei rischi finanziari a Bologna, su lavoce.info ha stimato un costo potenziale “per il bilancio dei contribuenti italiani” variabile tra 440 milioni e oltre 1 miliardo di euro.

lunedì 24 novembre 2014

Ci guadagnano sempre banche, assicurazioni e coop...


L’ipotesi che lo scricchiolante welfare pubblico, sanità inclusa, possa diventare appannaggio delle compagnie assicurative non è solo un’idea avanzata da osservatori ed esperti come l’avvocato Marco Bona che ne ha recentemente parlato a ilfattoquotidiano.it. Ci stanno pensando da tempo anche gli stessi assicuratori, a partire dalla Unipol delle coop che non ne fa mistero. “Appare ormai maturo il tempo di una nuova integrazione tra pubblico e privato, capace non solo di garantire la tutela sanitaria e sociale delle persone, ma anche di favorire la crescita economica, a partire dai territori”, ha detto commentando i risultati del rapporto Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche socialì di Censis e Unipol, che è stato presentato mercoledì a Roma.

“Se sapremo superare i pregiudizi consolidati, il pilastro socio-sanitario, inteso non più solo come un costo, può divenire una solida filiera economico-produttiva da aggiungere alle grandi direttrici politiche per il rilancio della crescita nel nostro Paese”, ha aggiunto Stefanini. “Nei lunghi anni della recessione le famiglie italiane hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare pubblico”, gli ha fatto eco Giuseppe Roma, direttore generale del Censis. “Oggi questo peso inizia a diventare insostenibile. Per questo è necessario far evolvere il mercato informale e spontaneo dei servizi alla persona in una moderna organizzazione che garantisca prezzi più bassi e migliori prestazioni utilizzando al meglio le risorse disponibili”.

Secondo il rapporto che si basa su indagine svolta dal Censis per Unipol, nell’ultimo anno la spesa sanitaria privata ha registrato un -5,7%, il valore pro-capite si è ridotto da 491 a 458 euro all’anno e le famiglie italiane hanno dovuto rinunciare complessivamente a 6,9 milioni di prestazioni mediche private. Per la prima volta è diminuito anche il numero delle badanti che lavorano nelle case degli anziani bisognosi: 4mila in meno nell’ultimo anno. Sono i segnali di un’inversione di tendenza rispetto a un fenomeno consolidato per cui le risorse familiari hanno compensato per anni un’offerta del welfare pubblico che si restringeva. Tra il 2007 e il 2013 la spesa sanitaria pubblica è rimasta praticamente invariata (+0,6% in termini reali) a causa della stretta sui conti dello Stato. Era aumentata, al contrario, la spesa di tasca propria delle famiglie (out of pocket): +9,2% tra il 2007 e il 2012, per ridursi però del 5,7% nel 2013 a 26,9 miliardi di euro. Quanto al futuro, l’allungamento dell’aspettativa di vita, il marcato invecchiamento della popolazione, le previsioni di incremento delle disabilità e del numero delle persone non autosufficienti prefigurano bisogni crescenti di protezione sociale. 

“Negli anni a venire l’incremento della domanda di sanità e di assistenza proseguirà a ritmi serrati. Una domanda che l’offerta pubblica però non potrà soddisfare. C’è già oggi una domanda inevasa di cure e di assistenza a cui il sistema pubblico non riesce a fare fronte”, è stata la sintesi in sede di presentazione del rapporto. Secondo il quale “integrare pubblico e privato diviene, così, un’opportunità rilevante, per compensare una domanda cui la sola sfera pubblica non è più in grado di fare fronte”. In particolare l’idea è quella “di un’integrazione tra offerta pubblica e strumenti assicurativi (che permettano di sottoscrivere polizze a costi accessibili per poter godere in futuro di servizi di assistenza, di cura e di long term care) e di intermediazione organizzata e professionale di servizi” che “diventa quanto mai attuale”.

Anche perché, sottolinea il rapporto “l’Italia resta una delle poche economie avanzate in cui la spesa out of pocket intermediata, ovvero coperta da assicurazioni di tipo integrativo o da strumenti simili, rappresenta una quota molto bassa del totale della spesa sanitaria “di tasca propria”. L’Ocse stima che in Italia l’out of pocket intermediato sia appena il 13,4% del totale, a fronte del 43% della Germania, del 65,8% della Francia, 76,1% degli Stati Uniti. Si tratta di un dato che fa molto riflettere e che lascia immaginare lo spazio che esiste per allargare il perimetro di azione sia del pubblico che degli operatori privati, ma soprattutto per ridisegnare gli equilibri tra i due attori”.

In concreto “occorre naturalmente stabilire le modalità precise per attivare tale percorso di integrazione, non tralasciando che molti fenomeni di cambiamento socio-demografico variano ed assumono sfumature differenti a seconda dei territori in cui si articola il Paese. Coinvolgere, pertanto, gli Enti territoriali nella definizione di processi di integrazione pubblico-privato, ma soprattutto coinvolgerli nella definizione di strumenti integrativi di welfare può essere una pista di lavoro per attivare servizi maggiormente rispondenti ad uno scenario in cambiamento. In questa prospettiva si pongono le proposte, di alcuni operatori privati, in primis Unipol, di attivare fondi sanitari integrativi di tipo territoriale, con una forte compartecipazione degli Enti locali”.

