mercoledì 30 gennaio 2013

Da 21 anni in italia... e non parla l'italiano


"Ritorni quando avrà imparato bene l'italiano". Damiano Zecchinato, sindaco leghista del comune di Vigonovo (in provincia di Venezia), ha rifiutato la cittadinanza italiana a un marocchino che, seppure in Italia da 21 anni, non sa ancora leggere l'italiano. Come riporta oggi il Gazzettino (leggi l'articolo), un operaio marocchino di 47 anni si era presentato davanti al primo cittadino di Vigonovo (Venezia) per la cerimonia di ottenimento della cittadinanza italiana. "Tutta la documentazione era a posto e la cerimonia di giuramento era stata fissata per ieri alle 10 nell'ufficio del primo cittadino, alla presenza dell'ufficiale d'anagrafe comunale e di una dirigente del settore socio-assistenziale che aveva curato tutto l'iter burocratico della domanda presentata dal cittadino marocchino", racconta il Gazzettino. Ma, quando si è trovato tra le mani il foglio con le poche righe predisposte dall’ufficiale d’anagrafe, il marocchino che da 13 anni risiede nel comune di Vigonovo non ha saputo leggerle provocando la decisone di Zecchinato di sospendere l’atto. Il primo cittadino, come indica il Gazzettino, dopo essersi consultato con il responsabile prefettizio per l’immigrazione ha concesso sei mesi di tempo al marocchino per imparare a leggere l’italiano rinviandolo ad una nuova cerimonia in estate. L’operaio, che risiede a Vigonovo con moglie e due figli di 9 e 6 anni, si sarebbe giustificato ammettendo di non essere mai andato a scuola e di non aver potuto imparare la lingua.

martedì 29 gennaio 2013

Nessuno si dimette e nessuno va in galera... coi soldi pubblici


Come previsto, il ministro dell'Economia uscente, Vittorio Grilli, afferma che "i 3,9 miliardi di Monti bond liberati dal governo per il Monte dei Paschi non si configurano come un salvataggio. La banca è solida, tanto che è indispensabile non insinuare dubbi sulla solidità del sistema bancario italiano", ha spiegato nel corso della relazione alle Commissioni finanze di Camera e Senato a seguito dello scandalo derivati esploso a Siena e che fa tremare la sinistra. Grilli ha ribadito che "Mps ha una situazione patrimoniale complessiva solida, e le tensioni che lo hanno riguardato non producono effetti sul sistema bancario nel suo complesso". Dopo aver smentito l'ipotesi del salvataggio - anche se il Monte, come spieghiamo, di fatto verrà nazionalizzato e a pagare saranno i contribuenti italiani - arriva anche il conentino: "Bankitalia, in seguito alle ispezioni del 2011 e al termine dell'indagine conclusa il 9 marzo del 2012, ha rilevato pesanti carenze nella gestione della liquidità e ha disposto sanzioni ai manager", ha spiegato Grilli, che ha aggiunto che "il provvedimento è in fase conclusiva".

Nazionalizzazione di fatto - La verità, però, è che Mps sarà sottoposta a una "nazionalizzazione di risulta", una formula coniata dal premier Mario Monti. Lo Stato, di fatto, entrerà nel capitale del Montepaschi utilizzando i Monti-bond. Ovvio, nessuno lo dichiara pubblicamente, men che meno Grilli nel corso dell'audizione. Ma è sufficiente dare un'occhiata ai fatti e alle cifre per comprendere come il destino di Mps è già scritto: finirà in mano pubblica in via provvisoria in attesa di completare il risanamento con la garanzia del Tesoro. Nel frattempo l'istituto dovrà cercare un grande azionista privato disposto ad acquisirlo. Che succede? Succede che i 3,9 miliardi di prestito obbligazionario che la banca conferirà al Tesoro in cambio di denaro cash, serviranno a riallinare gli indicatori della banca ai livelli richiesti da Eba e Basilea III. Grazie all'iniezione di liquidità, il Coer Tier 1 dell'istituto salirà a 9, che in termini pratici pone la banca in sicurezza dal punto di vista patrimoniale. E dunque, spiega il Tesoro, "il commissariamento non è un'ipotesi presa in considerazione". Vincenzo Visco, numero uno di Bankitalia, ha spiegato che i 3,9 miliardi di Monti-bond "al momento sono sufficienti".

Il prestito - Ed è proprio dietro a questo "al momento" che si nasconde il segreto di Pulcinella, quello della nazionalizzazione. Il prestito di Stato è sufficiente a ripianare il deficit patrimoniale di Mps, ma con tutta probabilità non servirà, nei prossimi mesi, a garantire l'operatività della banca (una situazione ben chiara sia a Palazzo Koch sia alla Consob). Dunque, in assenza di nuovi ingressi nel capitale, risulta pressoché impossibile che il banco sense possa generare i profitti promessi con cui remunerare il prestito del Tesoro con un interesse al 9 per cento. Ed è a questo punto che si concretizzerà la "nazionalizzazione di risulta". Lo scenario più plausibile, infatti, prevede la conversione dei bond in mano al Tesoro in azioni della banca (alias "nazionalizzazione di risulta", di cui hanno parlato anche lo stesso Grilli e Mario Draghi in un incontro riservato a Milano, avvenuto domenica mattina). I Monti-bond introdotti dal governo tecnico si configurano come un prestito temporaneo dello Stato alla banca. Peccato però che nel caso - probabile - che il Monte dei Paschi di Siena non riesca a restituire nei termini il prestito, la banca verrà nazionalizzata in via provvisoria in attesa di essere ricollocata sul mercato.

E Profumo conferma... - E la conferma al fatto che si proceda verso la nazionalizzazione arriva da Alessandro Profumo, presidente di Mps. In un'intervista concessa a Giovanni Floris, in onda su Ballarò di martedì 29 gennaio, il presidente del banco senese spiega che "potenzialmente la nazionalizzazione è possibile. Dopodichè sottolineo potenzialmente, perché abbiamo fatto un piano industriale con il nuovo Consiglio di amministrazione e il nuovo management, che dovrebbe consentirci di restituire questo finanziamento, questo supporto pubblico che stiamo ricevendo oggi. Uso il condizionale - ha concluso Profumo - perché c'è tantissimo lavoro da fare e questo è quello che noi ci siamo impegnati a fare".

In audizione - Grilli, nel corso dell'audizione di fronte alle Commissioni, ha ribadito più volte che i 3,9 miliardi di titoli sosttoscritti dal Tesoro "non si configurano come un salvataggio di una banca insolvente, ma come rafforzamento del capitale". Una mezza bugia, dunque. Secondo il titolare di via XX Settembre uscente, l'aiuto finanziario "non è a favore dei manager o degli azionisti, ma dei risparmiatori della banca". Grilli ha specificato che si tratta di "un prestito a un tasso del 9%, e non a fondo perduto". Per la banca, una volta che il prestito verrà richiesto ufficialmente, "ci saranno condizioni pesanti e con onerosità crescente per incentivare il rimborso nel più breve tempo possibile" che includono anche "limiti alle strategie commerciali e acquisizione partecipazioni". Vengono inoltre previsti "divieti di distribuire dividenti, e vincoli alle remunerazioni".

Rettiliani vermiformi

Ah, che bello. E' arrivata la cavalleria in aiuto al signor monti... è partita la campagna mediatica della dittatura Ue contro Berlusconi! Una domanda, tal Olli Rehn, chi mai lo ha eletto?


MILANO - L'Italia come paradigma dell'effetto "fiducia" sui mercati. E ancora l'Italia come caso di scuola per uscire dalla crisi: dal governo Berlusconi che "bloccò la crescita" all'esecutivo Monti capace di "stabilizzare la situazione". L'analisi arriva dal commissario europeo agli Affari economici, Olli Rehn intervenuto al Parlamento Ue rievocando le crisi finanziaria e politica di fine 2011 dell'Italia ed evidenziando gli obiettivi di Bruxelles per il 2013.

Berlusconi. "L'Italia aveva preso impegni di consolidamento di bilancio nell'estate 2011 per facilitare l'intervento Bce nel mercato secondario per acquistare titoli di Stato: quando il governo Berlusconi decise di non rispettare più gli impegni assunti il costo del finanziamento per lo Stato è aumentato soffocando la crescita dell'Italia, poi con la formazione del governo monti la situazione si è stabilizzata. Questo è un chiaro esempio di fattore fiducia" che ha prodotto dei risultati positivi in termini di premio sul rischio.

La repliche di Alfano e Brunetta. "E' inaccettabile che Olli Rehn, vicepresidente di un'istituzione indipendente quale la commissione europea, intervenga nella campagna elettorale di uno stato membro, peraltro con affermazioni false, tecnicamente sbagliate e facilmente smentibili", ha sostenuto il segretario politico del Pdl, Angelino Alfano, in una nota. "Una così chiara interferenza - sottolinea - mette a repentaglio l'immagine della commissione europea". E l'ex ministro Renato Brunetta rincara la dose: "Chiediamo una commissione di inchiesta del Parlamento europeo sulle affermazioni odierne del commissario Rehn, destituite di ogni fondamento e gravemente diffamatorie dell'Italia e del governo Berlusconi". E aggiunge: "Mente sapendo di mentire, si dovrebbe dimettere".

La crisi. "Quest'anno - ha poi continuato Rehn - sarà un test essenziale per la credibilità" dell'Ue e dell'Eurozona. Un anno fa "c'era seria preoccupazione per l'Italia e la Spagna" e "profonda incertezza sulla Grecia", mentre le "Cassandre predicevano la fine dell'eurozona". Oggi la situazione è cambiata ma "nonostante alcuni progressi ci sono ancora sfide" e per questo servono "riforme equilibrate e ambiziose" del mercato del lavoro che "rimuovano gli ostacoli all'occupazione" favorendo anche i "contratti a durata indeterminata" e la "contrattazione collettiva" per il reinserimento dei lavoratori.

Le priorità. Per il commissiario Ue, i prossimi programmi di riforma nazionali devono essere il "mantenimento del ritmo delle riforme economiche" e il "proseguimento del consolidamento fiscale" a cui "non c'è alternativa", in quanto un debito al 90-100% del Pil è un "serio ostacolo" alla crescita. Uno dei cardini delle riforme per il 2013 dovrà quindi essere il "ripristino della competitività dell'industria europea sia manifatturiera che dei servizi". Il Commissario Ue ha ricordato che tra il 2000 e il 2011 sono stati persi 2,5 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero tra Francia, Germania, Italia e Spagna. In Francia e Spagna sono stati bruciati 750mila posti, in Italia 370mila e in Germania 570mila.

