domenica 31 gennaio 2010

Perle di farefuturo

Burqa: le leggi già ci sono. E Carfagna fa bene a proporre un gruppo di lavoro. I veli più pericolosi sono dentro la testa di Sumaya Abdel Qader*

In questi giorni torna in auge il dibattito sul burqa e sul niqab (i veli usati da alcune donne musulmane per coprire interamente corpo e viso). Promotori di tale discorso sono nuovamente i francesi. Infatti 6 mesi fa è stata istituita una commissione parlamentare affinché studiasse la questione burqa e niqab per decidere il da farsi a tal proposito, pensando di vietarlo totalmente. Invece, alla fine del lungo periodo di studio e riflessione, la commissione così si è espressa: il burqa e il niqab «offendono i valori nazionali della République». La questione velo islamico in generale non è affare nuovo nel paese della liberté, égalité e fraternité. Infatti già qualche anno fa si discusse sul velo semplice, quello che scopre il viso detto Hijab, che venne vietato alle musulmane che frequentano le scuole e i luoghi pubblici in nome della laicità (provvedimento che colpisce in diversa misura anche fedeli di altre religioni vietandogli l’ostentazione dei loro simboli). Tornando a oggi, la discussione sul velo integrale sembra ridondante visto che, appunto, una legge sui simboli religiosi esiste già (se proprio dobbiamo classificare il velo come un simbolo e, per le musulmane non lo è). Comunque, la legge sul divieto totale di indossare il burqa e niqab non arriva, mentre giungono delle disposizioni che vietano di indossare i sopracitati abiti nei luoghi pubblici, pena il rifiuto di corrispondere il servizio richiesto. In ogni modo la “soluzione al problema” non si trova. Ma cos’è il hijab per le donne musulmane? E il niqab? Il hijab è l’abbigliamento che una donna porta in segno di devozione a Dio. La prescrizione arriva dal Corano (prima fonte giuridica dell’Islam), che di per sé resta generale e non spiega come debba essere questo “abbigliarsi”. Lo precisa però un detto del Profeta Muhammad (seconda fonte giuridica) in cui le indicazioni sono più chiare: deve essere un indumento che copra il corpo e il capo, non trasparente e neppure aderente. Restano scoperte le mani, il volto e secondo successive interpretazioni (terza fonte giuridica) anche i piedi. Dunque il niqab non compare come obbligo religioso nell’ortodossia islamica. Allora, da dove prende origine? Oltre a essere una tradizione già presente in diversi contesti culturali del passato, questo fu ripreso anche dalle mogli del Profeta Muhammad come segno della loro distinzione, elevazione e rispetto. In seguito, alcune donne musulmane per imitarle o per eccesso di zelo hanno decisero si seguirne i passi. Col tempo, in alcuni contesti spazio temporali, la copertura del volto e del corpo sono state imposte alle donne e in molti casi questo atto è diventato funzionale all’arroganza maschile e a una forma patriarcale, che spesso si traduce in mero fanatismo, puro tradimento del messaggio originale dell’Islam e del senso spirituale profondo di devozione e di libertà nella scelta di adorare Dio. Tra religione e tradizioni locali tribali di taluni paesi si stabiliscono così divergenze e incoerenze non indifferenti. Da queste situazioni limite nasce il grande equivoco attorno alla comprensione dell’Islam. Da qui (ma non solo) l’accusa generalizzata nei confronti di questa fede e quindi dei suoi fedeli di essere contro le donne e di volerle sottomettere, confondendo continuamente piani diversi tra loro. Un equivoco rafforzato poi da diversi fatti storici tra cui i tragici attentati dell’11 settembre che hanno messo sotto i riflettori tutto il mondo islamico, spesso indiscriminatamente, trattandolo come blocco monolitico e immutabile. Tornando alla Francia di oggi, è interessante cogliere e osservare che il dibattito sul niqab, e in generale sul velo, si intrecci con quello dell’identità nazionale che cerca di capire quali siano i valori della Repubblica e su chi sia “il francese”, o forse di confermare quelli che da sempre si pensavano esser solidi e chiari principi della République. Valori repubblicani e laici versus valori individuali e libertà della persona, uno storico dibattito sulla funzione e sullo spazio d’azione dello Stato verso la “cosa privata”. Ma è davvero su questo piano che si sta sviluppando il discorso? Oppure dobbiamo preoccuparci di una “deriva” anti islamica che possa incidere e condizionare le agende politiche? I politici dicono di no. Proviamo a crederci. Però alla domanda “burqa e niqab si o no” è sottesa questa: l’islam è compatibile con la democrazia? Si può dunque parlare di esigenza e urgenza di intervenire sull’abbigliamento di una manciata di donne completamente coperte creando un dibattito pubblico spesso fuorviante che ovviamente non mette solo in discussione queste scelte (laddove son tali) ma l’ intero mondo di fedeli musulmani (un miliardo e mezzo di anime)? Tornando al nostro tema, mi sembra troppo facile alla fine prendersela con i simboli senza pensare alle persone. Perché parlando di niqab e burqa parliamo di donne. Donne che sovente scelgono di indossarlo. Specie da questa parte del mondo dove siamo lontani da certe società patriarcali e tradizioni tribali. Tra l’altro possono stupire le stime francesi che ci dicono che sui 5 milioni di musulmani solo 1900 donne portano il niqab e di queste i due terzi sono francesi convertite all’islam. Una forte scelta che viene vissuta come segno di alta devozione a Dio, estrema sicuramente ma non diversa dalla scelta di una monaca di clausura che vuole donarsi al Signore, isolandosi dal mondo intero. Nessuno ha mai discusso sul loro livello di integrazione sociale o penserebbe mai di liberarle dal loro “ghetto”, tanto meno i musulmani che anzi le rispettano profondamente. Altra questione sollevata è il presunto aumento delle donne musulmane che scelgono di indossare il niqab. Io invece mi chiedo: non è che ce ne stiamo accorgendo solo ora, della loro esistenza? E anche se questa lieve crescita fosse reale, potremmo leggerla come sintomo di un aumento dell’estremismo o come radicalizzazione nelle rivendicazioni identitarie in relazione alla pressione percepita? Beh, solo questo sarebbe profondamente indicativo di una reazione post-11 settembre che ha visto la lotta all’estremismo islamico trasformarsi in una lotta all’islam (appunto nella percezione di molti musulmani, percezione consolidata anche dalla crescente strumentalizzazione fatta da una parte del mondo politico e intellettuale occidentale). Ma guardiamo ora al nostro paese. L’Italia non è uno stato propriamente laico. Diversamente dalla Francia, dove lo Stato non interviene nell’affare religioso, non prevede simboli religiosi nei luoghi pubblici e resta indifferente alle religioni con attitudine “esclusivista”, l’Italia, semmai, si pone con la sua Costituzione, più come uno Stato “pluri religioso”. L’Italia non è indifferente alle religioni. Abbiamo difatti perfino un concordato con la Chiesa che solo dall’84 non vede più in vigore il principio secondo cui: «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Questo ci deve far riflette sulla superficiale tentazione che alcuni politici hanno nel voler “copiare e incollare” leggi o provvedimenti di altri Stati, che hanno una storia e percorso differente al nostro. Una legge “mirata” anti niqab in Italia è fuori luogo. Per una manciata di niqab (se ne stimano non più di 200 in Italia!) non si scomoda un intero Parlamento e non si mette in “agitazione” un paese intero! Bastano le leggi che abbiamo. Le donne che lo indossano sono tenute a farsi riconoscere dal pubblico ufficiale o da chi ne abbia la facoltà di chiederlo. La sottoscritta certo non incoraggia il niqab, ma crede profondamente in quegli articoli costituzionali che tutelano la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione (art. 16 Cost.), la libertà religiosa (art. 19 Cost.) e la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). Come può questo conciliare con un divieto d’abbigliamento (se liberamente scelto) in nome dell’imposizione di una libertà? Questo ha l’aria di voler stabilire una “legge speciale, ad hoc”. L’urgenza semmai è di migliorare e aumentare la lotta alla criminalità, alla mafia, all’evasione fiscale, all’inquinamento, al clientelarismo, risanare la politica fatta di scontri e opposizioni sterili e valorizzare meritocrazia e gioventù, questo solo per fare alcuni esempi. Non c’è un allarme di ordine pubblico riguardante il niqab. Il rischio semmai è di ottenere risultati opposti: isolare le donne che lo portano per costrizione, punire le donne che lo scelgono liberamente, radicalizzare le posizioni di molti a favore degli estremisti. Sarebbe invece utile pensare di sostenere le donne che subiscono violenze e costrizioni, non discriminare le libere donne che scelgono di portare il hijab (quello che scopre il viso) dando pari opportunità a tutte con una politica inclusiva. L’obiettivo è la serena interazione e cooperazione sociale a prescindere dalle scelte di fede, nel pieno rispetto delle leggi del nostro Stato, che non smetterò mai di ribadire, sono pienamente compatibili con l’Islam. Interessante la proposta del ministro Carfagna, fatta a Repubblica Tv, di costituire un gruppo di lavoro con donne immigrate e di fede islamica per approfondire questo e altri importanti temi legati alle donne. Un modo per non parlare solo delle donne ma con le donne stesse. Da oggetto a soggetto del dibattito, non è cosa indifferente in un’ottica interattiva e costruttiva. D’altra parte la comunità musulmana deve continuare e aumentare l’impegno e l’opera di responsabilizzazione volto a combattere ogni forma di denigrazione, violenza e non rispetto verso le donne. I veli che più devono spaventare sono quelli dentro e non fuori la testa.