Un’ipotesi che dovrebbe interessare a tutti gli attori in campo, incluso il ministero del Lavoro di Giuliano Poletti che ha partecipato alla presentazione dello studio insieme al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, se incorniciata nel quadro tracciato dal rapporto. Quello che parla di “una vera rivoluzione produttiva e occupazionale, utile a risollevare l’Italia dalla prolungata fase di stagnazione” proprio grazie all’integrazione degli strumenti di welfare pubblici con il mercato sociale privato, “puntando a valorizzare l’economia della salute, dell’assistenza e del benessere delle persone (la “white economy”)”. Considerato nell’insieme, sostengono le stime al 2012 del valore della produzione e dell’occupazione dei comparti afferenti alla white economy frutto dell’elaborazione Censis su dati Istat, Assobiomedica e Farmindustria riportata dall’analisi, il sistema di offerta di servizi di diagnostica e cura, farmaci, ricerca in campo medico e farmacologico, tecnologie biomedicali, servizi di assistenza a malati, disabili, persone non autosufficienti genera oggi un valore della produzione di oltre 186 miliardi di euro, pari al 6% della produzione economica nazionale, con una occupazione di 2,7 milioni di addetti. Numeri che non tengono ovviamente conto dei valori in ballo per il comparto assicurativo. Mentre resta fermo, sempre secondo lo studio, che “è evidente che la modernizzazione e la crescita della white economy, non possono passare solo per un investimento pubblico ma, viceversa, dovrebbero passare attraverso l’attivazione di un’offerta privata di servizi e di strumenti assicurativi e finanziari privati, di tipo integrativo, coordinati con l’offerta pubblica e sottoposti, ovviamente, alla vigilanza di organismi indipendenti competenti per materia”.

Un’idea che è piaciuta molto al ministro della Salute, Lorenzin che ha commentato che sulla sanità integrativa “non siamo all’anno zero” e dal prossimo autunno si costruirà “questo pilastro importante nella riorganizzazione del sistema sanitario“. “Dopo i costi standard e il Patto per la salute già realizzati” per il ministro è questo il prossimo importante passo da fare: organizzare “la sanità integrativa, sia con i fondi e sia con le assicurazioni, in modo tale da creare una complementarietà anche per quanto riguarda il settore pubblico”. Lorenzin immagina anche “dei fondi aperti. Penso ai lavoratori che perdono il lavoro, a come accompagnarli nei cambi di professione” . Si tratterà quindi di un sistema che non si va a sovrapporre “al servizio sanitario nazionale, ma dovrà essere integrato in una logica di sviluppo del sistema per creare anche una cultura del risparmio, utile all’assistenza per quando si sarà più anziani”. Inoltre, dovrà essere concepito in una logica di integrazione socio-sanitaria “penso – ha detto – non soltanto all’aspetto di sanitario ma anche di servizi alla persone”.

Fonzarelli, il 2 a 0 per loro e i coglioni

Regionali, vince l'astensione. Ma Renzi fa finta di nulla. Con appena il 40% dei votanti la sinistra vince in Emilia Romagna e Calabria. Renzi esulta su Twitter: "2-0 per noi" di Raffaello Binelli

I dati delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria parlano chiaro: ha stravinto l'astensione. A votare, infatti, sono stati il 40% degli aventi diritto dei quasi 5 milioni e mezzo di persone chiamate alle urne.

In Emilia Romagna appena il 37,67% (alle ultime Europee 69,98%). È andata meglio in Calabria: 44,07%.

Il centrosinistra vince in entrambe le regioni. In Emilia Romagna Stefano Bonaccini raccoglie il 49,04% dei voti, mentre il candidato del centrodestra, Alan Fabbri, si ferma al 29,85%.

Al terzo posto, ma con un forte distacco, la grillina Giulia Gibertoni, con il 13,30% dei voti; Maria Cristina Quintavalla (L'Altra Emilia Romagna) al 4%. Percentuali a prefisso telefonico per gli altri due sfidanti: Alessandro Rondoni (Udc-Ncd) al 2,66%, Maurizio Mazzanti all'1,12%.

In Calabria (1819 sezioni su 2409) Mario Oliverio ha il 61,49% dei voti. Per il centrodestra Wanda Ferro (FI) prende il 23,59%, mentre Nico D'Ascola (Ncd - FdI) si attesta all'8,67%. Il grillino Cono Cantelmi al 4,82% e Domenico Gattuso (L'Altra Calabria) all'1,37%.

Canta vittoria Matteo Renzi, che ignora il dilagare del non voto - soprattutto nella Regione "più rossa" d'Italia - e gongola: "Male l'affluenza, bene il risultato", scrive su Twitter, "Due a zero netto con quattro regioni su quattro strappate alla destra in nove mesi. La Lega asfalta Forza Italia e Grillo. Pd sopra il 40 per cento". Ma il 40% del 40% non è certo rappresentativo del Paese. Dopo qualche ora Renzi minimizza: "Il fatto che non ci sia stata una grande affluenza è un elemento che deve preoccupare e far riflettere ma che è secondario perché checché se ne dica non tutti hanno perso". Il premier lo ha detto al termine dell'incontro con il cancelliere della Repubblica d'Austria Werner Faymann, a Vienna.

Ecco tutti gli sfidanti
 
In Emilia Romagna i candidati alla presidenza eranoStefano Bonaccini (Pd), sostenuto da una coalizione di centrosinistra (compresa Sel); Alan Fabbri (Lega), appoggiato da Forza Italia, Fratelli d'Italia e Lega Nord; Giulia Gibertoni (Movimento 5 Stelle); Maurizio Mazzanti, sostenuto dalla lista civica "Liberi Cittadini"; Cristina Quintavalla corre per la lista "L’Altra Emilia-Romagna"; Alessandro Rondoni è il candidato di Ncd, Udc ed Emilia Romagna Popolare.