Riforme. Per proseguire con il "riequilibrio dell'economia europea" che è ora "in corso", ha sottolineato il commissario Ue agli Affari economici "dobbiamo mantenere il ritmo delle riforme economiche". Allo stesso tempo "dobbiamo proseguire con il consolidamento fiscale: un debito al 90-100% del Pil ha un serio e negativo impatto sulla crescita", ha continuato Rehn, sottolineando che "negli ultimi 4 anni in Europa il debito è salito dal 77% a circa il 90% per quest'anno e il prossimo". Questo "peso sulla crescita" implica che "non c'è alternativa a un consolidamento intelligente differenziato anche Paese per Paese a seconda dello spazio di manovra fiscale". Per realizzare le riforme, Rehn ha ricordato l'idea proposta dal rapporto sul futuro dell'Unione economica e monetaria di un "meccanismo di solidarietà" per aiutare e incentivare i paesi a sostenerne i costi insieme agli "impegni vincolanti".

Unione bancaria. Inoltre, per Rehn bisogna "completare il lavoro sulla supervisione unica bancaria, con un meccanismo di risoluzione" delle banche dell'Eurozona. "Le finanze pubbliche in Europa stanno migliorando" ma per il commissario finlandese "dobbiamo convincere i mercati sulle prospettive a lungo termine dell'euro". In questo senso per Rehn è fondamentale "l'iniziativa della Commissione per una 'vera' Unione economica e monetaria" e che prevede "nel breve termine proposte concrete sull'Unione Bancaria e sviluppo di un meccanismo decisionale europeo".

lunedì 28 gennaio 2013

Punti di vista su Mps

MPS: un caso di crisi finanziaria sistemica di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Lo scandalo dei derivati del Monte dei Paschi di Siena è più grave di quanto lo si stia dipingendo. Però vediamo di non trasformarlo nella solita bega provinciale a metà strada tra la politica e i giochi elettorali. Si tratta, invece, della nota questione, profonda e sistemica, della finanza globale e delle sue crisi mai affrontate. I responsabili dello scandalo e della truffa, se la magistratura li individuerà e ne accerterà le violazioni del codice penale, meritano la galera ed il sequestro dei beni. I controllori, che non hanno saputo controllare, a cominciare dalla Banca d’Italia, devono comunque spiegare il loro operato e trarne eventualmente le necessarie conclusioni. A noi preme anche sottolineare e mostrare gli aspetti sistemici ed internazionali che stanno all’origine della crisi e, anche in questo caso, a monte e a valle della frode. E’ sorprendente l’indignazione di fronte a questo scandalo. Come se ogni frode sia scollegata dalle tante altre e abbia una semplice valenza locale. Non tutti sanno che tra gli azionisti di Mps c’è anche la banca americana JP Morgan Chase. Essa è la prima al mondo per operazioni in derivati finanziari. L’ultimo rapporto dell’Office of the Comptroller of the Currency (Occ) negli Usa indica che alla fine del terzo trimestre del 2012 essa deteneva derivati over the counter (otc) per un valore nozionale di ben 71 trilioni di dollari! Come è noto gli otc sono contrattati nell’assoluta opacità, al di fuori dei mercati ufficiali e tenuti fuori bilancio. Anche la frode Mps ne è la prova provata. Vi era, infatti, un contratto tenuto segreto in cassaforte e mai riportato sui libri contabili.

Questi casi esplodono quando bisogna coprire le perdite di qualcosa che ufficialmente “non esiste” o non dovrebbe esistere. La JP Morgan quindi controlla quasi un terzo di tutti i derivati attivati dalle banche americane, che sono 227 trilioni di dollari. Detiene inoltre un nono di tutte gli otc mondiali che, secondo l’ultima stima della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, ammontano a 639 trilioni di dollari! Con una presenza attiva della succitata banca americana, non è sorprendente che anche Mps si sia immersa nella palude dei più rischiosi derivati finanziari. Chi va con lo zoppo impara a zoppicare! Dai risultati delle indagini finora emersi apprendiamo che Mps, per coprire le rilevanti perdite derivanti da operazioni in derivati, noti come “Alexandria”, fatte tra l’altro con la Dresdner Bank tedesca, nel luglio 2009 aveva sottoscritto un altro cosiddetto “veicolo strutturato” in derivati: ancora più rischioso e segreto, con la finanziaria giapponese Nomura. Con tale operazione apparentemente sparivano le perdite ma Mps si impegnava a sostenere i costi del nuovo derivato finanziario per almeno trenta anni. Dopo il fallimento della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, la Nomura è diventata la più aggressiva finanziaria impegnata nei più esotici e rischiosi derivati. Nel 2009, infatti, essa ha rilevato tutte le strutture europee e asiatiche della Lehman, “arruolando” anche i suoi massimi manager e circa 8.500 operatori finanziari. Non è un caso che la Nomura sia coinvolta in moltissime operazioni finanziarie internazionali ad alto rischio. Molte delle quali anche in Italia.

Un altro “veicolo” speculativo in derivati finanziari, emerso dalle indagini, è il “Santorini”, stipulato da Mps con la Deutsche Bank, la quale nell’ultimo periodo è nell’occhio del ciclone per tantissime indagini per truffa da parte delle autorità tedesche. Un certo sconcerto suscita il “regalo” di 4 miliardi di euro fatto al pericolante Banco Santander spagnolo nell’acquisizione di Antonveneta. Come si può notare molte di queste operazioni sono state fatte dopo l’esplosione della crisi del 2007-8. Gli attori, come da noi ripetutamente evidenziato, hanno continuato a muoversi con la stessa spregiudicatezza e irresponsabilità. Essi contavano e ancora contano su due cose: essere troppo grandi e sistemici per poter essere lasciati fallire, e sulle politiche conseguenti di salvataggio bancario da parte dei governi. E’ un gioco mortale per le economie e per i paesi coinvolti. Deve finire. Riteniamo che il caso Mps debba diventare per l’Italia e per l’Europa l’occasione per costringere anche gli Usa, il Giappone e gli altri paesi del G20 a ripulire la finanza dai titoli tossici. Altrimenti si rischiano nuove “bombe finanziarie” con ulteriori devastazioni delle economie e con la frustrazione di ogni speranza di ripresa. Anche in Italia.

Tutto e il suo contrario...

Solo un paio di mesi fa, ci diceva che ridurre le tasse sarebbe stato da irresponsabili. Pochi giorni fa, ci diceva che i partiti fanno promesse (in campagna elettorale) anche se non sono certi di poterle mantenere. Oggi, cambia tutto. Il bocconiano ci dice che può fare molto più dei partiti... E per la nuova (probabile manovra fiscale), ci dice che tutto dipende dal voto...


È arrivato il momento delle promesse che non verranno mai mantenute. In piena campagna elettorale, dopo tredici mesi di stangate fiscali e misure lacrime e sangue, il premier uscente Mario Monti rassicura gli italiani impegnandosi ad abbassare l'Irpef e l'Irap, a partire dal 2014, e ad aumentare le detrazioni per l’Imu sulla prima casa, già a partire da quest'anno. Insomma, dopo che Rete Imprese ha denunciato un innnalzamento record della pressione fiscale che, nel giro di un anno, è schizzato oltre il 56%, il Professore è tornato sui propri passi e ha annunciato alcuni punti del piano di riduzione fiscale. Dagli studi di Omnibus su la7, il Professore ha fatto sapere che la coalizione di centro presenterà, al più presto, un piano per ridurre il gettito di Imu, Irap e Irpef. "Non voglio fare promesse - ha assicurato - ma prendere impegni seri". Nel dettaglio monti ha spiegato che, per quanto riguarda l'imposta sulla prima casa, è possibile prevedere detrazioni da 200 a 400 euro e detrazioni per figli a carico fino a 800 euro. "Il costo stimato è due miliardi e mezzo - ha detto il leader di Scelta Civica - la copertura viene dal contenimento della spesa corrente primaria pari a circa 3 miliardi". Per quanto riguarda Irap, invece, il programma di Monti prevede "una riduzione favorevole al lavoro dal 2014" con "l’eliminazione del monte salari dalla base imponibile dell’Irap". "Il totale - ha spiegato il premier dimissionario - sarà pari al dimezzamento dell’attuale carico fiscale sul settore privato, circa 11,5 miliardi di imposta in meno in cinque anni sulle imprese". Infine, per quanto riguarda il capitolo Irpef, Monti ha promesso una revisione a partire dall'anno prossimo: "Vogliamo ridurrre il peso dell’imposta a partire dai redditi medio bassi attraverso l’aumento delle detrazioni per i carichi familiari e la riduzione delle aliquote a partire da quelle più basse, complessivamente nella legisla ridurremo il gettito Irpef di 15,5 miliardi".

È una versione "nuova" quella del Professore in campagna elettorale. Solo un mese fa osteggiava la proposta, lanciata da Silvio Berlusconi, di eliminare l'imposta sulla prima casa: "Se si farà senza altre grandissime operazioni di politica economica, chi verrà al governo un anno dopo dovra mettere l'Imu doppia". Adesso sembra aver cambiato completamente idea. Dopo tredici mesi di austerity e politiche fortemente recessive, il premier punta tutto sulla riduzione della pressione fiscale e sulle riforme che non è riuscito a mettere in campo quando poteva godere il pieno appoggio di Pdl, Pd e Terzo Polo. Adesso dice di voler "lavorare per scomporre i poli" mettendo insieme forze trasversali per riuscire a rifomare il Paese. Pietro Ichino prima sedeva nei banchi del Pd, Giuliano Cazzola nei banchi del Pdl: ora siederanno tra i centristi. "L’Italia ha bisogno di coppie di riforme: c’è bisogno di andare avanti nel mercato del lavoro e nella giustizia - ha continuato - sulle prime il Pdl sarebbe stato disponibile, sulla seconda il Pd sarebbe stato disponibile". E Monti dice di voler lavorare proprio per "superare queste gabbie". Da qui l'idea di formare una grande coalizione che metta insieme più partiti e che, ovviamente, sostenga la corsa del Professore a Palazzo Chigi. In realtà, quelle di Monti sono solo promesse da campagna elettorale. Promesse sapientemente condite con le minacce. Velatamente il premier usa la scure dalla manovra economica per mettere paura agli italiani: "Escludo una manovra correttiva dei conti, ma non escludo niente in certi casi di esito del voto". Un "messaggio minaccioso" che non è affatto piaciuto al leader della Cgil Susanna Camusso che ha invitato il Professore a chiarire sullo stato dei conti pubblici.

Monti torna a parlare a Viterbo, presentando i candidati della sua lista: "I partiti sono molto legati ad apparati ed interessi costituiti. Non hanno quel freschezza che noi abbiamo perchè arriviamo sgombri da attività pluridecennali". E insiste sui conti pubblici e l'economia: "Il precipizio è ancora lì ma abbiamo invertito la marcia. L’emergenza finanziaria" è superata "con l’appoggio dei partiti, che sono stati presi anche loro dalla paura, e con l’appoggio dei milioni di italiani che hanno dimostrato maggiore responsabilità dei greci, ai portoghesi. Quel rischio, posso dirlo, è passato".

domenica 27 gennaio 2013

Il pd non c'entra...