*Scrittrice, autrice di Porto il velo, adoro i Queen, e tra i fondatori dell'associazione Giovani musulmani italiani

A volte tornano

Al Comune. Il Professore a Dalla, primo a «chiamarlo»: mi hai messo nei guai, ma grazie. Bologna, la tentazione di Prodi. «Mi stanno martellando...». Ondata di richieste perché corra da sindaco, l’ex premier «commosso»

BOLOGNA — «È vero. Mi stanno martellando…». Romano Prodi ha un sorriso triste. L’altro giorno ha perso Giovanni, il matematico della Normale, il più anziano tra i suoi fratelli. Il telefono in via Gerusalemme squilla di continuo: vecchi amici, notabili cittadini, sacerdoti. Tutti gli fanno le condoglianze. Tutti o quasi aggiungono una frase: «Sei l’ultima speranza di Bologna… Pensaci». Prodi non risponde né sì, né no. Fino a qualche giorno fa, fare il sindaco era l’ultimo dei suoi pensieri. Ora qualcosa è cambiato. Il quarantenne a lui più vicino, Filippo Andreatta, con cui Prodi ha un rapporto quasi paterno, spiega che la suggestione non è più improponibile; e il motivo sono i bolognesi. «È impressionante quanta gente stia facendo pressione su Romano, dai colleghi ai sacerdoti, dai conoscenti ai passanti. Gli elettori del Pd, e non solo loro, percepiscono l’anomalia di un politico che ha mollato tutto davvero, che in Africa è andato sul serio. E ora che la sbornia per i professionisti della politica che hanno preso in mano il Pd è finita in pochi mesi, l’idea del ritorno di Prodi appare alla gente opportuna se non inevitabile. Anche perché, per come sono messe le cose dopo l’addio di Delbono, Prodi è l’unico sicuro di vincere». «Prodi sindaco? Magari — dice Fabio Roversi Monaco, storico rettore dell’università, presidente della Fondazione Carisbo, uno degli uomini più influenti in città —. La sua candidatura sarebbe un evento significativo per Bologna. Non voglio mancare di rispetto a nessuno, ma è evidente che con lui navighiamo a un livello superiore rispetto a qualsiasi altro nome. Prodi è uomo di caratura internazionale, ha intuito tra i primi le potenzialità della Cina dove oggi è noto quasi come in Italia, conosce l’Europa e gli Stati Uniti. Sarebbe una grande chance per la città». L’alternativa a sinistra sono uomini popolari sotto i portici ma quasi sconosciuti fuoriporta: Luciano Sita, uomo delle Coop, ex manager di Granarolo; Duccio Campagnoli, già segretario della Camera del lavoro, da 15 anni assessore in Regione; Maurizio Cevenini, detto Ce Guevara, molto popolare per aver celebrato 5 mila matrimoni e per la costanza con cui ogni anno invia le felicitazioni alle coppie che hanno resistito. Casini esclude di dare una mano al Pd e, più che al ritorno di Guazzaloca, pensa a lanciare in pista Galletti. Il Pdl ha dirottato su Bologna Giancarlo Mazzuca, già candidato alla Regione, l’ex direttore del Carlino. Ma ieri i giornali locali erano pieni di giudizi sull’ipotesi Prodi. Alessandro Haber, attore: «Firmerei subito un appello per Romano sindaco». Alberto Vacchi, imprenditore: «Sarebbe un valore aggiunto, cercherei di convincerlo». Franco Colomba, allenatore del Bologna: «Serve una persona di grande valore ed esperienza, e Prodi ha queste qualità». Renato Villalta, ex azzurro di basket: «È l’uomo giusto». Carlo Lucarelli, scrittore: «Per Bologna Romano è come un padre». E Stefano Bonaga, filosofo: «Io l’ho detto per primo due anni fa, quando cadde il suo governo, che Prodi deve fare il sindaco di Bologna». Un coro quasi imbarazzante. Per questo il professore spiega di essere colpito e commosso dalle attestazioni di stima e dalle telefonate, tra cui ieri è arrivata quella di Lucio Dalla, che sul Corriere aveva proposto la sua candidatura: «Romano, io piuttosto di andare a Palazzo d’Accursio in un momento come questo mi farei tagliare una mano, ma tu sei migliore di me…». «Lucio, mi hai messo nei guai, però ti ringrazio lo stesso» è stata la risposta. Un «martellamento», appunto; che però è l’unico modo per stanarlo. «È evidente che l’unico a poter togliere le castagne dal fuoco al centrosinistra è lui – spiega Massimo Bergami, il direttore di Almaweb scuola master dell’università, altro quarantenne molto vicino a Prodi —. Sia per le chance di vittoria, sia per dare alla città un profilo non strettamente municipale. Romano sindaco vuol dire agganciare Bologna all’Europa. Ma per lui sarebbe un sacrificio personale non indifferente. Serve una supplica corale per convincerlo a questo passo». Nel silenzio di via Gerusalemme, nell’ora del lutto in cui la famiglia si riunisce e si ritrovano le radici, Prodi sta maturando la decisione. Il colpo di scena resta improbabile, ma non è più impossibile. In via santa Caterina, Giuliano Mongiorgi, 84 anni, ha affisso i suoi manifestini: «Romano Prodi sindaco». Tra i suoi amici ieri sera girava un sms: «Continuiamo a spingere, perché il prof comincia a sperare di essere convinto».

Prepotenze occidentali???

La prepotenza di Franco Cardini

Il 2 luglio del 1798 un giovane militare che, piaccia o no, è colui che ha dato un senso alla Rivoluzione francese e resta, anche grazie alla sua opera di legislatore laico, uno dei “Padri storici” dell’Europa, sbarcava nel porto di Alessandria d’Egitto e lanciava uno stupefacente proclama, nel quale si sosteneva che la Repubblica nata dalla Rivoluzione e l’Islam riposavano sugli identici valori di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Al di là della sua genialità di demagogo (ma era anche ben altro), il generale Napoleone Bonaparte aveva una buona conoscenza dell’Islam: superiore forse a quella di molti politici d’oggi, francesi e non. Allora: sbagliava lui, o sbagliano oggi i suoi connazionali i quali vedono in alcune usanze (peraltro minoritarie) di alcuni gruppi musulmani d’oggi un insulto e un attentato a quei valori? La repubblica francese di questi anni non è nuova a esperimenti liberticidi travestiti da misure libertarie: è già in vigore da tempo la norma che vieta il hijab il semplice velo da testa, praticamente un foulard) nelle scuole. L’alibi giuridico è stato, in quel caso, quello del “divieto di ostentazione di segni d’appartenenza religiosa”: una norma ambigua e pericolosa. Quand’è che una croce o una stella di David al collo diventa “ostentata”? Se ha un centimetro di diametro? O due? O cinque? Ora, si vara una legge che proibisce gli abbigliamenti musulmani di copertura integrale (burqa e niqab), senza cercar nemmeno l’alibi dell’ostentazione: e tanto meno quello – che pur sarebbe plausibile – della sicurezza, nel nome della quale si può chiedere a chiunque di mostrar il volto scoperto come elemento d’immediata riconoscibilità. No. In questo caso si fa riferimento ai “valori della Repubblica”. E il presidente della commissione responsabile dichiara che burqa e niqab sono “solo la punta dell’iceberg”, perché in realtà rappresentano solo uno degli aspetti della repressione dei diritti della Donna nell’Islam. E’ un vecchio discorso: che però viene acriticamente ripetuto, senza che si fornisca mai lo straccio d’una prova dell’assunto dogmatico secondo il quale le donne musulmane, se potessero, insorgerebbero in blocco per sbarazzarsi di quegli odiati indumenti. Al contrario. E’ sempre più frequente imbattersi – piaccia o no – in donne musulmani giovani, istruite, magari carine, che adottano l’uso di quegli indumenti o che, pur non portandoli, ne difendono la legittimità. Capita sempre piu spesso di leggere e di ascoltare difese della copertura integrale per nulla retrograde e reazionarie, ma al contrario intelligenti e spiritose: dove per esempio si rimprovera alle “occidentali” la schiavitù costituita dall’ostentazione continua a tutti delle loro grazie, l’implicito mercimonio che in essa è presente, lo stress derivante dal dover esser sempre belle e ordinate anche quando si scende al market paragonato alla libertà di un bel burqa indossato in fretta per cinque minuti, sotto al quale magari si resta in calzamaglia e bigodini. Esagerazioni? Mica tanto. Nei paesi musulmani sta montando un agguerrito e serio movimento femminista che punta a ben altro: e che difatti difende gli indumenti tradizionali. Quanto ai valori di una “repubblica laica” che paradossalmente tutela il diritto alla pubblica impudicizia ma punisce quello al pudore, va detto chiaro che la vera laicità consiste non già nel vietare simboli e atteggiamenti religiosi, bensì nel permettere e nel tutelare tutti i comportamenti che non impediscano la convivenza e l’esercizio dei diritti altrui. E imporre agli altri i propri canoni morali sostenendone aprioristicamente la “superiorità” non è laicità. E’ prepotenza.

Sergio Romano e il burqa

Sul burqa

Siamo fortunati di vivere in un paese dove Sergio Romano scrive solo sul CORRIERE della SERA invece di fare il legislatore. Ad un lettore, che gli scrive se non sia il caso di vietare il burka anche in Italia per ovvi motivi di riconoscibilità della persona, e quindi per ragioni di sicurezza in quanto la legge impone che i cittadini devono essere sempre identificabili, Romano, usando per fortuna il condizionale, ritiene che una legge va fatta soltanto quando il "problema di sicurezza diventa quantitativamente rilevante". Essendo poche le donne con il burka nel nostro paese- lui a Milano non ne ha mai vista una - conviene aspettare che ce ne vedano. Che questo sia già accaduto in Francia, Germania, Inghilterra, paesi nordici ecc. non preoccupa il nostro più di tanto. Sull'argomento ha le idee confuse, come dimostra nell'affrontare subito dopo la questione del velo integrale. "Avrà l’effetto di rendere le donne musulmane più libere o piuttosto quello d’imprigionarle nelle loro case?" Si chiede Romano. Ma si sa, lui è un feroce critico dei costumi occidentali, che l'Europa diventi Eurabia non lo riguarda.