In Calabria in lizza per la poltrona di presidente sono: Wanda Ferro, sostenuta da Forza Italia e Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale; Mario Oliverio, per il centrosinistra; Cono Cantelmi, sostenuto dal Movimento 5 Stelle; Nico D’Ascola per Nuovo centrodestra e Udc; Domenico Gattuso, de "L’Altra Calabria", con un logo che richiama "L’altra Europa di Tsipras" delle ultime elezioni europee.
 
Cosa c'è in gioco

Il Pd, convinto di portare a casa il risultato in entrambe le regioni, per evitare sorprese mette le mani avanti: "Le elezioni regionali non sono un referendum sul governo - ha detto il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi -. Ovviamente io credo che finirà con una vittoria del Pd, in entrambi i casi. Ma staremo a vedere. Vedremo stasera". Insomma, sembra sottolineare la Boschi, Renzi non è candidato, e nemmeno il suo governo. Anche se appena saputi i risultati Renzi esulta.

Il "non voto" era molto temuto dai democratici, specie in Emilia Romagna, storica roccaforte rossa. La campagna elettorale è stata molto fiacca, gli unici due momenti in cui si è destato l'interesse (o la morbosa curiosità) dei cittadini sono stati questi: lo scandalo per lo scontrino del sex toy comparso nei rimborsi di una consigliera Pd, e l'aggressione a Salvini, avvenuta fuori dal campo rom di Bologna. Il segretario della Lega spera di fare il pieno di voti, per cercare di lanciare un'Opa nel centrodestra (almeno ci spera). Il Movimento 5 Stelle, invece, teme di veder franare larga parte dei propri consensi e Grillo, poco prima del voto, ha tenuto un profilo bassissimo. In Calabria il candidato della sinistra, Oliverio, ha imbarcato ben otto liste e subito dopo le elezioni potrebbe aprire agli alfaniani.

martedì 18 novembre 2014

Cose molto belle

C'è da avere paura... ma vah?

Ferie ai magistrati, Davigo: "Volevano tagliarle, le hanno allungate". Davigo boccia la riforma della giustizia: "Dilettanti allo sbaraglio, c'è da aver paura" di Franco Grilli

"Pensavano di accorciare le ferie ai magistrati, invece, probabilmente ce le hanno allungate: dilettanti allo sbaraglio...". Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione, boccia la riforma della giustizia in un intervento all’incontro "Riforme contro la Costituzione?" e stronca l'operato del governo. "Questo perché - ha spiegato il magistrato - hanno introdotto un articolo bis per cui le ferie sono di 30 giorni. Però non hanno abrogato il precedente articolo che dice che quei magistrati con funzioni giurisdizionali ne hanno 45. Quindi, solo ai fuori ruolo hanno ridotto le ferie. Nella nuova norma però hanno detto che i giorni devono diventare netti perché finora durante le ferie noi scrivevamo le sentenze. A questo punto, perciò, se diventano nette io devo smettere di fare udienza 15 giorni prima perché in quei 15 giorni devo scrivere le sentenze. E quando finisco le ferie non posso cominciare subito con le udienze perché devo studiare prima i processi e quindi comincerò 15 giorni dopo. Quindi da 45 i giorni sono diventati 75. Le hanno allungate, dilettanti allo sbaraglio, c’è da avere paura".

Progressismo e pensiero unico

"Gli immigrati ci affamano" Studentessa cacciata da scuola. La replica a un volontario Caritas durante un convegno organizzato dalla scuola le è costata la sospensione di Franco Grilli

"Gli immigrati affamano gli italiani". Parole pronunciate da una studentessa di Adria (Rovigo) e che le sono costate una sospensione da scuola. L'istituto superiore aveva infatti organizzato una conferenza con la Caritas in cui si parlava di integrazione e nuove povertà. Durante l'incontro la ragazza - minorenne - è intervenuta sostenendo che gli immigrati "fanno morire di fame chi è nato in Italia: lavorando per un tozzo di pane riducono su lastrico i lavoratori italiani", come raccontano il Corriere Veneto e il Gazzettino. Il volontario della Caritas ha inutilmente tentato di ribattere, ma alla fine del convegno la studentessa è stata sospesa da scuola per qualche giorno con l'accusa di razzismo e xenofobia.

domenica 16 novembre 2014

Liberi di fare ciò che vogliono

"Se chiediamo il biglietto ci sputano addosso". Aggressione selvaggia a Treviso nei confronti di un'autista di bus. Malmenato da quaranta ragazzini. Denunciato un 17enne marocchino di Angelo Scarano

Ha solo fatto il suo dovere, chiedendo di timbrare il biglietto a un passeggero del bus di linea. Per questa ragione l'autista Luca Dal Corso è stato aggredito e malmenato da decine di giovani. La vicenda è accaduta a Treviso. Un 17enne marocchino lo sbeffeggia con un biglietto non valido. L'autista gli chiede di scendere dal veicolo, ma si becca degli schiaffi. Allora Luca scende dal bus per acciuffare l'aggressore, ma viene inseguito da una quarantina di giovani che erano sul bus. Lo accerchiano e lo riempiono di calci e pugni. Due giorni di prognosi. "Ci sfidano. Se gli chiediamo il biglietto, ci sputano addosso. È la generazione dei nostri figli, e ci trattano come pezze ai piedi. Ogni giorno, ogni notte, basta, non ne possiamo più", ha raccontato un conducente di Mom a La Tribuna di Treviso.

Preso a calci e pugni per il parcheggio: “Mi ha detto che in Congo sarei morto“. San Francesco, violenza fuori da un locale a Jesi: vittima un 31enne di Sara Ferreri

Jesi (Ancona), 16 novembre 2014 - Un parcheggio forse troppo vicino al furgone e scattano calci, pugni e insulti: 31enne jesino aggredito venerdì sera, alle 22,45 davanti alla chiesa di San Francesco accanto al circolo omonimo, noto a tutti come il «club». Una tranquilla serata finisce al pronto soccorso per S.A. che racconta quei minuti da incubo, appena uscito, dolorante, dall’ospedale a ritirare i referti.