"Il Pd ha sempre governato il Monte dei Paschi. L'ingerenza è stata ed è notevole. L'indipendenza della banca dalla politica è una barzelletta che purtroppo non fa più ridere". L'ex sindaco di Siena, Pierluigi Piccini, fa nomi e cognomi. "Giuliano Amato, Luigi Berlinguer, Massimo D'Alema che voleva far sposare il Monte con la Bnl". Ma anche Matteo Renzi, "perché anche lui ne ha approfittato". Ma il primo attacco è per l'ex ministro del Tesoro, Vincenzo Visco che al Corriere della Sera ha detto: "Mps non è un problema del Pd, è un problema di Siena", vantandosi poi di essere stato l'unico a scardinare il sistema, per esempio firmando il decreto per impedire all'allora sindaco di Siena di diventare presidente della Fondazione Mps.

È vero quel che dice Visco, Piccini? Falso. Io fui bloccato perché ero troppo autonomo rispetto alla linea del partito che ha sempre pesato, sia a livello locale sia nazionale, sulla gestione del Monte dei Paschi. E poi nella sua versione della storia Visco non ricorda un elemento importante: Bnl.

Che c'entrava Bnl con la nomina della Fondazione Mps? C'entrava eccome. Bisogna fare un salto indietro all'estate del Duemila quando il sottoscritto subisce pressioni da D'Alema per sponsorizzare il progetto di mandare a nozze Mps con la romana Bnl. Ipotesi che mi ha subito lasciato molto perplesso. In queste pressioni vedevo un palese conflitto di interessi con il mio ruolo di amministratore.

E dopo che successe? D'Alema si rifece avanti? Nel 2001 arriva una lettera del ministero del Tesoro, firmata dall'allora direttore generale Mario Draghi, che solleva una incompatibilità fittizia: come sindaco avrei potuto nominare una parte della deputazione amministratrice della Fondazione che a sua volta avrebbe dovuto decidere sulla mia nomina, innescando così un potenziale conflitto di interessi. Io non sarei stato più sindaco e ci sarebbe comunque stata una nuova deputazione. Nel 2003 la Corte di Cassazione annulla quella lettera come atto illegittimo. Bisogna chiedersi allora cosa, e chi, ci fosse dietro quella lettera.

Chiediamocelo. La mia risposta è che D'Alema ma anche l'allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, così come Giuliano Amato e Luigi Berlinguer fossero convinti che io non ero più affidabile. Che ero diventato difficile da governare, non avevo dato garanzie sufficienti alla fattibilità del progetto con Bnl. Nell'ottobre 2003, durante un colloquio nei corridoi della Camera, alla presenza di testimoni, Pier Luigi Bersani e Visco mi rimproverarono perché ero stato troppo tiepido sull'ipotesi di fusione con Bnl e non avevo detto pubblicamente che sarei stato d'accordo.

E come è finita? Nel 2004 sono stato espulso dal partito.

Ora cosa accadrà al Pd locale? A livello nazionale il Pd sta facendo quadrato e aspetta che passi la tempesta, altrimenti D'Alema non avrebbe mai preso la parola come ha fatto in questi giorni. A Siena, si aspetta di conoscere il verdetto elettorale delle politiche. Poi si apriranno i giochi sul rinnovo della giunta, ora commissariata, in primavera. Secondo me il Pd si sbarazzerà di Ceccuzzi (l'ex sindaco di Siena che si ripresenta dopo aver vinto le primarie nelle scorse settimane, ndr) e troverà una terza soluzione. Magari una donna o un candidato giovane.

E Matteo Renzi e i renziani? Penso che Renzi non abbia più un ruolo autonomo, che le sue scelte siano subalterne al gruppo dirigente del partito. E Renzi non è credibile perché alle Invasioni Barbariche, su La7, commentando il caso Mps, ha citato Banca 121 dimenticandosi che i problemi del Montepaschi nascono nel 2007 con l'acquisto di Antonveneta, con il bond Fresh lanciato nel 2008 per finanziare l'operazione e poi con i derivati. Se vuole essere credibile Renzi deve entrare nel merito. Ma non può farlo.

Perchè? Non ci dica che anche Renzi... Anche Renzi ha usufruito dell'accordo fra Mussari e Ceccuzzi per alcune nomine nella Firenze Parcheggi e in alcune società controllate da Mps.

Mps, nessuno sapeva... o tutti dormivano


Dal Messaggero del 23/01/2013

“«La vera natura di alcune operazioni riguardanti il Monte dei Paschi di Siena riportate dalla stampa è emersa solo di recente, a seguito del rinvenimento di documenti tenuti celati all'Autorità di Vigilanza e portati alla luce dalla nuova dirigenza di Mps», afferma la Banca d'Italia in una nota.”

“Oggi Mps in una nota ha affermato che «le analisi, avviate nel mese di ottobre 2012 inizialmente su Alexandria e successivamente estese anche a Santorini e Nota Italia…”

Notate i due grassettati. Banca d’Italia parla di rivelazioni recenti e portate alla luce dalla nuova dirigenza MPS. La nuova dirigenza s’insedia il 27 aprile 2012. E’ quindi dopo l’aprile 2012 che essa scopre i documenti incriminanti sull’uso di derivati truffaldini. Tenete a mente aprile 2012. Nel secondo grassetto si parla di analisi avviate da MPS nell’ottobre 2012. Tenete a mente ottobre 2012. Ora tenete a mente questa data: febbraio 2012, mesi prima delle date relative alla ‘grande scoperta’ di Profumo e di Banca d’Italia. Tenete a mente che la sostanza dei giochetti truffaldini fatti da MPS con altre banche internazionali si chiama “equity swaps”. Riassunto:

A) Banca d’Italia e MPS dichiarano che tutto il pasticcio dei derivati si scopre fra l’aprile e l’ottobre 2012.

B) Il pasticcio dei derivati MPS fa uso delle “equity swaps”.

Ecco cosa scriveva un semplice corrispondente di Bloomberg nel febbraio 2012: “Investitori come Aabar Investments PJSC e la Fondazione Monte dei Paschi di Siena hanno fatto uso di derivati per tentare di proteggere il loro valore o per ottenere prestiti… Monte Paschi ha accettato di mettere quote del suo capitale come garanzia nell’equity swap.” Lo sapeva sto tizio e lo pubblicava in febbraio, mesi prima delle ‘scoperte’ italiane. Ma qui da noi Banca d’Italia e i bravi colleghi di Corriere e Sole 24 Ore? Ora scoprono l’acqua calda. What a wonderful world…

sabato 26 gennaio 2013

I poli e le corporazioni...

... ci vuole una faccia di bronzo come la sua per parlare di corporativismo...


Mario Monti ha assicurato che il suo impegno in politica non mira a un coinvolgimento nel futuro governo. «Non siamo entrati per andare al governo», ha detto il premier nel corso di una conferenza stampa a Milano per la presentazione dei candidati di Scelta Civica, anzi «sto facendo la cosa che più di altre allontana un mio futuro coinvolgimento nella vita pubblica, ma coglie l'unica possibilità utile per il Paese».

«AVVERSARI DELLA SINISTRA» - E ha confessato qual è la linea programmatica del suo "centro" (e quali i suoi avversari politici): «Siamo elettoralmente avversari della sinistra e a maggior ragione della sinistra di Vendola, e ci preoccupa la forte influenza della Cgil sullo schieramento di Bersani».

IMPRONTA RIFORMISTA - «Non vorremmo partecipare a nessun governo che non avesse una forte impronta riformista o nel quale fossero presenti o influenti forze con intonazione populista o anti-europea», ha poi rincarato Monti. Né il polo con la destra e la Lega né quello del Pd «con l'estrema sinistra» danno garanzie di andare avanti «con le riforme per scrostare l'Italia dagli interessi corporativi delle categorie», ha accusato il premier dimissionario.

LE (FUTURE) ALLEANZE - «Quando il Parlamento sarà insediato si potrà parlare di alleanze», Monti ha anche sgombrato il campo da ogni insinuazione rispetto a possibili alleanze con uno o l'altro schieramento.

IL CASO MPS - E il Professore si è anche espresso sulla candidatura di Alfredo Monaci, ex membro del cda di Monte dei Paschi durante la gestione Mussari, alla Camera nella Lista Monti: «Il nostro candidato, che non conosco, è stato segnalato dal territorio e non sapevo che fosse stato del Pd nè di quale ala del Pd fosse». «So solo che lui, come tutti i candidati - ha proseguito - ha firmato la dichiarazione di non avere condanne passate in giudicato».

IL RAPPORTO CON BERLUSCONI - Monti ha avuto modo di affrontare anche il rapporto con uno dei suoi competitor per la corsa alla guida del Paese: Silvio Berlusconi. «Lui è una persona i rapporti personali sono molto facili e mi dispiace quando dice, magari essendone convinto lui stesso, che abbiamo rovinato l'economia italiana».

Pierferdy Casini e la verità


«È in atto una gigantesca mistificazione: chi attribuisce tutti i disastri e i fallimenti degli ultimi venti anni a Monti afferma il falso. Grazie a Monti e all'Udc abbiamo salvato il Paese». Lo ha detto il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini nel corso della conferenza stampa di presentazione dei candidati alla Camera lista Lazio uno. «Ora - conclude - dopo il rigore e i sacrifici è il momento della crescita e dello sviluppo abbinati alla solidarietà».

IL CASO MPS - «È una vicenda grave e non si possono fare sconti a nessuno ma non è giusto farne un polverone pre elettorale», ha poi affermato Casini riguardo allo scandalo derivati che ha coinvolto Rocca Salimbeni: «Bisogna mantenere salda la visione della serietà e guardare fino in fondo in tutti i santuari, non ci devono essere zone franche, la magistratura deve fare il suo lavoro, ma non si può trasformare il caso in un polverone pre elettorale».

«NO ALLE NOZZE GAY» - Il leader di centro Casini si è espresso anche sui temi civili ha chiuso ogni ipotesi di formalizzazione delle unioni tra omosessuali e di possibilità di adozione per le coppie gay. «Il problema dei diritti in parte è già regolamentato e in parte può essere regolamentato, ma il matrimonio è tra un uomo e una donna». Del resto, ha assicurato, «il registro delle unioni civili allestito in alcuni Comuni in gran parte non è stato utilizzato. Chi vive una certa condizione non si pone il problema ideologico di avere un simil matrimonio e questo vale per moltissime coppie gay che vivono serenamente, ma sono in molti casi contrarie. Quella del matrimonio e è una richiesta ideologica che fa solo una parte del movimento omosessuale».