Nelle democrazie le leggi che limitano le libere scelte di un individuo dovrebbero essere fatte soltanto quando un problema di sicurezza diventa quantitativamente rilevante. Siamo davvero sicuri che esista, in Francia e in Italia, una questione del velo integrale? In una corrispondenza da Parigi per il Corriere, Massimo Nava scrive che le donne interamente velate sarebbero in Francia 2000. In Italia, sulla base della mia personale esperienza (a Milano non ne ho vista nemmeno una) siamo probabilmente nell’ordine di poche centinaia. È necessario adottare una legge per un fenomeno marginale a cui è possibile fare fronte con le norme sull’ordine pubblico? È meglio vietare il velo integrale o fare un decreto che precisi quali siano le circostanze in cui la polizia può chiedere a una donna di toglierlo per essere identificata? Nella sua lunga lettera, che ho dovuto purtroppo abbreviare, lei sostiene, come altri lettori, che il trattamento riservato agli stranieri in molti Paesi arabo-musulmani è molto più restrittivo. Può darsi. Ma la reciprocità si applica soprattutto nelle questioni commerciali, finanziarie e più generalmente economiche, non in materia di diritti umani. Noi abbiamo i nostri criteri, validi per chiunque metta piede in Italia, e dovremmo andarne fieri. Esiste poi il problema delle ricadute di un eventuale divieto del velo integrale. Avrà l’effetto di rendere le donne musulmane più libere o piuttosto quello d’imprigionarle nelle loro case? Per lei, mi sembra di capire, il quesito è ozioso e irrilevante. Per me, no. Quando adotta una legge, lo Stato deve chiedersi quali possano essere i suoi effetti collaterali. Una studiosa dell’università di Milano, Marilisa D’Amico, ha scritto recentemente che «il velo integrale islamico (...) è indossato dalle donne, non dagli uomini. (...) La preoccupazione, allora, è che esso nasconda una forma di discriminazione delle donne. In ultima analisi, questo è l’aspetto più delicato del divieto, che merita di essere meditato: ovvero che esso si traduca, in concreto, in una forma di emarginazione delle donne islamiche, le quali, se vorranno tener fede alla loro concezione religiosa, saranno costrette ad abbandonare una volta per tutte gli spazi pubblici per essere del tutto relegate nello spazio privato». Credo che Marilisa D’Amico abbia ragione e mi auguro che il ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna tenga conto di queste considerazioni.

sabato 30 gennaio 2010

Oscar Luigi Scalfaro

L’offensiva di Oscar Luigi Scalfaro di Bartolomeo Di Monaco

Nel giorno i cui l’Anm ha imposto ai suoi iscritti di assentarsi dalle aule nel momento in cui prendeva la parola il rappresentante del governo, in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, Oscar Luigi Scalfaro non ha voluto mancare all’appuntamento. In una lettera inviata al popolo viola del No B-day, anch’esso in piazza per difendere – così credono – la Costituzione, Scalfaro scrive: «esprimo soddisfazione per le numerose iniziative e manifestazioni di sostegno alla Costituzione repubblicana e alla sua perdurante attualità, organizzate in un momento nel quale essa è nuovamente esposta sia al rischio di proposte di revisione non rispettose dei suoi valori e del suo impianto fondamentale, sia a una strisciante e quotidiana inosservanza dei suoi principi (prima di tutto quello dell’equilibrio tra i poteri costituzionali e dell’autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale). D’intesa con il direttivo di “Salviamo la Costituzione”, che si è riunito a Roma il 26 gennaio, invito i comitati locali della nostra associazione a partecipare a queste iniziative.» Così, dopo l’Anm, con Scalfaro facciamo il bis. Un bis in una giornata in cui proprio la Costituzione viene ridotta a carta straccia da coloro che si arrogano il diritto di rappresentarla e di difenderla. E in che modo lo fanno? I magistrati di Anm manifestando contro il governo, ovverosia contro una delle Istituzioni più importanti del Paese, in ciò mostrando di non averne alcun rispetto, mentre il loro dovere è quello di osservare le leggi e di rispettare la Costituzione che questo obbligo impone. Se – come ha scritto qualcuno – invece di portare sottobraccio la Costituzione, si mettessero a leggerla e tornassero a ricordarne i principi, dovrebbero condannarsi da soli. Ci si domanda come sia possibile far rispettare le leggi e la Costituzione da costoro, che sono i primi a violarle e a dare il cattivo esempio. Naturalmente il Csm farà finta di non aver né sentito né veduto, e la giornata nera di oggi verrà subito archiviata. Il discorso ancora caldo del procuratore generale della Cassazione non ha nemmeno fatto in tempo a rimbalzare sui giornali che i magistrati dell’Anm gli hanno già fatto marameo. Dirà niente il capo dello Stato, che del Csm è il presidente? Da Mancino, il vice del Csm, c’è ben poco da sperare. A lui va bene così, e non gli parrebbe vero se l’Anm andasse anche oltre e magari fischiasse nelle piazze i comizi dei candidati del centrodestra alle regionali. Giacché, se non si mette un argine all’arroganza di Palamara & C., dopo i fatti di oggi a questo si arriverà, prima o poi. Ma a completare il bis ecco, dunque, quell’Oscar Luigi Scalfaro che, nei pochi mesi che esercitò la funzione di magistrato, non mancò di emettere, da cattolico osservante, qualche sentenza di morte: Dopo il 25 aprile 1945 fece richiesta ed ottenne di entrare nelle Corti d’Assise straordinarie, istituite il 22 aprile (per una prevista durata di sei mesi) su richiesta degli angloamericani per porre un freno ai processi sommari del dopoguerra, talora degenerati in veri e propri linciaggi [2]. Queste corti furono anche chiamate, con sinistra eco fascista (vedere i Tribunali del popolo ed i Tribunali volanti nazifascisti), Tribunali speciali; in veste di pubblico ministero presso queste corti, Scalfaro ebbe a richiedere (ed ottenere) una condanna a morte. La condanna tuttavia non fu eseguita a causa dell’accoglimento del ricorso in cassazione suggerito, a quanto sostiene Scalfaro, dallo stesso Scalfaro al condannato, tal Stefano Zurlo. [3] Secondo altre fonti Scalfaro avrebbe richiesto altre condanne alla pena capitale [4]. Nel luglio 1945 sostiene con altri due colleghi la pubblica accusa al processo che vede imputati per «collaborazione con il tedesco invasore» l’ex prefetto di Novara Enrico Vezzalini e i militi Arturo Missiato, Domenico Ricci, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno e Raffaele Infante. Per tutti e sei viene chiesta ed ottenuta la condanna a morte dopo tre giorni di dibattimento. La condanna viene eseguita il 23 settembre successivo, quando i condannati non verranno uccisi alla prima raffica dal maldestro plotone di esecuzione, e sui poveri corpi si accanì poi un gruppo di donne. [5] (Qui, anche per andare a leggere le note). E anche qui (digitare: “Il caso Scalfaro”). La lettera di Scalfaro non è altro che il gesto disperato di chi vuole ancora caparbiamente lasciare gli italiani nelle mani di una prima Repubblica ormai agonizzante e vicina a morire. Si batte perché essi continuino ad essere i cafoni di un potere che continuerà ad essere esercitato dai tanti don Circostanza, di cui parla Ignazio Silone in “Fontamara” (qui). Il ridicolo è che questi cittadini in viola rischiano di cadere nella trappola e di comportarsi proprio come i cafoni di Fontamara, senza accorgersi che Scalfaro è il don Circostanza di turno che ripete loro: “Queste donne pretendono che la metà del ruscello non basta per irrigare le loro terre. Esse vogliono più della metà, almeno così credo di interpretare i loro desideri. Esiste perciò un solo accomodamento possibile. Bisogna lasciare al podestà i tre quarti dell’acqua del ruscello e i tre quarti dell’acqua che restano saranno per i Fontamaresi. Così gli uni e gli altri avranno tre quarti, cioè un po’ più della metà. Capisco” aggiunse don Circostanza “che la mia proposta danneggia enormemente il podestà, ma io faccio appello al suo buon cuore di filantropo e benefattore”. Scalfaro – è questo che i cittadini in viola e tutti gli altri devono capire – si batte con rabbia affinché il popolo, una volta esercitato il voto, lasci decidere al parlamento chi debba governarlo. Non solo, ma che lasci al parlamento anche il diritto di fare e disfare i governi a suo piacimento senza minimamente preoccuparsi di ciò che pensano e vogliono gli italiani. Scalfaro lo ha fatto con il ribaltone nel 1994, e vorrebbe che questo suo gesto, spregiativo della volontà popolare, fosse assunto a modello anche per il futuro. No. Noi dobbiamo pretendere che questo malcostume finisca per sempre. Le maggioranze e il premier vogliamo sceglierceli noi, direttamente nell’urna. Nessuno potrà modificare la nostra volontà, se non tornando a consultarci con regolari elezioni. Fate attenzione, uomini in viola, a soppesare bene la lettera di un uomo che, come il lupo con l’agnello, vi invita ad essere protagonisti non per modernizzare lo Stato, ma per perpetuarne i vizi, i difetti, gli intrallazzi e i giochi di potere. Lo Stato non ha più bisogno di queste idee che ostinatamente vogliono ancorare il Paese ad un passato che nessuno vuole ricordare.