«Ho parcheggiato accanto alla chiesa, a circa mezzo metro dal furgone. Nello scendere ho controllato che lo sportello non fosse troppo vicino al furgone a bordo del quale stavano salendo due stranieri e poi mi sono avviato verso il bar. Uno dei due mi ha detto: Che cosa hai da guardare?’ Ma io ho fatto finta di nulla, avendo capito che quella persona cercava lo scontro. Ma mi ha raggiunto, strattonato e tirato un pugno in faccia, poi un calcio alle gambe che mi ha fatto cadere a terra. Mi sono trovato in mezzo alla strada, mezzo nudo, con la maglia strappata e con le auto che mi passavano accanto senza fermarsi. Qualcuno ha tentato di intervenire ma lui insultava e minacciava tutti. Ha seminato il panico. Ad un certo punto mi ha detto: «Se eri in Congo eri morto». Ma il giovane jesino arrivato sul posto assieme a due amici (una ragazza ha dato subito l’allarme col cellulare) non ha reagito, il perché lo spiega lui stesso: «Quel giovane, anche fisicamente ben messo, era mosso da una furia incredibile, avrebbe potuto davvero ammazzarci. Non ho reagito in alcun modo. Lui per provocarmi diceva anche di conoscermi ma io non l’avevo mai visto. Poi mi hanno detto che ha già aggredito senza motivo altre persone».

Si tratta di A.K. 25enne congolese da tempo residente in città. Avrebbe diverse denunce per reati analoghi. E venerdì sera la sua furia si è concentrata anche contro alcuni avventori del bar, fino all’arrivo degli agenti del locale commissariato e dell’ambulanza. A luglio al campo da basket in via Jugoslavia, in pieno giorno, il 25enne aveva aggredito un ragazzo che stava giocando. «Mi chiedo perché racconta il ragazzo picchiato (sei i giorni di prognosi) come si possa consentire ad una persona così di continuare liberamente ad aggredire chiunque abbia la sfortuna di incontrarlo». Circa un mese fa ad essere stato massacrato di botte un 22enne di Filottrano, solo per aver difeso il suo amico più piccolo dal furto del cellulare davanti alla discoteca Miami di Monsano. Pestato a sangue da una banda di rom (tre sono stati presi), Francesco si sta riprendendo egregiamente dal brutto incubo vissuto.

Sui fatti di Tor Sapienza

Prima dal blog di Johnny Doe e poi da Nessie.

Altro che protesta fascista, la rabbia di Tor Sapienza è rossa. Se si guarda il Municipio V, quello di cui fa parte Tor Sapienza, è lampante che l'elettorato di Marino ha voltato le spalle al sindaco. Qui, alle ultime elezioni comunali del 2013, il centrosinistra ha stravinto. Oggi infiamma la protesta al grido "Marino, vattene" di Domenico Ferrara

Mentre Tor Sapienza sprofonda nel degrado, nella ghettizzazione e nella rabbia anti-immigrati, Ignazio Marino e Angelino Alfano si esibiscono nel gioco del rimpallo delle responsabilità. Il che già rende poca giustizia alle richieste provenienti dai cittadini. Se poi a ciò si aggiunge una distorta interpretazione della realtà e il rifiuto di capire le radici del malcontento sfociato nei confronti dell'amministrazione capitolina, ecco che il quadro si fa ancora più scuro. Perché sarà pur vero che il primo cittadino romano ci ha messo la faccia, recandosi nel luogo della protesta e venendo subissato di fischi. E sarà pur vero che la sfilata degli anti-Marino, condita da alcuni saluti fascisti e che ha visto la partecipazione di alcuni esponenti del centrodestra, di Casa Pound e della Lega Nord, ha fornito l'assist alla sinistra e ad alcuni organi di stampa per puntare il dito contro la destra e per mettere da parte altri aspetti più rilevanti e certificati da numeri incontrovertibili. Ma la verità è che il malcontento proviene da sinistra. Parlano i numeri, appunto. Quelli degli ultimi risultati elettorali.

Se si guarda infatti il Municipio V, quello di cui fa parte Tor Sapienza, si evince che alle ultime elezioni comunali del 2013, il centrosinistra ha stravinto. Marino al primo turno ha preso il 45%, al secondo turno il 64%. Gianmarco Palmieri, candidato presidente del centrosinistra al quinto municipio, ha preso il 47% al primo turno e il 66% al secondo turno. Per quanto riguarda i partiti, al primo turno il Pd ha preso il 29%, Sel il 6,4%, Lista civica Marino il 7%. Mentre il Pdl ha preso il 16,4% e le liste alla sua destra (Fdi, Storace e Alemanno) un 12% complessivo. E Casapound ha preso lo 0,67%.

Se poi si guardano le ultime Europee, il Pd era al 41,5%, Lista Tsipras al 6,3%, Forza Italia al 13%, il partito della Meloni al 5% e la Lega Nord all'1,6%. Nella primavera di quest'anno, sempre nel Municipio V, un'altra avvisaglia del malcontento nei confronti della sinistra è stata rappresentata dai circa 1500 voti ottenuti da Mario Borghezio. Quanti romani di periferia sarebbero stati disposti a votare lo stesso candidato (quello di Roma ladrona) una decina di anni fa? Insomma, il campanello d'allarme si era già manifestato. Ed è stato snobbato. E, considerati i dati in termini di consenso, tutto si può dire meno che la protesta dei romani sia di destra o pilotata dalla stessa.