Sui derivati


«I derivati degli enti pubblici italiani sono una bomba ad orologeria innescata in ogni angolo della penisola, pronta ad esplodere in qualsiasi momento e a far danni per almeno sei miliardi». Ettore Livini: «Dal Piemonte alla Puglia, da Firenze ad Orvieto da Copparo – provincia di Ferrara – a Chiaramonte Gulfi in Sicilia, decine di amministratori locali reinventatisi Warren Buffett hanno firmato tra 2000 e 2008 (fino al crac Lehman) complicatissimi derivati, convinti di risparmiare sugli interessi del debito. E i loro elettori e cittadini sono costretti oggi a pagare il pedaggio, salatissimo, della loro disinvoltura». [1]

Quantificare i danni potenziali non è semplice. Livini: «Una fotografia minimalista – ma già impietosa – la fa Banca d’Italia: a settembre 2012, 210 enti locali erano esposti con banche italiane su strumenti di finanza creativa per una cifra superiore agli 11 miliardi su cui è maturata una perdita potenziale di 6,2 miliardi. Non proprio noccioline, specie per enti già strozzati dai tagli. Il problema è che la malattia è molto più estesa. Il Tesoro, considerando anche le operazioni con istituti esteri, aveva censito a fine 2009 18 Regioni, 42 Provincie e 603 Comuni soffocate da swap e options per un valore di 35,7 miliardi». [1]

Secondo l’Anci i Comuni con derivati sono circa 800. Livini: «Una “minaccia per la sicurezza nazionale” finita sotto la lente dei nostri 007 con un’informativa ad hoc redatta dall’Agenzia di informazione e sicurezza interna (Aisi) e che ci è costata secondo Eurostat tra 2007 e 2010 ben 4 miliardi di interessi in più sul nostro debito pubblico». È possibile disinnescare questa bomba ad orologeria? La via giudiziaria ha dato risultati alterni: «Orvieto ha fatto causa a Bnl, il Piemonte ha chiesto 168 milioni di danni a Merrill Lynch (con cui ha appena transato) Intesa e Dexia per uno swap su cui rischia di perdere 500 milioni, Acqui Terme ha trascinato in tribunale Unicredit». [1]

Decine di enti locali hanno provato a dribblare le banche appellandosi all’“autotutela”. Livini: «Sospendendo cioè i pagamenti degli interessi per contestare i costi occulti di swap e option nascosti – sostengono – a chi li ha firmati. Peccato che dopo qualche successo le loro speranze si siano arenate su una recente sentenza del Consiglio di Stato corroborata da una consulenza di Bankitalia: non basta questa scusa per sospendere i pagamenti. La strada di maggior successo, almeno fino ad oggi è stata così quella delle transazioni. Palazzo Marino ha fatto da rompighiaccio salvando così il bilancio 2012 di Milano. La Puglia ha chiuso con Merrill Lynch una spinosissima e delicata questione di derivati da 200 milioni». [1]

A 7 anni dal bond trentennale da 1,6 miliardi di euro emesso dall’allora giunta del sindaco di Milano Gabriele Albertini per “ristrutturare” al 2035 i debiti con 4 banche estere, mercoledì il giudice Oscar Magi ha condannato (primo grado) le tedesche Deutsche e Depfa Bank, l’americana Jp Morgan e la svizzera Ubs a un anno senza poter fare affari con la Pubblica Amministrazione, 89 milioni di confisca del profitto lucrato nel 2005 ai danni del Comune, 1 milione a testa di sanzione pecuniaria, 50.000 euro di risarcimento ai consumatori dell’Adusbef. Nove banchieri sono stati condannati per truffa a pene fra i 6 e gli 8 mesi. [2]

I contratti derivati con il Comune di Milano, stipulati all’epoca della Giunta Albertini, vennero rinegoziati (complessivamente ben 6 volte) dalla giunta Moratti, senza una completa informazione sul rischio che le pubbliche amministrazioni si sarebbero accollate, come invece prevede con chiarezza la normativa internazionale in materia, regolata dall’ordinamento inglese disciplinato dal Financial Services and Markets Act del 2000, aggiornato e recepito in Italia con la legge 448 del 2001. Paolo Colonnello: «Vi fu in realtà un conflitto d’interessi da parte degli istituti di credito che vendettero il prodotto derivato fungendo al tempo stesso da “advisor” del Comune». [3]

Quella di mercoledì «è una sentenza molto importante perché finalmente dimostra che le banche hanno raggirato i sindaci. E perché afferma due diritti irrinunciabili: trasparenza e rispetto delle utenze deboli», spiega Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia e presidente Anci. Ma perché gli enti locali fecero ricorso ai derivati? «Gli interessi concessi dalla Cassa depositi e prestiti per rinegoziare i mutui erano all’8%, mentre le banche offrivano il 2. Molti Comuni decisero di passare al tasso variabile, ma la legge impone un’assicurazione sui rischi perché un sindaco non può fare i bilanci su valori incerti. E dunque scelsero i derivati per coprirsi dalla fluttuazioni del tasso». Non sapevano che era rischioso? «Non ne capirono le implicazioni perché le banche non le spiegarono. L’errore fu anche un altro. Non aver predisposto un regolamento, a livello di ministero dell’Economia, che obbligasse le banche a indicare i rischi, a informare in modo completo». [4]

Il pm Alfredo Robledo ha parlato di «situazione preoccupante» perché nei Comuni manca la figura di un esperto in finanze. Delrio: «Ma come fa un Comune di 4 mila abitanti ad avere un esperto per ogni cosa? I Comuni devono cercare di restare dentro le loro competenze. D’altro canto, chi offre prodotti strutturati deve informare con chiarezza. Lo stesso vale per le assicurazioni che noi sindaci sottoscriviamo un po’ per tutto: alberi che cadono, buche nelle strade. L’ho detto a Bondi: anziché accanirsi sulle biro o sulle siringhe, poteva pensare a centralizzare questi contratti complessi. Uno solo a livello statale». [4]

Secondo le accuse, a Milano le banche elusero la regola che prevedeva condizioni di parità con il comune nel valore delle prestazioni. Colonnello: «Alla stipula dei contratti, doveva essere pari a zero, mentre invece la struttura dei contratti determinava già in partenza un guadagno per le banche di circa 53 milioni di euro, lievitati poi fino a 100. Il pm Robledo, nella sua requisitoria, aveva parlato di “ripetuti raggiri” a danno del Comune, sostenendo che le banche, nel ruolo simultaneo di controparti e consulenti, avessero consapevolmente fatto intravvedere a Palazzo Marino un’inesistente convenienza economica. “Le perizie – aveva spiegato Robledo – hanno dimostrato che in partenza non vi era alcuna convenienza per il Comune, si trattò di un’aggressione alla comunità”». [3]

«L’Italia è stata terra di scorribande, è una sentenza storica» ha detto mercoledì Robledo, preceduto in novembre solo da una class action in Australia di 13 Comuni contro la banca olandese Abn Amro e l’agenzia Standard and Poor’s. [2] «È una questione di vigilanza: in Inghilterra, dove hanno sede le banche incriminate, i contratti sui derivati non si fanno con gli enti pubblici, in Europa invece non hanno avuto limiti». [5] Colonnello: «Ovunque nel mondo venisse riconosciuto che le banche hanno nascosto i veri guadagni generati con la stipula dei contratti derivati e non hanno trattato gli enti pubblici con la dovuta trasparenza e protezioni del sistema, potrebbero scaturire cause e richieste risarcitorie miliardarie. Non a caso, mercoledì pomeriggio, a seguire la sentenza in aula erano presenti le più importanti testate giornalistiche economiche del mondo». [3]

Note (tutte le notizie sono tratte dai giornali del 20/12): [1] Ettore Livini, la Repubblica; [2] Luigi Ferrarella, Corriere della Sera; [3] Paolo Colonnello, La Stampa; [4] Valentina Conte, la Repubblica; [5] p. col., La Stampa.

giovedì 24 gennaio 2013

Il tutelatore delle vittime

Una delle vittime dei governi precedenti, sarà percaso il... Monte dei Paschi di Siena?


I governi precedenti? “Troppo deboli” nella lotta all’evasione fiscale e nel contrasto alla corruzione. Mario Monti, nel corso del suo intervento al World Economic Forum di Davos, spiega che la sua ‘salita in politica‘ è giustificata dalla volontà di “tutelare le vittime” degli esecutivi al governo prima del suo insediamento. Per questo dice di avere “scelto di fare una cosa che considero contro la mia natura e probabilmente anche contro il mio interesse personale” ovvero di “guidare una lista durante le prossime elezioni perchè credo che ci sia bisogno di una nuova forma politica, oltre alle vecchie coalizioni tradizionali”. Di qui l’appello alle “forze più dinamiche della società di sostenere un programma di riforme”. Poi ha parlato anche di lavoro e debito pubblico e specificato che la sua riduzione “non si può più fare attraverso le tasse“.

Per il presidente del Consiglio, “oggi l’Italia è un Paese molto diverso da un anno fa” anche grazie alle “scelte difficili” che sono state fatte durante la sua permanenza a Palazzo Chigi e il risultato è che ora l’opinione sull’Italia “è considerevolmente migliorata”. Inoltre, dice, “mai ho dubitato della capacità del nostro governo nel mezzo della tempesta” e garantisce: “Sapevo che la battaglia sarebbe stata dura”. Il Professore ricorda del resto che “la leadership è l’opposto della visione miope che continua a esistere nelle politiche nazionali, in Europa e nel mondo” e sottolinea che ciò significa anche che “l’Italia negli ultimi 10 anni non ha usato l’opportunità di essere membro Eurozona per abbassare il rapporto Pil-debito pubblico”. Nonostante questo, il Paese “non guarderà indietro”. Monti si è espresso anche sul lavoro e guarda al futuro del Paese quando dice che il suo impegno “lo devo tutto agli italiani, ai più fragili nella società, a coloro che pagano il prezzo intollerabile della disoccupazione, soprattutto i nostri giovani che pagano anche il prezzo di essere privati del lavoro”. “I giovani – incalza – sono le vittime di governi spesso non abbastanza forti nell’affrontare la questione dell’evasione fiscale, della corruzione, dei gruppi di interesse, gli ambiziosi manipolatori dei mercati finanziari”, ma anche, punge ancora “vittime di politici impegnati in promesse elettorali senza preoccuparsi se potevano poi essere mantenute”. Quelle promesse, e quei politici, aggiunge “hanno aggravato la crisi, troppo spesso concentrati su elezioni interne senza occuparsi di chi di politica e di un suo coordinamento ha invece bisogno”.