Magistratura

Udienze infinite? Troppe sentenze sbagliate di Vincenzo Vitale

Ancora una volta, come ogni anno, si ripete in questi giorni la trita e stantia cerimonia della inaugurazione dell’anno giudiziario. Tuttavia, ascoltando le parole pronunciate in Cassazione dai messimi vertici della magistratura, non si può tacere una sorta di crescente imbarazzo per alcune affermazioni apodittiche e scarsamente fondate sulla realtà. Ancora una volta, infatti, seguendo il corrente andazzo, il procuratore generale Vitaliano Esposito ha rimarcato come il problema più grave sia la durata abnorme dei processi e come perciò debba guardarsi con favore ad ogni misura che, senza depotenziare la magistratura, sia utile alla abbreviazione dei termini dei processi. In realtà, non c’è nulla di più sbagliato che puntare l’indice soltanto sulla durata dei processi, senza rendersi davvero conto delle ragioni che la producono. La principale ragione è strettamente legata alla circostanza che in Italia (unica nazione al mondo) purtroppo, circa il novanta per cento delle sentenze emesse in primo grado dai Tribunali vengono sistematicamente appellate: ciò significa certamente che i tempi medi di quel singolo processo si raddoppiano. Ma significa anche qualcosa di molto più pregnante ed inquietante, su cui bisognerebbe riflettere, ma che invece viene taciuto con assoluta costanza: e cioè che gli utenti dell’amministrazione della giustizia ritengono, per un motivo o per l’altro, che le sentenze rese dai tribunali di prima istanza non sono affidabili, sono cioè ingiuste e perciò meritano di essere appellate. Si badi che ciò si verifica sia nel settore civile che in quello penale, dovendosi anche aggiungere che spesso a proporre appello sono entrambe le parti, cosa che certo complica le cose in secondo grado contribuendo ad allungare i già notevoli tempi. Inoltre, circa il sessanta per cento delle sentenze rese dalle Corti d'Appello viene gravato da ricorsi davanti alla Corte di Cassazione, con ulteriore perdita di tempo. E allora i casi sono due: o gli italiani - compresi gli esponenti del pubblico ministero, i quali impugnano anch’essi le sentenze dei Tribunali - sono afflitti da una grave patologia psichica che li induce ad impugnare sempre e comunque le sentenze, oppure, come sembra più probabile, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe e che, alla fine, causa un abnorme allungamento dei tempi processuali. In proposito, spiace disilludere il procuratore generale della Cassazione il quale secondo le cronache avrebbe affermato che in Italia «tre gradi di giudizio sono un lusso che non ci possiamo permettere»: infatti, è noto che propriamente i gradi di giudizio in Italia sono soltanto due, quello davanti ai Tribunali e quello davanti alle Corti d’Appello, mentre in Cassazione i giudici non valutano i fatti, ma pongono in essere soltanto un controllo sulla congruità della motivazione delle sentenze. Il fatto è allora che i processi durano almeno un decennio, perché tutte le parti o quasi tutte propongono appello o ricorso per cassazione: e ciò accade perché le sentenze dei gradi inferiori sono troppo spesso sbagliate, vale a dire ingiuste. Ne fa fede, il semplice constatare che su cento sentenze impugnate più della metà vengono in tutto o in parte riformate dalle giurisdizioni superiori: come mai nessuno oggi si chiede perché ciò accade? Perché non si fa in modo che i Tribunali di prima istanza emettano sentenze meno soggette ad annullamento o riforma? Risposta: perché è molto difficile farlo, in quanto sarebbe necessario elevare il grado di capacità e di senso del diritto dei giudici di primo e secondo grado. Per ottenere questo miglioramento, bisognerebbe infatti riformare dalle fondamenta l’intero sistema della formazione degli studenti di giurisprudenza e, poi, dei magistrati: una parola! Eppure, se non si pone mente sul serio a questo problema, continuare a rimasticare sulla durata dei processi, vuol dire soltanto riproporre all’infinito il nulla del pensiero. Eppure, Seneca lo sapeva quando notava che chi scrive presto non scrive bene, mentre chi scrive bene scrive rapidamente (cito scribendo non fit ut bene scribatur, bene scribendo fit ut cito): più giuste saranno le sentenze, meno dureranno i processi. Il resto è chiacchiera.

venerdì 29 gennaio 2010

C'è clandestino e clandestino...

Parigi: il mio immigrato è più clandestino del tuo di Maurizio De Santis

La notizia è di venerdì 22 gennaio. 124 profughi, per la maggior parte curdi partiti dalla Siria (ma sono stati enumerati numerosi maghrebini), sono sbarcati su una spiaggia della Corsica del sud. Il prefetto della zona, Stéphane Bouillon, ha precisato che si tratta di 57 uomini, 29 donne, delle quali cinque incinte ed una handicappata, nonché gli immancabili bambini (ben 38, dei quali 9 lattanti). Lo stupore dei francesi è palpabile. L’ultimo sbarco di disperati in terra corsa risaliva al lontano 2001. All’epoca i curdi furono ben 900! Il ministro per l’Immigrazione, Eric Besson, ha subito tenuto una conferenza stampa, chiaramente volta a trasmettere all’opinione pubblica il messaggio che tutto fosse sotto controllo. Nello slancio mediatico, il caro Besson ha spiegato che una nave sospetta era stata segnalata nelle acque internazionali del Mediterraneo, al largo della Sardegna. Come dire, i nostri cuginetti italiani si sono fatti un sonno. Oltre all’accusa indiretta, il ministro sarkoziano ha subito proposto la convocazione di “un vertice dei paesi europei interessati dall' immigrazione clandestina”. Eric Besson ha precisato che “questo evento dimostra ancora una volta l'urgenza assoluta per l'Unione europea di rafforzare la sorveglianza delle sue frontiere”. Per poi chiosare con una perla di rara fattura: “non possiamo permettere che la Corsica diventi una nuova Lampedusa”. Toh, dunque la Francia s’adonta! Lesa nel patrio suolo, sorpresa dalla ”marittima irruzione”, solitamente relegata ai meticci “italiens”, scopre inopinatamente che anche le proprie spiagge sono alla portata dei disperati. L’ombra di una nuova rotta, inaugurata da scaltri scafisti o mercanti di carne, spaventa Parigi, abituata a selezionare al meglio i propri immigrati (la chiamano migration ciblée: “immigrazione mirata”). Ma nel gruppo degli Stati “benpensanti”, così bravi e democratici, così rapidi nel dispensare solerti bacchettate a noi razzisti italiani, metterei volentieri Olanda e Svezia. Sarei curioso di vedere cosa accadrebbe dalle parti di Stoccolma se, per un paio di lustri consecutivi, continuassero gli sbarchi clandestini al ritmo di un giorno si e… l’altro pure. Forse potremmo averne un vago sentore dando uno sguardo alla vicina Malmoe, oramai per un terzo formata da immigrati disperati (per la maggior parte musulmani) dove da tempo, pompieri e servizi di pronto soccorso, possono addentrarsi nei quartieri ghetto solo dietro robusta scorta. E dove, lo scorso anno, hanno misteriosamente preso fuoco un paio di moschee. Autocombustione? O colpa di qualche italiano che passava di li? Ma torniamo a Parigi perché, invero, le performances dei cari cugini transalpini non sono certo finite li. Interrogato sul futuro di questi profughi, il prefetto di cui sopra, Stéphane Bouillon, ha dichiarato: “La legge dice recita chiaramente che le persone sprovviste di permesso di soggiorno devono essere rimpatriate. E la legge deve essere applicata”. Ma, mi chiedo, il rimpatrio non era questa una prerogativa relegata ai razzisti italiani? Aspettiamo, con fervente entusiasmo, la prossima occasione nella quale i civilissimi popoli europei del nord, bacchetteranno di nuovo l’Italia per qualche sbarco clandestino finito male o per la rissa etnico-religiosa nella Rosarno di turno.

Il mondo islamico

"Il burqa è assurdo. Il mondo islamico ci odia sempre di più".

Continua in tutta Europa la polemica sulla possibile divieto ad indossare il burqa nei luoghi pubblici. In Francia Jean Francois Coppè, il presidente al parlamento del gruppo Ump (Union pour un mouvement populaire), la formazione neo-gollista guidata dal premier Nicolas Sarkozy, ha proposto un disegno di legge che ha suscitato un’accesa disputa non solo fra la destra e la sinistra, ma anche all’in - terno del partito di Sarkozy. Poi Sarkozy ha deciso di fare una risoluzione che, se non sarà applicata, diventerà legge. La stessa cosa sta avvenendo nella multiculturale Olanda ed in Belgio, nonostante in Belgio ci siano alcune città dove indossare il burqa è già proibito: Anversa, Gent, Maaseik (al confine con i Paesi Bassi), Sint Jans Molenbeek e Lebbeke. Su questo tema scottante abbiamo chiesto il parere ad un grande geopolitico, scrittore e saggista francese, Alexandre Del Valle, nato a Marsiglia nel 1969. Un personaggio a volte scomodo per le battaglie che porta avanti. Ha partecipato alla campagna di Sarkozy nel 2007 e presiede una corrente del suo movimento, la Destra Libera (Droite libre). È ricercatore al prestigioso Institut Choiseul. Secondo lei il burqa è un “diritto alla differenza” oppure una barriera simbolica che testimonia il rifiuto all’integrazione con il Paese ospitante?
«Il burqa è assurdo. Tra l’altro soltanto lo 0,1% degli stessi musulmani è pro–burqa: un’insignificante minoranza! Tuttavia va assolutamente vietato, soprattutto per motivi legati alla sicurezza dei cittadini che hanno il diritto di sapere chi sta davanti a loro. Serve solo ai maschi psicopatici che hanno paura di essere “tentati”dal centimetro di carne di un viso di donna “diabolica”... che potrebbe farli cadere nel peccato. Maschi che non sanno controllare i loro “fragili” istinti! Penso che il vostro ministro Carfagna, il ministro Frattini, la Lega e gli altri favorevoli alla messa al bando del burqa abbiano ragione a fare loro la linea di Sarkozy, un uomo eccezionale, pieno di energia, di buon senso; che sosteniamo se mantiene le promesse elettorali della sua campagna ».
Com’è la situazione in Francia?
«Penso che anche la Francia dovrebbe imparare qualcosa dall’Italia in materia di libertà di espressione. Infatti da noi è più difficile che da voi di parlare chiaramente dell’islam e dell’immigrazione. Mi pare che in Italia la gente sia meno colpevolizzata che in Francia, dove coloro che sono contrari al velo islamico, al burqa e anche alle moschee integraliste sono chiamati stupidamente “razzisti e fascisti”. Per salvare l’Europa da questa situazione di emergenza bisogna rompere certi tabù e promuovere ciò che ho battezzato “il patriottismo integratore”. Significa che dobbiamo integrare gli immigrati non certo adattandoci alle loro usanze e regole anti-laiche (e a volte barbare!): bensì trasmettendoloro ilnostro amore per la nostra cultura, civiltà e patria. Non siamo una terra di nessuno o da conquistare».
È vero che il suo pensiero ha influito su quello di Sarkozy, tempo fa molto aperto nei confronti dell’integrazione islamica?
«Sì, è vero. Soprattutto i miei libri hanno dato un buon apporto. Per esempio quello sul perché la Turchia non deve entrare nell’Eu. E sulla necessità di una Carta dell’islam di Francia che stabilisca il principio che le regole sono uguali per tutti; i musulmani devono rispettare la legge francese e non quella islamica là dove la Sharià la contraddice. In questa carta proponevo che le organizzazioni francesi firmassero un documento atto a respingere tutte le misure del Corano, dell’Hadith e della Sharià che incitano all’odio e alla violenza».
Le faccio tre nomi: Franco Cardini, storico saggista studioso delle crociate. Magdi Cristiano Allam (deputato al Parlamento Europeo in seno al Partito Popolare Europeo, il PPE) e Geert Wilders, il leader di destra del Partito della Libertà olandese, sotto processo (e sotto scorta perenne) per aver “osato” insultare i fondamentalisti islamici. Pensa che ci sia un legame fra di loro?
«Sì e no. L’eurodeputato Magdi Cristiano Allam è l’uomo politico più coraggioso d’Italia. Ha sempre trattato, senza eccesso, con intelligenza ed umanità, i problemi inerenti l’islam. Per quanto riguarda Geert Wilders, so che il 3 febbraio verrà processato nel suo Paese per le sue affermazioni contro il radicalismo islamico. Secondo me sarà un momento di verità sulla vera libertà di parola. Non dobbiamo lasciarci impressionare dalle minacce degli islamici “arrabbiati”, nè dai tentativi di colpevolizzarci. Loro non si sentono in colpa quando perseguitano costantemente i cristiani, gli Ebrei e i “cattivi” musulmani. Circa Franco Cardini... il legame con i precedenti è l’opposto. Questo professore che giudica gli altri come se fossero tutti suoi alunni, non è poi così “scientifico”come si vanta con molto orgoglio di essere... Né ha il coraggio di lottare veramente contro l’islamizzazione. Lo definirei piuttosto un “ex-fascistacattolico- islamico”, cioè un militante pro-islamico che come molti rossi-neri-verdi collabora con quelli islamici anti-occidentali».
A proposito di “Rossi-Neri-Verdi: l’alleanza etremista”, questo è il titolo del suo ultimo libro (edito da Lindau, Torino) un’opera molto importante. Mi dia tre buoni motivi per leggerlo...
«Gliene dico solo uno che li comprende tutti: è un saggio chepermette di capire perché il terzomondo ed il mondo musulmano ci odiano sempre di più».