Junker e la lotta all'evasione fiscale

 No, ma va bene. Va bene che l'alcolizzato Junker pretenda la lotta all'evasione fiscale. Mi pare giusto una simile ipocrisia. Infondo, se ha aiutato le multinazionali estere a portare le sedi legali in lussemburgo, lo ha fatto perchè ci sono leggi che lo hanno consentito e lo consentono tuttora... giustamente lui, non ha fatto niente di male...

Nella lettera di quattro pagine, datata 12 novembre, nessun accenno all'austerità di bilancio ma apertura a una "revisione" delle regole sul debito. Il presidente della Commissione, sotto accusa per lo scandalo degli accordi fiscali tra Lussemburgo e multinazionali, ribadisce poi che entro fine anno sarà varato piano di investimenti da 300 miliardi. Da Italia richieste per 40 di F. Q.

Dopo la polemica a distanza con Matteo Renzi, ora il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, indebolito dallo scandalo LuxLeaks, cerca una tregua. E lo fa con una lettera di quattro pagine, resa nota dal portale EurActiv, e un faccia a faccia andato in scena durante il G20 di Brisbane. La missiva, scritta a quattro mani con il primo vicepresidente Frans Timmermans e inviata via mail il 12 novembre, è indirizzata al premier italiano, in quanto presidente di turno del semestre Ue, e al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz. “Adesso lavoriamo insieme”, chiede Juncker, deciso a difendere la poltrona mentre Bloomberg e il Financial Times, ma anche la leader del Front National francese Marine Le Pen, i Cinque Stelle e Fratelli d’Italia ne chiedono le dimissioni in seguito alle rivelazioni dell’inchiesta sugli accordi fiscali del Lussemburgo con le multinazionali straniere. Mentre il settimanale L’Espresso, partner esclusivo per l’Italia dell’International Consortium of Investigative Journalism (ICIJ) che ha svelato lo scandalo, dedica la copertina del suo ultimo numero alla seconda puntata dell’inchiesta intitolandola “Quest’uomo è inadatto a guidare l’Europa”.
"Indebolito dallo scandalo LuxLeaks, il nuovo presidente della Commissione cerca una tregua con il premier italiano che guida il semestre europeo"

L’ex capo di governo del Granducato ribadisce più volte la necessità di collaborare per la realizzazione di un programma in dieci punti tutto incentrato sulla crescita e la lotta alla disoccupazione. “Una cooperazione più stretta tra le nostre istituzioni può mandare un messaggio potente”, scrive. E si dice “pronto”, dopo l’adozione del programma per il 2015, a lavorare con il Consiglio europeo e l’Europarlamento per “identificare una lista di proposte sulle quali le istituzioni possano impegnarsi a fare rapidi progressi (“binario veloce”), riguardo sia ai contenuti sia alle procedure”. Segue una lista di “dieci priorità per il 2015 e oltre”. Al primo punto c’è “una nuova spinta per il lavoro, la crescita e gli investimenti”. Ovvero il pacchetto da 300 miliardi di investimenti annunciato già in estate e ora in dirittura d’arrivo: verrà presentato entro fine anno e l’Italia ha già avanzato le sue richieste, sotto forma di 2.200 progetti per un valore complessivo di 40 miliardi, alla task force di cui fanno parte Commissione e Banca europea degli investimenti.

Ai punti successivi ci sono “un mercato unico digitale connesso”, “un’unione energetica resiliente e una politica contro i cambiamenti climatici che guardi avanti”, “un mercato interno più ampio e equo”, “un accordo per il libero commercio con gli Usa ragionevole e bilanciato“, “un’area di giustizia e diritti fondamentali basata sulla fiducia reciproca”, “una nuova politica della migrazione“, una “più forte azione globale” e, decimo punto, “un’unione per il cambiamento democratico”.

Titoli sibillini sotto i quali sono però citati alcuni obiettivi particolarmente rilevanti sia alla luce dello scandalo sui “tax ruling” lussemburghesi sia in vista del giudizio definitivo sulle leggi di Stabilità dei Paesi Ue, previsto per il 24 novembre. Per prima cosa, infatti, al quarto punto si legge che occorre lavorare su “misure per combattere la frode e l’evasione fiscale”. Juncker, dunque, resta saldo sulla linea di difesa scelta dopo l’esplosione dei LuxLeaks: non ci sarebbe “alcun conflitto di interesse” tra la sua posizione e il fatto che la Commissione abbia avviato indagini sul Lussemburgo e intenda mettere a punto una direttiva ad hoc per lo scambio automatico di informazioni sugli accordi fiscali anticipati siglati tra le autorità fiscali e le aziende. I tax ruling, appunto.

L’altro aspetto che colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento alla necessità di uno stretto controllo sui conti pubblici da parte degli Stati membri. Anzi, al punto cinque si ricorda che è in vista una “revisione” del Six pack e del Two pack, i regolamenti sulla riduzione del debito e del deficit che pesano come un macigno sui Paesi del Sud Europa, Italia in testa. Auspicando un rafforzamento del “governo” economico dell’Unione, insomma, Juncker sembra sposare una posizione meno rigorista che in passato, quando non aveva mancato di sottolineare che gli unici margini di flessibilità sono quelli già consentiti dai trattati e non possono comunque essere indipendenti dal varo delle riforme strutturali. E dire che solo dieci giorni fa il lussemburghese aveva risposto con toni durissimi alle affermazioni di Renzi sui “burocrati europei”. Avvertendo:Io sono il presidente della Commissione Ue, istituzione che merita rispetto”.

venerdì 14 novembre 2014

Togli la tassa, rimetti la tassa...