“Anche la Germania deve fare le riforme” – Monti ha anche parlato di Europa e si è detto ” fiducioso” perché se nel Regno Unito “ci sarà un referendum”, è certo che Londra “deciderà di rimanere in Europa e dividerà con noi il futuro”. Poi ha ricordato che anche Berlino non può sottrarsi al cammino delle riforme, che sono ”per ogni paese un processo che non finisce, anche per la Germania come dimostra l’azione della Merkel”.

E ora, votateli...

Scelta civica spa di Francesco De Dominicis

Luca Cordero di Montezemolo alla fine non si è candidato. Scelta di opportunità, quella del presidente della Ferrari, rimasto fuori dalla lista «Scelta civica» guidata dal premier Mario Monti. L'accusa di conflitto di interessi - per il legame col mondo Fiat e pure per la sua partecipazione nella Ntv del treno Italo, di cui è fondatore - sarebbe stata servita sul piatto d'argento e Montezemolo ha preferito fare un passo indietro. I conflitti di interesse, però, non mancano nella lista Monti che sembrano avere maggior peso rispetto alla sbandierata società civile. L'operazione è lunga. E per trovare il primo conflitto si può cominciare proprio dai legami con la galassia Fiat: uno lo ha ricordato ieri Oscar Giannino. Il leader di Fare per fermare il declino in un tweet ha puntato il dito contro Alberto Bombassei, patron della Brembo e candidato alla Camera nella circoscrizione Lombardia 2. Il suo colosso produce freni per autovetture ed è uno dei principali «fornitori» della casa automobilistica torinese. Proprio in Piemonte è in corsa, con la lista del professore, Paolo Vitelli capo del colosso degli yacht Azimut Benetti. Dalle auto alla nautica, dunque. Poi ci sono le banche. In Lombardia, numero 2 in lista dopo Bombassei, c'è Gregorio Gitti. In una lettera a Dagospia ha detto, assai infastidito, che non gli piace l'etichetta di «genero» di Giovanni Bazoli, presidente di banca IntesaSanpaolo.

Tuttavia è un fatto e non una menzogna. L'elenco degli imprenditori in corsa con il premier è lunghissimo. In Campania c'è, a esempio, Luciano Cimmino, amministratore delegato e proprietario del gruppo Carpisa-Yamamay (borse, valigie e abbigliamento intimo). In una delle liste per Montecitorio presentate nel Lazio c'è anche un «rappresentante» dell'elettronica: bisogna arrivare alla posizione numero 10 del «Lazio 2» per trovare Monica Lucarelli, manager della Ised (società romana che realizza software per la pubblica amministrazione, in particolare per il comparto sanità). Il movimento Italia Futura, fondato dall'ex presidente di Confindustria, ha piazzato in un posto «sicuro», Carlo Calenda, ex assistente di Montezemolo e già vicedirettore dell'Interporto di Nola (il gruppo di Punzo, socio di Montezemolo e Diego Della Valle in Ntv). Altra posizione blindata e seggio garantito, in Campania in quota Italia Futura, per Angelo D'Agostino dell'Ance, l'associazione dei costruttori. Terreno in cui è fin troppo facile, poi, tirare in ballo Pierferdinando Casini (leader Udc). Uno dei principali artefici della coalizione costruita attorno a Monti, infatti, non è presente in alcun consiglio di amministrazione, ma non è un mistero che sia il marito di Azzurra Caltagirone, figlia di Francesco Gaetano.

Che è uno degli imprenditori più importanti del Paese, con interessi e intrecci che spaziano dall'editoria all'edilizia, dalla finanza alle assicurazioni. Salvatore Matarrese, figlio di Michele (uno dei più importanti imprenditori meridionali attivo in diversi settori), è invece in lista in Puglia. Il comparto dei trasporti è rappresentato da Domenico Menorello (corre in Veneto) vicepresidente di Veneto Strade spa. Oltre alle candidature, ci sono i sostenitori. Pochi giorni fa il Corriere della sera ha pubblicato un lista di imprenditori che appoggiano e finanziano la campagna elettorale di Monti. Nell'elenco pubblicato dal quotidiano di via Solferino compaiono Marco Tronchetti Provera (Pirelli), Diego Della Valle (Tod's), Fabrizio Di Amato (Tecnimont), Sergio Dompè (farmaceutica), Lupo Rattazzi, famiglia Agnelli (Exor), Alberto Galassi (ad di Piaggio Aero), Flavio Repetto (gruppo Elah Dufour), Francesco Merloni (termosanitari), Claudio de Eccher (Rizzani de Eccher, ponti e metropolitane), Carlo D'Asaro Biondo (Google, presidente Europa Sud e Africa, country manager per l'Italia), l'imprenditore Paolo Fassa, Pietro Salini (costruzioni), Benito Benedini (ex presidente Assolombarda).

mercoledì 23 gennaio 2013

Sullo smacchiare giaguari all'mps


Capita spesso di leggere dei veri e propri esercizi di comprensione su quale sia il potere su cui, in ultima istanza, poggia il Pd. Se ne parla in termini di geografia del sistema politico, un centrosinistra che tende al centro, oppure di geografia economica. Allora si parla del radicamento territoriale del Pd nelle ex-zone rosse. Oppure, facendo esercizio più sociologico, si parla della permanenza della rappresentanza, da parte del Pd, di residui di classe operaia, di pubblico impiego o di una sua forte rappresentanza nei confronti dei pensionati. In tutti i casi si tratta di simulacro ovvero, di fatto, il Pd è solo un simulacro di rappresentanza di regioni che sta portando verso il declino e di ceti sociali ai quali offre solo un progressivo impoverimento. Ma allora, ci si domanda, quale è la vera base sociale, produttiva del Pd? Sicuramente la si trova nelle evoluzioni del mondo delle coop in tre principali rami: grandi opere, grande distribuzione e immobiliare (sul rapporto tra Ipercoop e mattone ci sarebbe molto da scrivere. Su Senza Soste ora in edicola c'è un'inchiesta in questo senso). Ma si tratta solo di una parte del radicamento del potere reale del Pd.

Se si comincia a osservare Unipol, il cui titolo ultimamente è in salute, si capisce come da (molto) tempo il principale partito del centrosinistra presidi un altro grande potere delle società postindustriali: il ramo finanziario-assicurativo. Eccoci quindi ad uno storico potere italiano, nel ramo bancario, nel quale il radicamento Pd può vantare una lunga storia. Ci riferiamo al Monte dei Paschi che è controllato direttamente dal Pd senese quindi su una base territoriale con rilievo nazionale. Ora non ha importanza descrivere qui la guerra tra bande che si è aperta nel Pd a Siena con la crisi di Mps, una guerra che nessuno in Toscana riesce a spegnere tale è l’autonomia del partito democratico senese dal resto della regione. Bisogna soprattutto brevemente raccontare come l’Mps, grazie alla acquisizione sbagliata di Antonveneta e ad una lunga serie di operazioni speculative andate a male, da almeno un lustro si trova in cattive acque. Tanto che, nell’autunno del 2012, il governo Monti decreta, su un testo approvato da un relatore Pd ed uno Pdl, un aiuto alla banca senese pari a 3,9 miliardi di euro. Aiuto poi messo in discussione dal Bce ma superiore, dal punto di vista finanziario, ai “risparmi” che la riforma Fornero ha prodotto con i tagli alle pensioni. Questo per dire in che genere di politiche si è gettato il Pd. Per salvare una propria banca da uno sbilancio epocale, di proporzioni gigantesche, è entrato nel governo Monti legittimando le politiche di trasferimento delle risorse dello stato dalla spesa pubblica agli aiuti ai bilanci delle banche. Monti si è occupato, per dare un’idea sommaria dell’operazione, degli aiuti a banche greche, spagnole, portoghesi (che finiranno, in una partita di giro, alle banche tedesche e francesi) e al Pd è toccato il corposo aiuto a Mps. Aiuto che è servito, tra l’altro, ad evitare che la banca fosse commissariata dallo stato, disintegrando il residuo potere piddino senese e nazionale nei corridoi di Mps. Queste storie hanno sempre la caratteristica di fornire nuovi capitoli. Pochissimi giorni fa, con delle prove fornite dal Fatto Quotidiano, esce la prova inoppugnabile che Mussari, allora presidente di Mps e fino a poche ore fa presidente dell’associazione delle banche italiane (praticamente un ministro), aveva fatto una pesante operazione di cosmesi finanziaria con il bilancio 2009 del Monte dei Paschi. In poche parole aveva acquisito come attivo una serie di pericolosi derivati, contratti con una banca giapponese, che altro non erano che letali bombe ad orologeria nei bilanci della banca senese. E bravi Monti e il Pd, con il concorso del Pdl, che hanno decretato aiuti, e di quali proporzioni, ad una banca che è piena di vere e proprie bombe ad orologeria finanziarie. Tutto questo per sottrarre la banca ad un vero controllo pubblico.

Nel frattempo Mussari, che alcuni blog finanziari definiscono “il peggior presidente dell’Abi di sempre” si è dimesso, dichiarandosi innocente, dall’associazione italiana dei bancari. Resta uno sbilancio di dimensioni ciclopiche in Mps, con risorse considerevoli tolte ai beni pubblici per immetterle in una voragine di debiti privati. Tutto questo, naturalmente, senza che Mps abbia minimamente migliorato la propria offerta finanziaria a imprese, famiglie, singoli, coppie in cerca di mutuo. Si è presa una parte notevole di denaro pubblico per farla sparire nel niente di una voragine di bilancio. A questo punto chiedersi cosa sia veramente il Pd non fa certamente male. Al di là delle operazioni di creazione di simulacro per attirare elettori resta la sostanza materiale di un potere profondamente immobiliare (Ipercoop non è solo grande distribuzione), legato alle grandi opere (le cooperative edilizie) e speculativo-finanziario (Unipol e Mps). Si tratta di tipici poteri del liberismo odierno nazionale, quello legato al circuito mattone-moneta. Un circuito a cui le attuali politiche dell’eurozona di trasferimento, per quanto convulso ed instabile, delle ricchezze dalla spesa sociale ai bilanci delle banche va benissimo. Ma anche un partito molto diverso non solo dalla propaganda che fornisce di sé ma anche dall’immagine che comunemente si fanno anche i suoi avversari. Eppure basta seguire gli interessi materiali per sapere, in politica e non solo, chi si ha davanti.

martedì 22 gennaio 2013

Le nostre tasse per la guerra francese


La Camera impegna il governo, in linea con la risoluzione 2085 del Consiglio Onu «per un periodo di due mesi, estendibile a tre», a «un contributo di vettori aerei per supporto logistico al trasporto di personale e mezzi in Mali». Lo prevede un ordine del giorno a firma Frattini, Tempestini e Adornato al decreto legge «Missioni» accolto dal governo. I ministri degli Esteri e della Difesa, Giulio Terzi, e Giampaolo Di Paola, hanno riferito in Parlamento sugli ultimi sviluppi nel Paese africano e hanno chiesto e ottenuto l'appoggio parlamentare all'iniziativa del governo. I termini dell'impegno italiano sarebbero così definiti: due C-130, per il trasporti di truppe e attrezzature in Mali dall'Europa e dai Paesi africani, più un'aerocisterna KC-767 per i rifornimenti in volo.