Con buona pace di tutti...

Immigrazione: il Senato discute sanatoria ai lavoratori in nero di Marco Ludovico

Sanatoria per gli immigrati irregolari che lavorano in nero. Lo prevede il testo del disegno di legge comunitaria, in discussione in aula al Senato. È una norma di delega al governo, nata all’inizio da un emendamento di opposizione e poi recepita nel testo approvato dalla commissione e proposto all’aula, con l’intesa dunque del ministro Andrea Ronchi, titolare del dicastero per le politiche europee. La disposizione, in sé, è dirompente: stabilisce - senza distinguere tra colf, badanti o lavoratori di specifici settori - che, a seguito di dichiarazione-denuncia del datore di lavoro, al lavoratore immigrato assunto in modo irregolare "venga concesso un permesso di soggiorno temporaneo per ricerca di lavoro, trascorso il quale" aggiunge la norma quasi per cautelarsi "si potrà procedere all’espulsione". L’obiettivo è quello di contrastare il lavoro nero e il caporalato. Occorre perciò "introdurre meccanismi atti a facilitare la possibile denuncia dello sfruttamento lavorativo o delle condizioni di irregolarità del rapporto di lavoro". Il fine non si discute, ma la soluzione a sorpresa adottata per ora dal Senato è il rilascio del permesso di soggiorno (temporaneo) e alcuni incentivi agli imprenditori illegali. Infatti, alla lettera e) dell’articolo 48 del disegno di legge sulla comunitaria, che l’aula sta esaminando, si prevede la "non applicazione delle sanzioni a carico di quei datori di lavoro che scelgano di autodenunciarsi e siano disposti a regolarizzare la posizione dei lavoratori impiegati clandestinamente". Dopo lo sfruttamento, dunque, niente sanzioni. Però, dice il testo, gli imprenditori che avevano assunto in nero e decidono di autodenunciarsi e mettersi in regola devono "corrispondere" agli immigrati sfruttati "le retribuzioni e i contributi arretrati che sarebbero stati dovuti in caso di assunzione irregolare". Un testo, quest’ultimo, che a un lettore inconsapevole della provenienza potrebbe sembrare scritto da Paolo Ferrero, portavoce della Federazione della Sinistra, e non dalla commissione Politiche dell’Unione europea del Senato, a maggioranza di centro-destra. Anche perché la lettera f) aggiunge che occorre "verificare la possibile estensione delle norme contro il lavoro nero extracomunitario anche al lavoro nero nazionale qualora tali norme - sottolinea l’articolo - risultassero più favorevoli alla parte contrattuale più debole". Il tenore di queste disposizioni sembra risuonare echi di posizioni politiche trasversali, come quelle sulla cittadinanza agli immigrati, assunte dall’opposizione e sostenute dalla parte della maggioranza che si rifà al presidente della Camera, Gianfranco Fini. Di certo, queste norme sull’immigrazione sono clamorose: il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha detto più volte che non intende fare più alcun genere di sanatoria. In realtà fonti qualificate del Viminale affermano che il ministero dell’Interno non è stato affatto coinvolto o informato di questa operazione. E se è così, potrebbe aprirsi un altro problema politico all’interno della maggioranza, fatto quanto mai singolare durante la campagna elettorale delle regionali. Va anche detto che si tratta di una norma di legge delega: per diventare operativa ha bisogno di un decreto delegato di attuazione, emanato dal governo. Dunque la palla torna in mano ai ministeri interessati. Ma intanto il segnale è stato lanciato: sembra difficile che la Lega non scenda in guerra contro queste novità e si scateni un’altra bagarre nella maggioranza.

Avere ragione

Il sociologo di sinistra dà ragione al premier

Il professore, sia pure a fatica, l’aveva ammesso apertamente: «Non volevo vedere: c’era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull'incidenza dell’immigrazione rispetto alla criminalità». Un’ammissione che Marzio Barbagli, 71 anni, docente di Sociologia all’università di Bologna, ha fatto solo l’anno scorso, pur spiegando che i dati sul vertiginoso aumento di reati commessi da clandestini gli erano noti già da anni. Il professore ha spiegato senza peli sulla lingua anche il perché di tante esitazioni: «Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra». Eppure i numeri sono abbastanza inequivocabili. Gli immigrati sono solo il 6% degli abitanti dell’Italia, ma i reati a loro ascrivibili sono proporzionalmente molti, molti di più: il 40 per cento delle violenze carnali, il 24% degli omicidi, il 32% dei tentati omicidi e quasi la metà dei furti. E, analizzando chi sono gli stranieri che commettono questi crimini, si scopre che la correlazione con l’immigrazione clandestina è diretta. Tra gli immigrati denunciati, i clandestini sono da un minimo del 65 per cento fino al 92 per cento, a seconda dei reati commessi. Anche su questo Barbagli, nel suo saggio Immigrazione e sicurezza in Italia (ed. Il Mulino), non ha alcun dubbio su quale sia la dinamica: «A commettere reati sono soprattutto gli stranieri che non hanno il permesso di soggiorno». Per quanto riguarda invece gli immigrati regolari, i dati mostrano che la relazione diretta fra immigrazione e criminalità scompare. «A parità di condizione economica e di integrazione familiare, gli immigrati regolari sembra che violino le norme penali con la stessa frequenza degli autoctoni». Il docente ha stilato anche una classifica dei reati per nazionalità: confrontando i mutamenti dei dati dal 2004 al 2007, spicca l'avanzamento significativo dei cittadini romeni (da 170 a 447 denunciati). La classifica segue con i marocchini (243-296), gli albanesi (127-153), i tunisini (80-121), i peruviani (22-40), gli ecuadoriani (30-35). Per Barbagli, dopo la decisione di esprimere apertamente le sue conclusioni, è arrivata anche la beffa: l’ostracismo da parte dei colleghi di sinistra. «Quando ho cominciato a scrivere che l’ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull’aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto».

E adesso chi glielo dice alla Cei, alle associazioni terzomondiste, al Pd, all'Idv e a tutti quei pretini cretini sparsi per l'italia?

E se lo dice la Cei...

E sulle regionali: «Votate chi difende di più la vita e la famiglia». Stranieri, i vescovi a Berlusconi. «Delinquono come gli italiani». Il segretario Cei: «Le percentuali di criminalità di italiani e stranieri sono analoghe, se non identiche»

MILANO - «Le nostre statistiche dimostrano che le percentuali di criminalità di italiani e stranieri sono analoghe, se non identiche».
Il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, commenta così le frasi pronunciate dal premier Silvio Berlusconi a Rosarno su clandestini e criminalità che hanno suscitato non poche polemiche tra maggioranza e opposizione. Nella conferenza stampa conclusiva del Consiglio episcopale permanente, riunitosi a Roma, il segretario dei vescovi italiani ha anche invitato al rispetto della «dignità di ogni persona umana, che - ha detto - non può essere oggetto di pregiudizio o discriminazione». Forte il richiamo della Cei a «superare i conflitti e le tensioni» relative alla riforma della giustizia e ad osservare «il rispetto degli equilibri istituzionali nel quadro costituzionale». A riguardo, secondo monsignor Crociata, è necessaria la «ricerca del bene da parte di tutti». Un accenno poi anche alla situazione economica dell'Italia: «Ci sono segnali di ripresa sul piano finanziario ma è chiaro che sul piano più socialmente economico i problemi sono ancora presenti» in particolare per quanto riguarda «la disoccupazione e il lavoro» ha sottolineato Crociata.

REGIONALI - Quanto alle elezioni regionali, Crociata ha spiegato che i vescovi italiani non daranno indicazioni di voto ai cattolici. Ma, ha voluto precisare il segretario della Conferenza episcopale italiana, «il compito dei cittadini è eleggere le persone che meglio perseguono l'obiettivo del bene comune i cui valori e criteri sono la difesa della vita umana comunque si presenti, la difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la promozione della solidarietà verso gli altri, in particolare i più deboli e il lavoro». Sulla scadenza delle elezioni regionali di marzo, «noi vescovi diciamo - ha chiarito Crociata - che si tratta di un momento di espressione alta della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e rivolgiamo in questo senso un appello alla responsabilità dei cittadini». «Nel far questo - ha aggiunto, sollecitato in particolare sul confronto che nel Lazio vedrà opposte la candidata del Pdl Renata Polverini e l'esponente dei Radicali, Emma Bonino - evidentemente l'indicazione che viene da parte nostra è quella di guardare alle esigenze generali più importanti e seguire quindi i criteri che permettono di realizzare il bene comune».