 ... e se io dal mio smartphone e dal mio ipad la tv non ce la guardassi proprio per niente? E tra l'altro, io la rai non la guardo proprio...

Il canone Rai pagato insieme alla bolletta della luce. Fissato un tetto massimo di 80 euro. Ma pagherà chiunque possa collegarsi al servizio pubblico anche tramite computer, smartphone o iPad. Ecco come scampare l'odiata tassa di Sergio Rame

Sulla tessa degli italiani pende un'altra mannaia. È la riforma del canone Rai. Era nell'aria da tempo, ma negli ultimi giorni il premier Matteo Renzi sembra aver accelerato la pratica. Prima di partire per l'Australia ha, infatti, incontrato il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli per una valutazione finale. Adesso la palla passa al ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan che dovrà decidere se presentare un emendamento alla legge di Stabilità o varare un decreto ad hoc. Già a partire dall'anno prossimo il canone della Rai potrebbe, infatti, finire nella bolletta elettrica.

L'operazione "canone Rai" pesa un miliardo e 800 milioni di euro all'anno. Un bottino che fa gola al premier, anche perché infilando la tassa nella bolletta della luce tutti i contribuenti saranno costretti a pagarlo. Anche chi non possiede una televisione. Come fa notare Claudio Marincola del Messaggero, il gettito del canone non cambierà, ma dimuirà l'importo chiesto agli italiani che oggi è lievitato a 113 euro e 50 centesimi: "Continueranno a esserci le fasce di esenzione e i bonus per i meno abbienti, anche se a farne richiesta finora è stato solo il 30% delle famiglie disagiate". Tutti gli altri sborseranno dai 35 agli 80 euro. Cifra che varierà a seconda degli indicatori Isee.

Nel faccia a faccia con Giacomelli, Renzi avrebbe già dato il via libera alla riforma. Il canone, dunque, entrerà nella bolletta elettrica. Ma per chi non intende pagarlo c'è ancora una via di fuga. Dovrà, infatti, dimostrare di non possedere una tv o anche qualsiasi device con cui sintonizzarsi sui programmi del servizio pubblico. E quindi: niente tablet, niente iPad, niente smartphone, niente pc. Come al solito, però, sarà il contribuente a dover dimostrare di non possedere alcun dispositivo. Altrimenti non gli resterà che pagare.

Quelli puliti...

Dopo l'avviso di chiusura indagini a carico del segretario generale dell'Ambiente il ministro valuta la possibilità di revocargli la direzione dell'Isin, l'ispettorato per la sicurezza nucleare. Anche i democratici per la marcia indietro, i Cinque Stelle chiedono le dimissioni del ministro di Thomas Mackinson e Andrea Palladino

La nomina di Antonio Agostini a capo dell’Ispettorato per la sicurezza nucleare è in bilico. Poche ore dopo la diffusione della notizia delle indagini della Procura di Roma sull’attuale segretario generale del ministero dell’ambiente, il ministro Gianluca Galletti valuta diverse ipotesi – secondo quanto riferito alle agenzie – e non esclude il ritiro della nomina. Agostini è indagato per turbativa d’asta e abuso d’ufficio in un’inchiesta – arrivata a conclusione oggi – del pm Felici sulla gestione dei fondi per la ricerca all’interno del Miur. Sulla stessa vicenda stanno lavorando gli investigatori dell’ufficio antifrode di Bruxelles e la procura della Corte dei conti, che, nei mesi scorsi, ha già ascoltato alcuni funzionari del Miur.

Al centro dell’inchiesta sono finiti due bandi finanziati dai fondi comunitari: quello per la ricerca industriale e quello per il potenziamento della ricerca. Secondo l’accusa della procura, Agostini – che all’epoca dei fatti occupava il posto di direttore generale – avrebbe fatto erogare fondi ad enti nominando una commissione di esperti che facevano parte del suo entourage. Tra i promotori di progetti finiti sotto la lente della Procura vi sarebbero anche soggetti vicini all’ex ministro Maria Stella Gelmini. I fatti contestati si riferiscono al 2011, quando i valutatori del ministero dell’istruzione della ricerca avviarono la selezione dei progetti. Per la procura Agostini avrebbe esercitato pressioni al fine di soprassedere su alcuni requisiti previsti dalla legge, come, ad esempio, la solidità economica delle aziende beneficiarie. L’inchiesta romana prosegue, puntando a chiarire come siano stati utilizzati i soldi erogati nell’ambito dei due bandi gestiti da Antonio Agostini. Oltre ad Agostini l’inchiesta ha coinvolto l’autorità di gestione dei progetti in mano a Fabrizio Cobis, dirigente dell’ufficio settimo, che è accusato del suolo abuso di ufficio per i bandi del secondo avviso.

Intanto l’ufficializzazione dell’indagine a carico sta avendo effetti sulla nomina di Agostini all’Isin, l’agenzia che dovrà occuparsi del post-nucleare italiano. Se il ministro Galletti che l’ha avanzata ne sta valutando il ritiro, dallo stesso Pd che l’ha votata in Parlamento arrivano chiari segnali di ripensamento. “A seguito della notizia dell’avviso di chiusura indagini che potrebbe preludere a una richiesta di rinvio a giudizio, invitiamo i ministri competenti dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, e dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, a sospendere la nomina di Agostini alla direzione dell’Isin ai fini di valutarne l’opportunità alla luce dei necessari chiarimenti”, questo quanto dichiarano congiuntamente Ermete Realacci e Guglielmo Epifani, presidenti della VIII Commissione Ambiente e della X Commissione Attività Produttive della Camera.