PONTE AEREO USA - Anche gli Usa hanno iniziato a garantire un ponte aereo tra la base aerea di Istres, nel sud della Francia, e Bamako. Altri aerei da trasporto truppe e materiali sono stati forniti da Gran Bretagna, Belgio, Canada e Danimarca. Il ministro degli esteri Terzi non ha nascosto che la crisi avrà «tempi lunghi» e che il sostegno della comunità internazionale punta a evitare che il Mali precipiti «in condizioni peggiori della Somalia e dell'Afghanistan»; ma ha anche rilevato che l'intervento sta già dando i suoi frutti «con la stabilizzazione militare di una situazione che, in caso contrario, sarebbe precipitata nel giro di poche ore».

TRUPPE AFRICANE - In effetti, l'intervento militare francese, al quale tra breve dovrebbero unirsi le truppe africane della missione Afisma, decisa dall'Ecowas, La Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, ha già fermato l'avanzata jihadista verso il sud. E le truppe francesi, che lunedì avevano riconquistato, senza difficoltà, Diabaly e Douentza, hanno lasciato il presidio di Diabaly alle forze maliane. Il capo di Stato maggiore delle truppe maliane, Ibrahima Dahirou, ha stimato che le province settentrionale di Gao e Timbuctu, nelle mani jihadiste dalla metà dell'anno scorso, saranno liberate «in meno di un mese». L'Ue ha annunciato lo sblocco di altri 20 milioni di euro per gli aiuti umanitari in Mali.

La smacchiatura dei giaguari...


Dopo le notizie diffuse lunedì dalla stampa internazionale sulla vulnerabilità dei cacciabombardieri F35 ai fulmini e sulle polemiche rimbalzate in tutto il mondo, anche Pier Luigi Bersani è intervenuto sulla vicenda. «Bisogna assolutamente rivedere e limitare le spese militari degli F35 perché le nostre priorità sono altre. La nostra priorità non sono i caccia ma il lavoro», ha spiegato il leader del Pd in un'intervista al Tg2.

COME VENDOLA - La scorsa settimana il segretario alla Difesa Usa uscente, Leon Panetta, in visita a Roma aveva rassicurato sostenendo che «l'F35 è l'aereo del futuro», garantendo che nello sviluppo del progetto sono stati fatti «progressi importanti» e i test del caccia sono stati «un grande successo». Ma da tempo una parte della sinistra chiede un taglio totale della spesa per i cacciabombardieri per utilizzare quei fondi in altro modo. Così dopo che Nichi Vendola (Sel) aveva detto lunedì «bisognare chiudere il programma di acquisto e di usare quelle risorse, si tratta di miliardi di euro, per mettere in sicurezza e finanziare la scuola pubblica», anche il segretario del Pd ha detto la sua.

PULIZIA DELLE LISTE - Durante l'intervista con il Tg2 Bersani è intervenuto anche sulle liste pulite. Nel Pdl «c'è una riflessione» sulle liste pulite. «Ma io rivendico di averla attivata», ha spiegato il candidato premier. Che ha aggiunto «se si applicassero le regole del Pd, ne dovrebbero saltare ben altre» di candidature. In ogni caso aggiunge, «la vera pulizia delle liste è la partecipazione, perché la pulizia della politica non si può decidere in una stanza. Sono le primarie la strada per ripulire la politica».

domenica 20 gennaio 2013

Il nuovo dio e gli incapaci


La domanda è una sola. Semplice. Perché ha deciso di «salire in politica»? Quali sono le vere ragioni di una scelta che chi scrive, pur conoscendola da molto tempo, mai avrebbe immaginato? Monti fa un grande sospiro. Siamo nel suo ufficio a Palazzo Chigi, in una piovosa mattinata romana. «Credo di aver fatto una cosa giusta, non quella più utile per me». Il racconto del presidente suddivide il suo periodo di governo in due parti. La prima, la più drammatica, con l'incubo quotidiano di restare senza i soldi per pagare gli stipendi pubblici («Quando incontravo Angela Merkel sapeva esattamente quanti titoli di Stato avevamo bisogno di vendere»). Poi i primi risultati, l'emergenza che si allontana. «Allora, pensavo che, dopo aver contribuito a salvare il Paese, restando al di sopra delle parti avrei svolto tranquillamente le mie funzioni di senatore a vita, in attesa che qualcuno, forse, mi chiamasse».

E invece no. «A un certo punto, con l'avvicinarsi delle elezioni, le riforme incontravano ostacoli crescenti, erano sempre più figlie di nessuno. La strana maggioranza cambiava pelle sotto i miei occhi. Il Pdl ritornava ad accarezzare l'ipotesi di un nuovo patto con la Lega, non con il Centro, ed emergeva un fronte populista e antieuropeo; il Pd alleandosi esclusivamente con Sel riscopriva posizioni radicali e massimaliste in un rapporto più stretto con la sola Cgil». E che altro poteva aspettarsi, professore? Che i partiti si suicidassero tutti sull'altare del rigore? «Ho intravisto due rischi. Uno a breve, che il governo cadesse prima che i partiti si accordassero finalmente su una riforma elettorale; uno più a lungo termine, e assai più grave, ovvero che sei mesi dopo le elezioni si dissipassero tutti i sacrifici che gli italiani avevano fatto, con grande senso di responsabilità, per sottrarre il Paese a un sicuro fallimento. Tutto inutile, pensavo. Sarebbero tornati al governo i vecchi partiti, i vecchi apparati di potere, veri responsabili del declino dell'Italia. In quello stesso periodo si erano poi moltiplicati gli incoraggiamenti di molti leader europei e internazionali, da Barack Obama a François Hollande, che però - chiarisco subito - non sono stati determinanti». Nemmeno l'incoraggiamento del Papa? «Non trasciniamo il Santo Padre nelle nostre vicende così terrene...». L'appoggio della Chiesa? «Gli auspici sono stati autorevoli, ma sono anche venuti da espressioni più semplici, parroci per esempio. Il mondo cattolico è articolato e composito. Va ascoltato e rispettato, non strumentalizzato». Il Partito popolare europeo? «Una scelta di campo significativa, soprattutto se si tiene conto che non appartengo a nessun partito, mentre il Pdl di Berlusconi è uno dei partiti più grandi nel Ppe».

Insomma, alla fine il dado è stato tratto. «È cambiata in me la percezione di che cosa sarebbe stato moralmente più giusto. Un amico milanese, che lei conosce bene, direttore, ma di cui non le dirò il nome, mi disse in un lungo colloquio che con il passare del tempo la bilancia delle valutazioni morali, dentro di me, sarebbe cambiata. Avrebbe pesato meno il piatto di ciò che io ritenevo in linea con il mio stile, di persona al di sopra delle parti; sarebbe invece aumentato il peso del senso del dovere, il dovere di fare in modo che i sacrifici che avevo dovuto chiedere agli italiani per salvare il Paese non venissero dissipati e costituissero invece la base di un'Italia più solida, capace di tornare a crescere, dopo tanti anni». La bilancia si è mossa e lei, professore, ha fatto il gran passo. Una scelta immorale, secondo D'Alema. «Ma sarebbe stato immorale se io avessi pensato a me stesso, non trova? Gratificazioni di prestigio non sarebbero mancate. Così, invece, rischio tutto». Il presidente della Repubblica non ha apprezzato. (Lungo silenzio). «Credo di averlo sorpreso, questo sì, ma penso che oggi abbia compreso le ragioni della mia scelta. Veda, il nostro è un rapporto di reciproca e profonda stima, e di grande riconoscenza da parte mia. Ma anche di pudore sui nostri personali sentimenti. Quando cominciai a dirgli che sentivo qualcosa cambiare in me, non mi sconsigliò, mi diede ascolto...».

La linea di confine fra l'immagine del tecnico super partes e del politico necessariamente «in erba», viene tracciata dalla sua conferenza stampa del 23 dicembre, poi dalla cosiddetta Agenda, con la quale nasce un nuovo soggetto politico, Scelta Civica, una lista che si apre alla società civile per farla finita con la vecchia politica, giusto? «Sì, e sa qual è stata l'altra considerazione di fondo che mi ha spinto a salire in politica?». Quale, presidente? «Anche dopo aver celebrato il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, questo Paese continua ad avere bisogno di essere unificato. Oggi, più di qualche decennio fa, sembriamo a volte non un Paese, con un senso del bene comune, ma quasi un insieme di tribù, di corporazioni, di fortini intenti a difendere interessi di parte, di incrostazioni clientelari. La mia iniziativa politica è stata sollecitata dalla società civile. E alla società civile io mi rivolgo, noi ci rivolgiamo. La risposta si sta rivelando straordinaria». E vi siete alleati con Casini e Fini che nella politica tradizionale hanno sguazzato per anni, mah... «Certo, può apparire una contraddizione, ma entrambi hanno avuto il merito di vedere per tempo quali guasti producesse un bipolarismo incompiuto e conflittuale. E nell'ultimo anno sono stati più disponibili del Pdl e del Pd a sostenere anche i provvedimenti sgraditi agli ambiti sociali a loro vicini. Infine, hanno accettato di sottoporre anche le loro liste ai criteri più esigenti da me richiesti. Quanto alla nostra lista per la Camera, Scelta Civica, faccio notare che è la prima volta che viene proposta agli elettori, su base nazionale, una formazione che non include alcun ex parlamentare, ma solo esponenti di valore del volontariato, del mondo dei lavoratori dipendenti, delle professioni, dell'associazionismo, dell'imprenditoria, della scienza, gente capace, persone che hanno scelto di rischiare, con coraggio e avendo fatto rinunce significative. Quanti colloqui, quante telefonate, quanti dubbi, quante crisi di coscienza. Ma quanta gioia, mi ha dato fare questa esperienza di mobilitazione! Li ringrazio tutti perché dimostrano una cosa importante, vitale». Quale? «Un'altra delle ragioni della scelta che anch'io ho fatto. Un tempo potevamo dire: io aiuto il mio Paese facendo bene e con onestà il mio mestiere, la mia parte. Oggi non basta più. Se non ci impegniamo direttamente, se non sacrifichiamo qualcosa di personale, questo Paese non avrà futuro e su di noi cadrà una colpa grave. Una colpa che non avrà prescrizione».