FIAT - Una conferenza stampa a tutto campo quella di monsignor Crociata, che ha illustrato anche la posizione dei vescovi di fronte alla prospettiva che vengano chiusi gli stabilimenti Fiat di Pomigliano d’Arco e Termini Imerese. «Conosciamo il dramma delle famiglie che avevano un lavoro e ora si trovano per strada. Dobbiamo raccogliere questo grido, non possiamo rimanere insensibili» ha detto il segretario di vescovi. «Non posso intervenire su questioni specifiche», ha precisato Crociata sempre in risposta alle domande dei giornalisti. «Credo che sia, molto semplicemente, auspicabile che si continui a cercare il modo di assicurare ancora il lavoro».

MAFIA - Da Crociata infine un chiarimento sulla posizione della Chiesa rispetto ai mafiosi. «Il nostro atteggiamento è l'invito al ravvedimento e alla conversione» ha detto Crociata, ribadendo la «condanna senza riserve nei confronti delle organizzazioni criminali e di chi ne fa parte» e ricordando che «c'è una contraddizione insanabile tra l'appartenenza a queste organizzazioni e la comunione con la Chiesa».

giovedì 28 gennaio 2010

Liberarsi del trattato di lisbona

L'Europa ci costa troppo. Ma uscirne è possibile. Il trattato di Lisbona ha introdotto un’enorme quantità di vincoli, ma anche la possibilità giuridica della secessione di Corrado Sforza Fogliani, Presidente Confedilizia

Il 1° dicembre è entrato in vigore il Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea. L’Italia (impegnata in un gossip da bordello che sconforta) non se n’è quasi accorta. Eppure, è un Trattato che - ratificato a cuor leggero dal nostro Parlamento, senza alcun coinvolgimento dei cittadini, né diretto né indiretto - condizionerà fortemente il nostro futuro, la nostra autonomia, i nostri comportamenti. Il suo testo - stampato dalla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea - pesa kg 1,980, è un groviglio pressoché inestricabile di norme, che ancor più ci consegna ai burocrati di Bruxelles. Oggi, del resto, l’80 per cento delle norme pubblicate sulla nostra Gazzetta è già di origine europea: col Trattato, diventeranno il 90 per cento. Di questa legislazione sconforta la luciferina impostazione da Stato etico. L'ultima cosa che vogliono comandarci di fare è di dimagrire, di mangiar questo e non quell’altro. In questa situazione, in molti si è portati a trovare conforto in una sola considerazione: che fra i tanti vincolismi a cascata che prevede (a cominciare da quelli in materia di giustizia), il Trattato di Lisbona una cosa buona l’ha introdotta, la possibilità giuridica della secessione unilaterale. Che presuppone, peraltro, una maturazione culturale che in Italia neppure si profila, se non considerando il lavoro al proposito di pochi intellettuali d’avanguardia, di impostazione libertaria. Che presuppone, soprattutto, di risolvere - in primis - il problema del rapporto con l’Unione monetaria, con particolare riferimento - comunque - al fatto che, passati gli anni dell’ottimismo obbligatorio (e obbligato), vieppiù si sente nei singoli Paesi (e in Italia in particolare, fin dall’inizio allegramente autopenalizzatasi) il peso del vincolo che non permette ai Paesi stessi di avere un cambio che rifletta la loro precisa situazione economica (Martin Feldstein, da Harvard, l’ha denunciato senza peli sulla lingua e, soprattutto, senza ipocriti inchini a una realtà acriticamente considerata). I costi dell’Europa, d'altra parte, sono enormi (e la nostra Corte dei conti li ha finalmente denunciati apertis verbis). Nel 2008, per di più, l’Europa ha girato al nostro Paese 10 miliardi di euro in meno, rispetto all’anno precedente. Di contro, appartenere all’Unione europea ci è costato di più: nel 2008, gli oneri relativi hanno subìto un’impennata del 73,3 per cento. Mica poco davvero, lo squilibrio è inaccettabile. Questo quadro europeo s’innesta su una situazione italiana nella quale un ottimista per natura come Francesco Micheli - nell’intervista che questa icona della finanza italiana ha concesso a Osvaldo De Paolini - non vede «un comune sentire politico teso a risolvere i problemi». Che è il punto centrale della crisi, a ben vedere. «Il nostro - sono parole di Micheli - è il Paese degli sprechi. In tempi di crisi, le risorse sono scarse e sprecarle è un delitto. Una delle priorità deve perciò essere quella di rendere efficiente la spesa pubblica: sono convinto che, con una scelta decisa, si potrebbe tagliare fino al 30 per cento delle entrate e riqualificare il 70 per cento che resta per coprire le esigenze vere, creando disponibilità soprattutto per le classi meno forti, che potranno così incrementare i consumi. Non sono - conclude in punto Micheli - il solo a sostenerlo: fior di studi sono stati prodotti sull’argomento, ma nessun governo (italiano) ci ha mai provato per davvero». Un esempio? «Abolire il bollo dell'auto, una delle tante fastidiose incombenze - fa presente Micheli - che ci toccano e che potrebbe essere assorbito nel prezzo della benzina». «Provarci per davvero» (ad «affamare la bestia» della spesa pubblica) è l'unica strada per ridare tono alla nostra economia. Ma provarci per davvero, significa voler abbattere incrostazioni quasi secolari, eliminare assurde aree di privilegio, sopprimere enti che vivono solo per mantenersi (i Consorzi di bonifica ne sono un classico esempio) e così via. Significa battersi per davvero contro il nemico che è alle porte: «I dollari messi in circolo - sono parole, ancora, di Micheli - molto presto cominceranno a reclamare il tributo più temuto: un’inflazione crescente che darà fuoco alle polveri della nuova crisi». Provarci per davvero, si diceva. Con Reagan l’inflazione scese da oltre il 10 per cento del 1981 a meno del 4 per cento nel 1983. Per affamare «la bestia», Reagan adottò l'unico metodo possibile: ridurre il carico massimo di imposizione fiscale sul reddito dal 70 per cento del 1980 al 28 per cento del 1986. La spesa non relativa alla Difesa passò dal 4,7 per cento del Pil del 1980 al 3,1 per cento del 1988. Con la Thatcher, poi, l’aliquota fiscale massima sui redditi scese da oltre l'80 per cento, al 40. «I rivoluzionari cambiamenti politici che si sono prodotti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sotto Ronald Reagan e Margaret Thatcher - ha scritto Feldstein - comportarono tali progressi radicali che oggi non è più pensabile fare dietrofront». Reagan e la Thatcher, dunque, ci provarono davvero, e ci riuscirono. Fecero delle riforme vere; dimostrarono che fare riforme vere si può. Ma erano, a loro volta, statisti veri.

Pd e immigrazione di comodo

Pd contro Berlusconi: "Gli immigrati servono"

Roma - Le dichiarazioni del presidente del Consiglio Berlusconi, che a Reggio Calabria ha detto che una riduzione del numero degli extracomunitari significa "meno forze" che vanno ad ingrossare le schiere dei criminali, non è piaciuta al Pd. Pier Luigi Bersani ha criticato le parole del premier: "Un governo non può accendere un fuoco", ha detto il segretario del Pd rispondendo ai giornalisti a Montecitorio, "ma guidare il Paese a una maturazione civile". "Una frase del genere ci mette fuori da qualsiasi contesto moderno", ha insistito, "non può essere questo il modo di affrontare un fenomeno che nessuno ha cercato, ma che dobbiamo affrontare con razionalità e umanità". Se si spinge sulla "irrazionalità", ha sottolineato, "ci mettiamo nei guai".

Finocchiaro e Turco. La presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, ha risposto al premier con una battuta fulminea: "Altro che immigrati. Diciamo: meno premier, meno crimini". A rincarare la dose contro il premier è Livia Turco. "Le parole di Berlusconi sugli immigrati sono vergognose. Incita al razzismo e alimenta un clima di intolleranza le cui conseguenze non possono essere prevedibili".

Il Pd: gli immigrati servono. La capogruppo del Pd in commissione Affari sociali della Camera sottolinea che il presidente del Consiglio, in Calabria "avrebbe dovuto dire parole chiare sui fatti di Rosarno ed esprimere il suo dispiacimento per quanto accaduto. Poi avrebbe dovrebbe anche riconoscere ciò che dicono tutti i dati, dalla Banca d’Italia, all’Istat alle organizzazioni internazionali. E cioè che in Italia abbiamo necessità di immigrati per le nostre famiglie, per i settori dell’edilizia, dell’agricoltura, della ristorazione, della pesca e per quello manifatturiero. Tutti settori che senza il lavoro dei cittadini immigrati si bloccherebbero. E non meno gravi sono le parole false sui risultati che non esistono nella realtà. Gli immigrati irregolari in Italia, infatti, sono 700mila e rappresentano il frutto della legge Bossi-Fini che è una vera e propria fabbrica di clandestini".

Migrantes al premier: regolarizziamoli. "Se è vero, come dice il premier e la nostra indagine di qualche mese fa conferma, che episodi di criminalità coinvolgono in percentuale maggiore gli immigrati clandestini, allora occorre lavorare per regolare da subito la situazione di tanti immigrati presenti nel nostro territorio". Lo afferma all’Agi don Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes promossa dalla Cei. "Purtroppo - rileva il sacerdote - gli immigrati che arrivano per trovare lavoro e condizioni di vita dignitose, trovano crescenti difficoltà e burocratizzazione in merito al loro percorso di regolarizzazione".