Più duri gli oppositori della prima ora alla nomina che ora vanno all’attacco frontale di chi la proposta chiedendo le dimissioni del ministro.  “In Commissione Ambiente abbiamo in tutti i modi cercato di far capire che era la persona meno adatta – sottolinea Mirko Busto, deputato del M5S in Commissione Ambiente – Nel suo curriculum non c’è traccia di competenza in campo nucleare e già durante la discussione era emerso che c’era un fascicolo aperto su di lui e l’amministrazione dello Stato ne era a conoscenza. Adesso il ministro dell’Ambiente, che ha insistito nel volerlo, sta valutando la revoca della nomina? Per noi l’unica cosa che dovrebbe valutare sono le proprie dimissioni per manifesta inadeguatezza nelle valutazioni”. Un segnale del governo in questo senso dovrà arrivare a breve, visto che il decreto di nomina dovrà essere convalidato in Cdm dopo il parere favorevole delle commissioni parlamentari e poi trasmesso al Quirinale per la controfirma.

domenica 9 novembre 2014

Io c'ero. Italia vs Samoa 24-13

E vai di tasse...

Renzi benedice i sindaci: sono liberi di massacrare. Arriva la local tax. Il governo toglierà il tetto alle aliquote consentendo ai sindaci di fare cassa con una maxi gabella locale di Sergio Rame

Si abbassa drasticamente il livello dello scontro tra governo e sindaci, impennatosi all'improvviso all’indomani della pubblicazione della bozza della legge di Stabilità. In questo senso ha giocato un ruolo decisivo la XXXI assemblea nazionale dell’Anci, in corso a Milano, che in qualche modo ha obbligato a un confronto serrato tra le parti. Il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Graziano Delrio, ha dato il timing della "local tax", capitolo caro ai sindaci per aver mano libera e tassare indisturbatamente i cittadini. "La local tax - ha spiegato Delrio - rispetterà i tempi dell'approvazione della legge di stabilità. Sarà una grandissima rivoluzione perché la separazione fiscale è alla base del federalismo". In realtà, sebbene venga spacciata per un alleggerimento della spesa statale, il governo toglierà il tetto alle aliquote consentendo ai sindaci di fare cassa con le gabelle locali.

Delrio ha spiegato che il governo sta lavorando per la messa a punto della nuova tassa locale: "La cosa importante è che vi sia autonomia fiscale dei comuni completa". "Oggi i comuni - ha ricordato ancora Delrio facendo un’istantanea del fisco locale - hanno pezzi di Irpef, e l’Imu con un pezzo allo Stato. Quando avevo un altro ruolo chiedevo sempre responsabilità fiscale, e questo perchè se imponi delle tasse a un cittadino questo deve sapere poi di chi deve chiedere se mancano i servizi". Secondo il sottosegretario, quindi, "serve una separazione delle aliquote in cui i comuni hanno un solo pilastro fiscale e lo Stato ne ha un altro. Io credo che sia molto importante - ha confidato - il tema di restituire la categoria D dell’Imu ai Comuni e l’Irpef allo Stato, così - ha ribadito chiudendo - ognuno saprà a chi dare la colpa se le tasse sono troppo alte". Quasi soddisfatto anche il leader dei Sindaci Piero Fassino: "Da Renzi abbiamo ricevuto risposte importanti perché ha confermato le aperture agli emendamenti alla legge di stabilità che abbiamo concordato con il governo e ha ribadito la volontà di mantenere aperto il dialogo anche su altri capitoli della legge". E poi, soprattutto, "risposte positive sono arrivate anche sulla local tax".

Ma cosa cambierà per i contribuenti? Il taglio della spesa pubblica centrale si tradurrà in un aumento della pressione fiscale locale. Il governo darà, infatti, piena libertà agli amministratori comunali di fissare le aliquote senza che lo Stato ponga alcun limite. Secondo un recente calcolo della Cgia di Mestre, se dovesse unire Imu e Tasi che valgono 18 miliardi di euro, la Tari che si aggira intorno ai 7,3 miliardi, l'imposta sulla pubblicità (426 milioni), la tassa sull'occupazione di spazi e aree pubblici (218 milioni), l'imposta di soggiorno (105 milioni) e l'imposta di scopo (14 milioni), la "local tax" peserà oltre 31 miliardi. Ma come sempre c'è un "ma". Perché la maxi gabella non centerrà tutte le tasse locali. La Tari, per esempio, resterà fuori dal momento che viene calcolata sulla base dei metriquadri e dei componenti famigliari. Per il resto tutto dentro. Senza limiti. In questo modo il governo lascia andare il giunzaglio rendendo i primi cittadini liberi di tassare quanto vogliono.

I regali di fonzarelli

Dal Senato 426mila euro alla fondazione di Zanda. Nel cda della fondazione anche Onida, Giarda e Bassanini. La moglie di quest'ultimo, la Lanzillotta, è vicepresidente del Senato di Sergio Rame