Presidente, Berlusconi dice che nessuno, dopo Mussolini, ha avuto tanti poteri come lei. «È evidente l'improponibilità storica del paragone. Ogni provvedimento proposto dal mio governo si avviava verso le Camere in perfetta solitudine. Zero deputati, zero senatori (o uno, il sottoscritto). Il mio governo partiva sempre da zero, doveva convincere volta per volta una maggioranza chiamata a decidere spesso qualcosa di contrario alla natura dei partiti che la componevano, ma necessario per salvare l'Italia». E dunque, ha ragione il Cavaliere a invocare riforme straordinarie che attribuiscano all'esecutivo maggiori prerogative? «La nostra è una repubblica parlamentare. Si può snellire la funzionalità del Parlamento, ma è soprattutto la composizione politica del Parlamento che va cambiata, con le elezioni, se vogliamo che vi siedano persone con la cultura del cambiamento e non della conservazione, delle riforme e non delle clientele». Ma non le conveniva, sul piano più squisitamente politico, accettare l'offerta di essere lei il federatore dei moderati, sotto l'egida del Partito popolare europeo? «Io apprezzai molto quell'offerta di Berlusconi. Ma gli dissi subito che, se mai, all'Italia sarebbe occorso un federatore dei riformisti, finora domiciliati in tre poli diversi e perciò incapaci di dare un maggiore impulso alle riforme di cui il Paese, i giovani hanno bisogno. È quello che ora mi propongo di fare». Le sollecitazioni e le offerte di attuali parlamentari sono state numerose? «Sì, sia dal Pdl che dal Pd, molti deputati, senatori e parlamentari europei sono venuti a dirmi: vorrei stare con lei, sono pronto. In alcuni casi non è stato possibile trovare una piena convergenza, in molti altri sì».

La Banca d'Italia, nel suo bollettino, afferma - e certo questo può essere letto anche come una critica autorevole e circostanziata al governo dei tecnici - che gli effetti dell'austerity sul prodotto interno lordo, previsto in calo dell'1 per cento anche quest'anno, sono maggiori del previsto. Il rigore non è una dieta. Per molte imprese, specie quelle piccole, e per tante famiglie, assomiglia a un drammatico digiuno. «Noi stiamo vedendo, al contrario, qualche risultato positivo grazie al sacrificio degli italiani: sui tassi d'interesse, sulle esportazioni, sull'andamento dei titoli pubblici. E dobbiamo sempre chiederci che cosa sarebbe accaduto se quelle decisioni non fossero state prese e se ci fossimo trovati nei panni dei greci. La Banca d'Italia non credo sostenga che bisognasse fare meno risanamento. Ma più riforme strutturali. Ha ragione. È anche per questo che oggi a Bergamo dirò che non possiamo rimettere l'Italia nelle mani degli incapaci, che l'hanno portata al novembre 2011. La vecchia politica non deve tornare. Il governo tecnico non sarebbe stato chiamato se la gestione della cosa pubblica fosse stata nelle mani di politici capaci e credibili». Lei è ormai un ex tecnico, presidente, non lo dimentichi. «D'accordo. Oggi gli italiani hanno di fronte una straordinaria opportunità con una proposta politica seria e del tutto nuova». A voler essere precisi le novità sono diverse, compreso il Movimento 5 Stelle. L'ha mai conosciuto Grillo? «No, ma non avrei difficoltà ad incontrarlo. La sua discesa nei consensi credo abbia a che vedere con la nostra iniziativa. Scelta Civica pesca molto, e bene, fra gli indecisi o fra coloro che pensavano, sbagliando, di astenersi. Noi e Grillo siamo due espressioni differenti dell'insofferenza popolare. Iconografia della rabbia la sua, gestuale, vivace ma temo inconcludente. Seria, composta, con tante persone capaci, e ormai con esperienze di governo, in Italia e in Europa, la nostra».

A Bergamo verrà scritta, o meglio aggiornata, anche l'Agenda Monti. Il professore è riservato su questo punto. Ma il piatto forte sarà costituito da una nuova, e dalle indiscrezioni dirompente, proposta sul mercato del lavoro. L'idea di trasformare, all'insegna della flexicurity , ovvero flessibilità più sicurezza, all'inizio in forma sperimentale, i contratti precari in contratti a tempo indeterminato per i quali l'articolo 18, quello famoso sui licenziamenti, verrebbe sospeso almeno nei primi due o tre anni. Una riforma che prevederebbe anche il reddito minimo di cittadinanza. E una sicura collisione con il Pd e con la Cgil. Anche, chiedo al presidente una sconfessione della legge Fornero, o no? «Da lei, direttore, sto apprendendo molte cose. Varie persone stanno lavorando ad affinare l'Agenda. Per ora non c'è, su questa materia specifica, nessun orientamento deciso».

La nuova Agenda conterrà anche alcune proposte in tema di giustizia e una posizione più ferma sulla lotta alla corruzione, segno che la legge approvata si è rivelata del tutto insufficiente. «Una constatazione corretta». E la già annunciata riformulazione dell'Imu con beneficio dei piccoli proprietari.

Sul finire di questa lunga conversazione, chiedo al presidente del Consiglio e al leader di Scelta Civica se su liberalizzazioni, privatizzazioni e terapie antidebito non fosse, anche lì, il caso di fare di più. E la risposta è positiva. «Qualche timidezza da parte nostra, è probabile; e qualche ostacolo imprevisto in quel Parlamento che a dispetto dei voti di fiducia, si è rivelato piuttosto refrattario alle vere riforme». E se non sia il caso di parlare di più alla gente comune, alle famiglie, alle piccole imprese che non tirano la fine del mese e che esprimono una più che giustificata insofferenza. «Un governo che avesse di fronte a sé cinque anni e non l'ultimo anno di una legislatura; un governo che nascesse in una situazione finanziaria tranquilla e non nell'allarme rosso, potrebbe e dovrebbe permettersi una ben maggiore attenzione al sociale. Nel novembre 2011 era diverso. Bisognava mettere gli italiani di fronte a verità colpevolmente negate fino al giorno prima. I finti buoni li avrebbero portati al fondo del precipizio, dal quale ci siamo fortunatamente allontanati. Oggi possiamo guardare alla crescita con maggiore ottimismo ed è possibile parlare, senza alcuna incoerenza, di una graduale riduzione delle tasse. Con senso di responsabilità. Senza esagerare in promesse che non si possono mantenere».


Ferruccio de Bortoli

venerdì 18 gennaio 2013

Retroscena


Dall'inciucio tra Mario Monti e Pier Luigi Bersani, tanto "chiacchierato" quanto smentito, dà conto in un luingo indiscreto il sito Dagospia. I due si sono incontrati all'alba, e secondo la ricostruzione avrebbe parlato soprattutto il leader del Pd, forte dei suoi voti, secondo i sondaggi molti di più di quelli appannaggio del professore. Dagospia dà conto di appunti che "noi abbiamo potuto scorrere" e "ve li riportiamo pressochè alla lettera". Noi, invece, ve ne offriamo un'ampia sintesi.

"Io premier, tu scegli il ministro dell'Economia" - Prima di tutto, Bersani spiega che "il Pd non molla, se vinciamo io farò il premier anche se al Senato dovesse mancare qualcosa, colpa di questa assurda legge elettorale che si chiama porcellum". Monti, invece ha "la prima scelta sul ministero dell'Economia o sul ministero degli Esteri per stare dentro la partita ai vertici dello Stato, in attesa che maturino le scadenze della presidenza della Commissione europea e di presidente del Consiglio d'Europa, presidenze che ti stanno particolarmente a cuore" (perché, al Professore, l'Europa interessa eccome ed è la sua vera ambizione; un'ambizione che con Draghi al vertice della Bce sarebbe difficile da appagare).

"Draghi al Colle" - Si parla poi del Colle, e Bersani spiega che "dobbiamo accordarci sul fatto che esprimiamo noi il presidente della Repubblica, che non potrà che essere Mario Draghi". Il motivo? Ve lo abbiamo anticipato: se non libera il posto all'Eurotower, le porte dell'Europa non si spalancherebbero per il Professore. Il nome di Draghi, inoltre, sarebbe apprezzato dalla Merkel.

"Casini presidente del Senato" - Il segretario democratico mette poi in guardia Monti sul suo futuro politico: "E' molto difficile che tu possa avere la credibilità necessaria per dare una casa ai moderati", e questo perché gli alleati - Fini, Casini, Cesa, etc - non avranno più la forza politica per attirare consenso. Secondo Bersani, Casini può "anche aspirare alla presidenza del Senato", poiché "forte del suo rapporto personale con Massimo D'Alema", anche se "baffino", secondo il resoconto di Dagospia e secondo quanto avrebbe detto Bersani, "non esprime più una influenza decisiva". Sempre sul Senato, Bersani avrebbe spiegato di contare "sul senso di responsabilità dei tuoi senatori", quelli di Monti.

"Il nemico è Berlusconi" - Infine il leader democratico avrebbe profetizzato che Monti andrà "via rapidamente", mentre "io rimarrò qui e mi assumerò la responsabilità pesante di una prospettiva lacrime e sangue". Poi Bersani avrebbe ribadito che "la maggior parte dei parlamentari che sono espressione della tua lista, appena tu andrai via prenderanno strade diverse. Fini e Casini, se mai hanno avuto una forza, sono in declino", mentre "Montezemolo ha preferito restare a occuparsi dei suoi affari". Infine, dopo la rituale stretta di mano, Bersani si sarebbe congedato con Monti ribadendo che "mi raccomando, il nemico è Berlusconi. Questo ha sette vite. Diamogli addosso".

Il presidente della repubblica (italiana)...

The untouchable di Byoblu

I poteri di Napolitano sono superiori a quelli di Dio. Egli è padrone del cielo e della Terra. E soprattutto: immune perfino al giudizio universale. Lo spiega bene l'ultimo professore di filosofia del diritto rimasto (ancora per poco?) libero, l'ultimo degli immortali della Costituzione: Paolo Becchi*.

La Corte Costituzionale ha depositato il testo della sentenza sul conflitto di attribuzioni sollevato da Napolitano nei confronti della Procura di Palermo. Si chiariscono, così, alcuni degli interrogativi che, nel corso di una “querelle” a distanza con Eugenio Scalfari, avevo ritenuto sarebbero verosimilmente emersi con l’avvenuto deposito delle motivazioni (P. Becchi, Non siamo tutti uguali davanti alla legge: le prerogative di Re Giorgio, 6 dicembre 2012). Iniziamo dalla definizione, data dalla Corte, dei poteri e delle prerogative del Presidente della Repubblica. La novità, qui, è rappresentata dal fatto che – per la prima volta a quanto mi consta – la Corte stabilisce una piena corrispondenza tra poteri formali ed «attività informali» del Capo dello Stato:

Per svolgere efficacemente il proprio ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale e di “magistratura di influenza”, il Presidente deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed asprezze polemiche […]. È indispensabile, in questo quadro, che il Presidente affianchi continuamente ai propri poteri formali, che si estrinsecano nell’emanazione di atti determinati e puntuali, espressamente previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il “potere di persuasione”, essenzialmente composto di attività informali, […]. Le attività informali sono pertanto inestricabilmente connesse a quelle formali.