Idv: premier ricorda Shoah poi fa il razzista. "Berlusconi solo ieri ha ricordato la Shoah e pronunciato parole di condanna contro l’odio razziale e l’intolleranza, oggi fa affermazioni vergognosamente xenofobe. Il presidente del Consiglio di una democrazia civile e moderna non può dire che più immigrati significa più criminalità, perchè si tratta di un’equazione razzista, becera e di un qualunquismo disarmante", afferma Fabio Evangelisti presidente vicario del gruppo Idv alla Camera. "Dovrebbe vergognarsi e chiedere scusa agli immigrati che risiedono in Italia e che con il loro lavoro - conclude - contribuiscono al benessere dell’intero Paese".

mercoledì 27 gennaio 2010

Provocazioni islamiche

Cerca di entrare in tribunale col niqab. A Milano fermata donna islamica

Una donna di fede islamica non ha avuto accesso al palazzo di Giustiza di Milano. Il perché è presto detto: indossava il niqab, ossia il velo che lascia scoperti solo gli occhi. Poiché non era visibile il suo volto, le è stato negato l'ingresso al tribunale, questo pomeriggio. Gli addetti alla sicurezza, quando la donna si è presentata chiedendo di poter entrare per verificare l'esito di uan sua causa in corso, l'hanno fatta attendere ed hanno chiamato uno dei carabinieri in servizio. L'uomo ha spiegato alla donna che, essendo il Tribunale un luogo pubblico, avrebbe dovuto entrare col volto scoperto in quanto, come prevedono le leggi di pubblica sicurezza. La donna non ha fatto obiezioni e se n'è andata anche perché le cancellerie al pomeriggio sono chiuse, e ha detto che tornerà domani.

Veli islamici

Il divieto della Francia a burka e niqab. La Chiesa dice no al velo integrale per questioni di sicurezza e di dignità, intervista a monsignor Agostino Marchetto di Simona Santucci

Niente velo integrale per le donne musulmane, nei luoghi pubblici. La proposta – che nei mesi scorsi aveva fatto discutere l’opinione pubblica anche in Italia e che almeno per ora è una legge al vaglio del parlamento – scuote la Francia, il paese del multiculturalismo, ed oggi è a un punto di svolta. Una commissione parlamentare francese, infatti, in un corposo e attento rapporto, ha stabilito il divieto per le donne islamiche di indossare il niqab - un velo che lascia spazio agli occhi - e il burqa, in cui il viso è interamente coperto. Divieto in tutte le scuole, gli ospedali, i trasporti pubblici e negli uffici statali. La ragione: “il velo islamico offende i valori nazionali della Francia”. Come aveva già detto recentemente il presidente Nicolas Sarkozy: “Il velo non sarà mai ben accetto da noi”. E sul tema – che rischia di diventare elemento di confronto e dibattito parlamentare in molti Paesi – scende in campo anche la Chiesa e il Vaticano. Posizioni già note, che invitano all’accoglienza ma anche al rispetto della legalità di un Paese che accoglie. A ribadire oggi, in modo ancor più chiaro e netto, la posizione della Santa Sede è monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i Migranti, uno tra i massimi esperti delle questioni legate al fenomeno dell’integrazione e dell’immigrazione che ci tiene a dirlo subito: la disposizione francese è “giusta”. “L’episcopato francese ha manifestato che il volto è una espressione di dignità della persona, della sua bellezza, della sua unicità, per cui si è detto contrario al burka. D’altra parte, i vescovi francesi hanno espresso il pensiero che su questo non ci sia una imposizione del divieto per legge. Bisogna certamente tener conto di questa opinione. Io andrei nella stessa linea, nel senso che credo che debba essere vietato il velo integrale nei luoghi pubblici. Anche per una questione di sicurezza, ma non solo per questo aspetto – spiega il numero due del dicastero vaticano – soprattutto per l’aspetto dell’unicità del volto”.

Quale è il confine tra rispetto per i simboli religiosi e integrazione nella società? “Non credo che il burka sia un simbolo religioso forse per qualcuno lo è diventato, ma il divieto va nella linea dell’aspetto, del costume e non della religione”.

Dopo la Francia anche altri Paesi guardano con attenzione al fenomeno del divieto del velo islamico. In primo luogo l’Italia, che ha già accolto la proposta francese con favore, nell’auspicio di poterla presto adottare nel nostro Paese. “È vero che la Francia sta avendo un ruolo importante nel campo della migrazione, per esempio della ‘migrazione scelta’ partita dal presidente Sarkozy. E credo che in Europa si debba molto alle posizioni francesi anche se personalmente non sono molto favorevole a che un Paese sia considerato come modello e come guida. Ognuno ha i suoi punti di vista e poi le diverse posizioni vanno analizzate e confrontate”.

E il confine tra accoglienza, integrazione e legalità qual è? “E’ tutto un cammino da fare che si svolge nel dialogo e nella capacità di trovare un punto di equilibrio tra quello che deve essere da una parte il rispetto alla cultura delle persone che arrivano in un Paese straniero, e dall’altra parte la necessità che le perone che arrivano rispettino la cultura e il modo di vivere di quello stato. Ci deve essere questo spazio per un dialogo, un venirsi incontro sui due fronti. Il cammino dell’integrazione non è solo da una parte, occorre un atteggiamento di ascolto reciproco e di rispetto a vicenda”.

martedì 26 gennaio 2010

Ingabbiate nel burqa

Messaggio Indirizzato a quelle che portano volontariamente il burqa, di Elisabeth Badinter

Queste furono le parole di Élisabeth Badinter nel luglio 2006. Le riportiamo oggi perché sono d'attualità in Francia. Dopo che le più alte autorità religiose musulmane hanno dichiarato che gli abiti che coprono la totalità del corpo e del viso non dipendono dall'ordine religioso ma dalla tradizione, wahhabita (Arabia Saudita) per alcuni, pachtuna (Afganistan/Pakistan) per altri, continuerete ancora a nascondere l'integrità del vostro viso? Così dissimulati ai sguardi degli altri, dovete rendervi conto che suscitate la diffidenza e la paura, dei bambini e degli adulti. Siamo davvero cosí disprezzabili ed impuri ai vostri occhi da rifiutiarci ogni contatto, qualsiasi relazione, fino alla complicità di un sorriso? In una democrazia moderna, in cui si tenta di instaurare trasparenza ed uguaglianza dei sessi, voi ci mandate brutalmente dei messaggi per dire che tutto questo non è affare vostro, che i rapporti con gli altri non vi riguardano e che le nostre lotte non sono vostre. Allora mi chiedo: perché non ritrovate le terre saudite o afgane dove nessuno vi chiederà di mostrare il vostro viso, dove le vostre figlie saranno velate a loro volta, dove il vostro marito potrà essere poligamo e ripudiarvi quando gli pare e piace, cosa questa che fa tanto soffrire numerosissime donne laggiù? In verità, utilizzate le libertà democratiche per girarle contro la democrazia. Sovversione, provocazione o ignoranza, lo scandalo è l'offesa del vostro rifiuto, la sberla che date a tutte le vostre sorelle oppresse che, rischiano la morte per gioire infine delle libertà che voi disprezzate. Oggi potete e dovete scegliere, ma chissà se domani voi non sarete felici di potere cambiare. Loro laggiù non possono… Pensateci.

Con Geert Wilders

Perché sto dalla parte di Geert Wilders di Daniel Pipes

Chi è il più importante uomo politico europeo vivente oggi? Io dico esplicitamente che è Geert Wilders. Perché più di tutti è in grado di occuparsi della sfida islamica che il Vecchio Continente si trova ad affrontare. La sfida islamica consta di due componenti: da un lato c'è l'indebolimento della fede cristiana nella popolazione europea combinato ad un inadeguato tasso di natalità e ad una timidezza nei confronti della propria identità culturale; dall'altro spicca un afflusso di immigrati musulmani devoti, prolifici e in possesso di un dogmatico senso del proprio retaggio culturale. Questa situazione solleva profondi interrogativi riguardo al futuro dell'Europa: manterrà la propria civiltà storica o diventerà un continente a maggioranza musulmana dominato dalla sharia, la legge islamica? Geert Wilders, 46 anni, fondatore e leader del Partito della libertà (Pvv), interpreta senza rivali i sentimenti di quegli europei che desiderano mantenere la loro identità storica. Ecco perché lui e il Pvv si differenziano dalla maggior parte degli altri partiti europei nazionalisti e contrari all'immigrazione. Il Pvv è ultraliberale ed è espressione del tradizionale conservatorismo, senza però affondare le radici nel neo-fascismo, nell'antisemitismo o in altre forme di estremismo. È un leader carismatico, astuto, di sani principi e senza peli sulla lingua, che ha saputo costruire rapidamente la forza politica più dinamica dei Paesi Bassi. Pur pronunciandosi su un'ampia gamma di argomenti, l'Islam e i musulmani costituiscono il suo cavallo di battaglia. Vincendo la tendenza dei politici olandesi ad essere cauti, Wilders definisce Maometto «un diavolo» e chiede che i musulmani «strappino metà del Corano» se vogliono risiedere in Olanda. Più in generale, Wilders considera che l'Islam stesso sia il problema e non solo la virulenta versione di esso che viene chiamata islamismo. Questo cominciò a diventare chiaro, in Olanda, per la prima volta una decina di anni fa, quando Pim Fortuyn, un docente omosessuale ex-comunista e ex-socialista, cominciò a rendersi conto che i suoi valori e il suo stile di vita erano irrevocabilmente minacciati dalla sharia. Fortuyn anticipò Wilders nel chiedere uno stop all'immigrazione musulmana nei Paesi Bassi con lo slogan l'Olanda è piena e fondò un suo partito politico. Dopo l'assassinio di Fortuyn, nel 2002, per mano di un estremista di sinistra, Wilders ne raccolse l'eredità politica e il suo gruppo di sostenitori. Da allora il Pvv ha ottenuto dei successi importanti a livello elettorale, fino ad ottenere il 6 per cento dei seggi nelle elezioni politiche del novembre 2006 e, addirittura, il 16 per cento nelle europee che si sono svolte nel giugno 2009. Oggi i sondaggi mostrano che il Pvv sta continuando la sua marcia nel consenso degli elettori e che sta conquistando, almeno nelle intenzioni di voto, le dimensioni del più grande partito del Paese. E se Geert Wilders diventasse primo ministro, potrebbe assumere un ruolo di stimolo e di guida su questo delicatissimo tema per tutta l'Europa. Ma sulla sua strada ci sono delle difficoltà oggettive. La scena politica frammentata dei Paesi Bassi fa sì che il Pvv sia costretto a trovare dei partner disposti a formare una coalizione governativa e questo è un compito difficile, visto che la sinistra e i musulmani hanno demonizzato Wilders nel tentativo di isolarlo come un «estremista di destra». Senza alleanze, il Pvv dovrebbe ottenere la maggioranza dei seggi in Parlamento, e questa è una prospettiva remota. Wilders deve anche superare le sleali tattiche dei suoi avversari. In particolare, l'offensiva giudiziaria che, dopo due anni e mezzo di scaramucce preliminari, ha avuto come risultato l'apertura del processo per incitamento all'odio e alla discriminazione per le sue dichiarazioni contro i musulmani. Il processo contro Wilders si è aperto appena ieri ad Amsterdam e se, al termine del dibattimento verrà condannato, sarà costretto a pagare un'ammenda fino a 14mila dollari oppure dovrà scontare 16 mesi di reclusione. Inutile dire che questo processo è uno shock per l'opinione pubblica olandese, non soltanto perché l'imputato è il politico di maggior spicco del Paese, ma anche perché, proprio a causa delle minacce che ha ricevuto, Wilders si muove sempre accompagnato da guardie del corpo e cambia di continuo abitazione per motivi di sicurezza. C'è allora da chiedersi: chi è esattamente la vittima dell'incitamento all'odio? Sebbene non sia d'accordo con Wilders riguardo l'Islam – personalmente combatto gli islamisti con tutte le mie forze, ma rispetto la religione – mi schiero con lui contro questo processo. Rifiuto la criminalizzazione delle divergenze politiche, in particolar modo i tentativi di contrastare un movimento politico di base attraverso le corti di giustizia. Lo faccio perché sono convinto di quanto sia importante difendere la libertà di poter esprimere in pubblico le proprie opinioni anche su chi si considera un avversario, soprattutto in un momento di così forte contrasto. Ma per ironia della sorte, se Wilders venisse multato o finisse in carcere, questo probabilmente lo rafforzerebbe politicamente tra gli elettori e aumenterebbe le sue possibilità di diventare capo del governo del suo Paese.