Forse i più non sanno che Luigi Zanda, capogruppo Pd al Senato, siede anche nel consiglio di amministrazione della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII. Come si legge nello statuto, si tratta di una "istituzione di ricerca, che pubblica, forma, serve, organizza, accoglie e comunica la ricerca nell’ambito delle scienze religiose". E, come ogni fondazione italiana che si rispetti, sopravvive (anche) di finanziamenti pubblici. Insomma, i contribuenti italiani. Come denuncia Dagospia, lo scorso mercoledì la fondazione ha ricevuto dal Senato un finanziamento di oltre 426mila euro. Degli 1,75 miliardi di euro del Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca 82,5 milioni sono andati alle "attività di ricerca a valenza internazionale". "Tra i 3,5 milioni per l’impianto di Grenoble che produce luce al sincrotrone e gli 844 mila euro al progetto HSFP sulla ricerca di base (coinvolti 13 paesi, dal Canada all’India) - denuncia Dagospia - ecco spuntare i 426mila eurini alla fondazione Fscire, ignota ai più ma guidata da Alberto Melloni, ordinario di storia del cristianesimo all’università di Modena-Reggio Emilia e legatissimo a Zanda". In realtà, il merito dello stanziamento dei fondi non è solo del capogruppo piddì. Nel cda della Giovanni XXIII c’è infatti parecchia gente di peso. Non solo il presidente è l’ex giudice costituzionale Valerio Onida, ma tra i membri ci sono anche l'ex ministro del governo Monti, Piero Giarda, e il presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini. E ancora: la moglie di Bassanini, Linda Lanzillotta, è la vicepresidente del Senato. Come fa notare Dagospia, la Lanzillotta, che "in commissione Cultura ha sostituito Stefania Giannini quando quella è diventata ministro" e che "in commissione non si vede mai", lo scorso mercoledì è corsa a votare il via libera al finanziamento.

venerdì 7 novembre 2014

Gli eurocrati puliti

Proprio stamattina c'è stata una sorta di dichiarazione che la dice lunga: "Junker resta comunque credibile". Certo. Era persino ovvio. Sarebbe stato credibile anche se avesse ammazzato migliaia di persone con un colpo alla nuca.


Se pensate che il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker sia soltanto il capo di una banda di euroburocrati - un po' austeri e un po' cialtroni - vi sbagliate. Juncker a differenza di quanto ripete il nostro premier Matteo Renzi non è solo quello. Juncker è anche l'ideologo e il demiurgo di un sistema di elusione delle rendite che ha consentito al Granducato del Lussemburgo di trasformarsi nel più raffinato e impenetrabile paradiso fiscale d'Europa. E ha garantito a oltre 340 fra aziende e multinazionali di arricchirsi a dismisura sottraendo alle casse dei paesi europei e agli Stati Uniti oltre 2.000 miliardi di euro di tasse.

Non ci credete? Pensate che Juncker sia veramente un gentiluomo impegnato, come prometteva lui stesso a luglio, nel tentativo di «mettere un po' di morale ed etica nel panorama fiscale europeo». Beh allora sarà meglio scendere dall'albero dei sogni e leggere il rapporto del Consorzio Internazionale del Giornalismo Investigativo. L'organizzazione, basata negli Usa e composta da giornalisti di tutto il pianeta, ha spulciato 28mila pagine di documenti riservati usciti dal granducato su cui Juncker ha regnato da primo ministro, dal 1995 al 2013. E ha scoperto che la legislazione introdotta durante i 18 anni di mandato Juncker ha consentito a 340 multinazionali di spostare nel Granducato i profitti realizzati in Europa o Stati Uniti usufruendo di tassi d'imposizione fiscale assolutamente ridicoli. O meglio assai iniqui. «Stando a quei documenti - nota il rapporto già ribattezzato Luxleak - alcune aziende hanno goduto di una tassazione inferiore all'1% sui profitti trasferiti in Lussemburgo».

Insomma un meccanismo studiato ad arte per consentire autentici raggiri «legali» ai danni degli altri paesi europei. Un meccanismo forse non perfettamente in linea con la reputazione di un presidente della Commissione Europea, ma che ha sicuramente garantito a Juncker le simpatie di uomini e aziende assai potenti. Le alchimie legali con cui l'ex premier lussemburghese ha saputo trasformare l'elusione fiscale in profitto e trasformare un minuscolo granducato in una delle più importanti piazze finanziarie del pianeta hanno infatti contribuito a rendere ancor più ricco e soddisfatto il «gotha» mondiale dell'economia e della finanza. Grazie agli accordi ideati dai governi Juncker marchi come Apple, Fiat, Amazon, Heinz, Pepsi, Ikea, Deutsche Bank hanno stretto contratti fiscali privilegiati con il Lussemburgo concordando prelievi infinitesimali rispetto alle tasse pagate nei paesi d'origine da qualsiasi comune mortale. Ma il gigantesco meccanismo d'elusione planetaria messo in piedi nel cuore dell'«austera» Unione Europea grazie al lavoro «pregresso» del Presidente Juncker rischia ora di travolgere il suo demiurgo e i suoi favoriti.

Le rivelazioni del Consorzio Internazionale del Giornalismo Investigativo si aggiungono all'inchiesta, già aperta dall'ex commissario per la Concorrenza Joaquin Almunia, che puntava a far luce sulle operazioni di elusioni fiscale realizzate da Fiat, Apple, Starbucks e Amazon sfruttando i «buchi neri» di Olanda e Lussemburgo. E così ieri la compunta signora Margrethe Vestager, erede di Almunia alla Concorrenza, ha pensato bene di reagire alle rivelazioni sulla cosiddetta «Luxleak» chiedendo al Lussemburgo informazioni sulle pratiche delle multinazionali arricchitesi grazie alla sua piattaforma fiscale. Un intervento degno della peggior ipocrisia di Bruxelles visto che l'ideatore di quella «piattaforma» - e il grande custode dei suoi segreti legali - altri non è se non il numero uno della Commissione di cui la Vestager fa parte. Nonostante le commedie dell'assurdo inscenate nel mellifluo clima di Bruxelles il presidente Juncker rischia comunque grosso. Se le rivelazioni di Luxleak si faranno ancora più pressanti neppure gli «euro-ipocriti» potranno fingere d'ignorare che il gran demiurgo dell'elusione alloggia uno scranno sopra il loro. E allora le richieste di dimissioni, avanzate già ieri da un'implacabile euroscettica come Marine Le Pen, potrebbero diventare inesorabile realtà.

mercoledì 5 novembre 2014

Estemporanea a Valencia