Il ruolo del Capo dello Stato sarebbe, pertanto, caratterizzato dall’ «intreccio continuo tra poteri informali e poteri formali» (E. Cheli, Tendenze evolutive nel ruolo e nei poteri del Capo dello Stato, in La figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1985, p. 96. Cfr. anche G. Lucatello, Atti formali e attività informali nello svolgimento del ruolo del Presidente della Repubblica, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Modena, 1996, pp. 985-1010).

Incontri, comunicazioni, telefonate, sono tutte attività informali che sarebbero inestricabilmente connesse, e non separabili, dai poteri formalmente attribuiti dalla Costituzione al Presidente della Repubblica. La Consulta, tuttavia, si spinge al di là di questa corrispondenza. Queste “attività informali” , infatti, sono «fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici» che «implicano necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocutori». Il Presidente dev’essere, pertanto, sostanzialmente libero nei mezzi, e la sua attività deve essere valutata soltanto in base al fine, allo scopo raggiunto:

Le attività di raccordo e di influenza possono e devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali ed indebite […]. Non occorrono molte parole per dimostrare che un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione – che costituisce il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana – sarebbe destinata a sicuro fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche. La discrezione, e quindi la riservatezza, delle comunicazioni del Presidente della Repubblica sono pertanto coessenziali al suo ruolo nell’ordinamento costituzionale.

Per la Corte questo principio risponderebbe alle «esigenze intrinseche del sistema, che non sempre sono enunciate dalla Costituzione in norme esplicite, e che risultano peraltro del tutto evidenti, se si adotta un punto di vista sensibile alla tenuta dell’equilibrio tra i poteri». Occorre, pertanto, garantire il segreto su tutte le attività del Capo dello Stato, e ciò «non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte».

Ciò, tuttavia, non elimina la distinzione, consolidatasi nella giurisprudenza della stessa Consulta, fra «atti e dichiarazioni inerenti all’esercizio delle funzioni» e «atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni restano addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare della carica». L’art. 90 Cost., pertanto, non potrebbe comunque garantire alcuna immunità al Capo dello Stato per reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, in relazione ai quali egli «è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini».

Le intercettazioni, allora, dovrebbero essere ammissibili, come mezzo di ricerca della prova, quantomeno con riferimento ai reati extrafunzionali. In tali ipotesi, infatti, il Presidente della Repubblica non è né più né meno che un privato cittadino. La Consulta, tuttavia, risponde negativamente: Ciò che invece non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente.

Qualcosa non torna, evidentemente. La Corte proibisce, infatti, l’utilizzo di un mezzo di ricerca della prova spesso indispensabile indipendentemente dalla distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali. Cosa accade se il Presidente della Repubblica dovesse commettere uno di quei reati di cui, di fatto, è impossibile acquisire la prova in altro modo dalle intercettazioni? Si pensi proprio alle indagini sulla mafia, o a reati come la turbativa d’asta, l’estorsione, etc. Quante volte, negli ultimi anni, i magistrati hanno ripetuto che «quello delle intercettazioni è uno strumento indispensabile per scoprire chi commette reati, per garantire e assicurare alla giustizia i criminali ed evitare che ci sia impunità nel Paese» (Luca Palamara, Presidente dell’ANM)? Se un Presidente della Repubblica dovesse investire con la propria automobile un passante, è verosimile che saranno sufficienti le testimonianze per inchiodarlo. Ma se fosse coinvolto in un’associazione di stampo mafioso? La conclusione è evidente: nessuna parità di trattamento, nessuna eguaglianza, tra il Presidente della Repubblica ed i privati cittadini, e ciò proprio in quelle ipotesi in cui, come ribadisce la Corte, il Capo dello Stato si deve ritenere «assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini». Alla stessa responsabilità, sì. Allo stesso tipo di indagini, no. E che cosa resta della “responsabilità”, se non vi è modo di accertarla?

* Ordinario di Filosofia del Diritto all'Università di Genova

giovedì 17 gennaio 2013

Donne, anello debole della società


Dottor Francesco Dettori, procuratore della Repubblica, Bergamo si ritrova sulle prime pagine della cronaca nazionale per due fatti eclatanti, successi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Prima la violenza su una ragazza nel centro della città, poi l’esecuzione di un barista a Cortenuova. Qualcuno torna a parlare di allarme criminalità. «I due episodi hanno matrice diversa. La violenza è stata compiuta da un singolo e, a prima vista, parrebbe qualcosa di non pianificato, l’opera di uno sprovveduto che ha agito nei pressi della propria abitazione, usando la propria vettura. Ovviamente, un episodio grave e da non sottovalutare, ma occasionale».

Alla luce di questi due episodi così gravi, si è indotti a pensare che ci sia stato un salto di qualità del crimine nella nostra provincia. «Non credo proprio. Non penso che fino al giorno della violenza sulla giovane la Bergamasca fosse un’isola felice e che da allora sia diventata un inferno. I due episodi non sono indice di un unico allarme, di un’unica matrice. Ecco, se ci fossero stati due omicidi della stessa natura o due violenze sessuali ravvicinate, allora sì si poteva ipotizzare il fenomeno preoccupante. Detto questo, è pacifico che non bisogna abbassare la guardia e che bisogna continuare a presidiare il territorio».

La ragazza è stata aggredita in una zona centrale della città. «Ovvio che è impossibile un presidio del territorio al 100%. E così anche ai cittadini sono richiesti sforzi che a volte sembrano cozzare contro i diritti della persona».

Tipo? «Le donne sono l’anello debole di una società in cui è parzialmente ancora inculcata l’assurda mentalità della femmina come oggetto del possesso. Lo dico con tutto il rammarico, ma sarebbe bene che di sera non uscissero da sole».

Ma così sembra che la ragazza sia andata a cercarsela. «Non voglio colpevolizzare la giovane che ha subito violenza, anzi a lei vanno le nostre scuse per non aver saputo offrire la degna protezione. Ma a volte bisogna ragionare in termini reali».

Non le sembra una sconfitta? «Sì, vero: è una sconfitta della convivenza civile».

Ci sono rimedi? «L’episodio è chiaramente collegato a un difetto di vigilanza. Bisogna intensificare il controllo del territorio, soprattutto di notte».

Fa i conti senza l’oste. È da anni che le forze dell’ordine lamentano la carenza di organico. «Siamo al lavoro per realizzare uno studio del territorio che permetta la razionalizzazione dell’utilizzo delle forze dell’ordine, mirando a una presenza capillare e continuativa sul territorio».

La Procura è entrata nel mirino di parte dell’opinione pubblica per essersi limitata a chiedere gli arresti domiciliari per l’aggressore. «Lo ripeto: la misura cautelare del carcere va utilizzata come extrema ratio e in questo caso la Procura, analizzando i vari fattori fra cui la personalità dell’indagato, ha ritenuto che i domiciliari fossero sufficienti».

Che ne pensa della protesta esplosa sotto l’abitazione del kosovaro accusato della violenza? «Questi episodi vanno condannati. C’è anche una questione di umanità».

Vale a dire? «Vale a dire che nell’abitazione presa di mira dai contestatori, venerdì sera c’erano anche la moglie dell’indagato e le sue figlie piccole, che non c’entrano nulla».

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Sinceramente, un uomo non in possesso delle facoltà mentali necessarie per fare il Procuratore. La sua intervista è un delirio dalla prima all’ultima parola. Sorvoliamo sul “povero stupratore” e sulla famigliola circondata dai contestatori – anzi, non sorvoliamo: se ne tornino in Kosovo, prima di fare altri danni. Ma laddove Dettori, anzi “il Dettori” – in gergo leguleio a loro tanto caro – giustifica la concessione dei domiciliari, il sangue và alla testa. Se il caso di uno stupratore reo confesso che per sua stessa ammissione non è riuscito a controllarsi non è l’extrema ratio che deve condurre al carcere, allora qual è? E non venga a dirci che non essendo riuscito nell’intento – come dice lui – dello “stupro in senso stretto”, grazie alla reazione della ragazza, allora il reato è meno grave. E se la Procura, ovvero lui, ha ritenuto sufficienti i domiciliari, allora, con rispetto parlando vadano a farsi “kosovare” dal loro protetto. L’essere immigrato e quindi con possibili contatti all’estero lo rende il candidato ideale ad evadere; l’essere reo confesso toglie ogni dubbio sulla sua colpevolezza; la sua mancanza di auto-controllo per sua stessa ammissione, lo rende invece pericoloso e in grado di reiterare il reato. E allora, Dettori, quali sono le motivazioni per le quali non è in carcere, tranne il fatto che è parte della minoranza privilegiata e coccolata dalle toghe?

Terminiamo il commento con l’apoteosi sociologica. Ritenere responsabile un presunto “clima sociale” per lo stupro della 24enne è fondamentalmente idiota: l’immigrato è quanto di più estraneo vi sia – in termini di cultura – alla società ospite, quindi ascrivere il reato sessuale di un immigrato, alla cultura autoctona, è scientificamente errato e umanamente folle. Se un Kosovaro violenta una ragazza non sarà per caso “colpa” – prima di tutto sua – e poi della cultura d’origine? Ma come: ci dicono sempre di “non generalizzare”; che se uno straniero violenta, non è colpa di “un’intera” cultura; e poi, vorrebbero addirittura “generalizzare all’incontrario”, colpevolizzando la società che lo ospita. Hanno menti bizzarre e patetiche. Ricordiamo una cosa. Quando parlano a favore dei “ricongiungimenti familiari” – quella legge che permette agli immigrati di “importare” moglie e figli – i vari “esperti” d’immigrazione li giustificano come modo per evitare che “maschi in età sessuale diventino violenti predatori urbani”, la presenza della moglie e dei figli li renderebbe “meno pericolosi”: bè, abbiamo ora il caso – uno dei tanti – di un immigrato in Italia da anni con moglie e figli al seguito. Questo non l’ha resto “meno pericoloso”. Siamo consapevoli che con i nostri attacchi a magistrati e politici – soprattutto i magistrati che hanno la mano pesante con chi “pensa” – ci facciamo nemici potenti. E la cosa ci piace. Avere nemici potenti, significa essere liberi.