Burqa

Francia, burqa vietato si va verso una legge: "Offende nostri valori"

Parigi
- La Francia va verso il divieto del burqa e del niqab nei luoghi pubblici. Non si tratta ancora di una decisione ufficiale ma di una esortazione fatta dalla commissione di studio, istituita appositamente dal parlamento francese per compiere un'indagine a tutto campo sul fenomeno. Per questo assume un significato assai importante. Per la Francia ma non solo. La commissione raccomanda che il velo islamico - che copre interamente il volto delle donne - sia vietato in tutte le scuole, gli ospedali, i trasporti pubblici e negli uffici statali. Il burqa, è la conclusione del rapporto, offende i valori nazionali della Francia.

Duemila donne con il burqa. Le donne che per motivi religiosi indossano il burqa e il niqab in Francia sono circa 2.000, secondo dati ufficiali. Ma il dibattito, dopo quello di alcuni anni fa sul velo nelle scuole, ha forti implicazioni sulla percezione dell’islam in Francia e sullo spazio che sta conquistando nella società e nella vita quotidiana.

Sei mesi di lavoro. Al termine di oltre duecento audizioni e di sei mesi di lavori, la commissione di studio suggerisce l’adozione di una risoluzione parlamentare, dal valore simbolico e non giuridicamente vincolante, che "proclami che tutta la Francia dice no al velo integrale e chiede che questa pratica sia proibita sul territorio della Repubblica". A fianco di questa dichiarazione solenne, la commissione avanza una serie di proposte volte all’adozione di "una disposizione che vieti di nascondere il volto nei servizi pubblici, compresi i trasporti".

Serve una legge. Il rapporto raccomanda di "optare per uno strumento legislativo" che possa anche essere declinato "per via amministrativa". La commissione non arriva a suggerire un "divieto generale e assoluto del velo integrale negli spazi pubblici" perché "non esiste al riguardo unanimità". Il rapporto sottolinea come una legge di questa fatta "sollevi questioni giuridiche complesse", poiché comporta una "limitazione dell’esercizio di una libertà fondamentale, la liberta di opinione, nella totalità dello spazio pubblico"; di qui il rischio di una censura da parte del Consiglio costituzionale o di una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Le reazioni in Italia. "Rappresenta un’iniziativa positiva in quanto la libertà individuale, compresa quella religiosa, deve essere sempre bilanciata con le esigenze di tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico": è il giudizio positivo del ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli. Di diverso avviso Fabio Granata, deputato del Pdl. "Sono contro il divieto del burqa, così come sono contro il divieto del velo per le donne cattoliche. Ma è un finto problema che viene utilizzato per affrontare in modo sbagliato il tema dell’immigrazione e della cittadinanza". Anche Daniela Santanchè apprezza la linea francese: "Auspico che ci siano sempre di più iniziative di questo tipo a livello europeo per favorire l’integrazione. Mi dispiace che l’Italia sia in ritardo. Da mesi giace in parlamento una mia proposta che vieta il burqa nei luoghi pubblici e nelle scuole dell’obbligo". Di Pietro non si sbilancia: "Credo che bisogna sempre difendere la libertà fondamentale di ogni singolo. Il burqa come strumento di costrizione è una gabbia. Ma come libera scelta il burqa è l’espressione di un diritto individuale. Quindi non si può fare di tutta l’erba un fascio e dire sempre sì o sempre no".

Ucoii e Islam.it. Preoccupate alcune organizzazione di islamici italiani: "Noi dell’Ucoii - spiega El Zir, portavoce dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia - consigliamo il viso scoperto. Detto questo, pensiamo che la raccomandazione della commissione francese entri in una sfera strettamente personale. Si vieta una scelta religiosa". Sfumatura appena diversa per islam-online.it, il sito internet diretto da Hamza Picardo. "Si va verso una concezione di stato etico superato dalla storia che decide i valori a cui tutti quanti si devono attenere".

Gli specialisti dell'Islam: bandiera del salafismo. L’uso del velo integrale è "la bandiera di un movimento integralista: il salafismo". È quanto sottolinea un gruppo di specialisti dell’Islam citati nel rapporto della missione parlamentare che ha raccomandato il divieto del burqa e del niqab nei servizi pubblici della Francia. Il velo integrale costituisce una "reale sfida per le società democratiche", si legge nel rapporto. Il salafismo è un’interpretazione molto ortodossa dell’islam, che secondo dati diffusi dal ministero dell’Interno di Parigi riguarda circa 12.000 persone sui 6 milioni di musulmani presenti in Francia, nonchè una cinquantina di moschee e sale di preghiera (su un totale di 1.900). Il burqa o il niqab, si legge ancora nel documento, illustrano il "bisogno di rifugiarsi nell’assoluto", nel contesto di una situazione sociale e materiale difficile. "Non bisogna sottovalutare l’importanza della precarietà sociale e del sentimento di relegazione nei quartieri-ghetto, per capire il fenomeno del velo integrale", ha spiegato l’islamologo Mahmoud Doua ai membri della missione parlamentare. Rivolgendosi ai deputati, lo storico Benjamin Stora ha invece parlato di "sentimento di appartenenza identitario" per le donne che indossano il velo, in una società in cui non si sentono accettate. Mentre diversi esperti dicono che il velo integrale "non si riduce a una semplice tenuta vestimentaria". Ma è il segno di "un carattere militante", orientato al proselitismo, che vuole «diritti e doveri specifici». Ad esempio, esigere dalle donne che siano curate solo da medici di sesso femminile.

Comportamento settario. I salafiti non hanno però progetti politici e non sono in una "logica guerriera". Vogliono solo il ritorno alla religione del profeta, ha spiegato ai deputati l’islamista Samir Amghar. Il loro comportamento è settario anche se si stanno aprendo "progressivamente alla società", ha aggiunto. Gli studiosi hanno poi osservato che il salafismo si diffonde anche grazie ad imam particolarmente carismatici (spesso formati in Arabia saudita), attraverso canali satellitari che trasmettono dal Medio Oriente o su Internet.

16 anni

Uccise una ragazza in metrò, condanna definitiva per Doina Matei: 16 anni. Confermata in Cassazione la pena per la prostituta 23enne che colpì a morte una 21enne con l'ombrello

ROMA
- Niente sconti di pena e conferma della condanna a sedici anni di reclusione per Doina Matei, la prostituta romena di 23 anni, che nella metropolitana di Roma il 26 aprile 2007 uccise con un colpo di ombrello la giovane Vanessa Russo. La Corte di Cassazione ha confermato la pena che ha rigettato il ricorso dell' omicida.

LA CONDANNA - Doina Matei era stata condannata nel dicembre 2007 a 16 anni per aver ucciso con un colpo di ombrello Vanessa Russo, 21 anni, nella stazione del metrò a Termini il 26 aprile di quell'anno. Nonostante il rito abbreviato e la derubricazione del reato in omicidio preterintenzionale, il gup Donatella Pavone inflissero a Doina Matei una pena di appena due anni inferiore al massimo: il giudice, oltre a riconoscere l' aggravante dei futili motivi, non ha concesso le attenuanti generiche.

lunedì 25 gennaio 2010

Altre civiltà

Mutilazioni sessuali di Silvana De Mari

Questo blog è dalla parte dei ringhiosi razzisti come ci chiamano i benpensanti, dalla parte di Theo Van Gogh. Oriana Fallaci, Wilders. Questo blog è dalla parte dei ringhiosi razzisti, dell’intolleranza, di chi ha il coraggio davanti alle bambine torturate di tirar fuori la voce e dire che è un’ignobile barbarie. L’autore di questo blog in un raptus di masochismo si è trascinata venerdì al solito congresso sulle mutilazioni sessuali, al solito assembramento di ignavi, di menti informi, che dichiarano giudiziose che loro sono contrarie all’infibulazione, certo, ma non giudicano, è la civiltà degli altri e la civiltà degli altri non si giudica, (curioso, quando si parla della mia di civiltà, della civiltà dei miei padri, tutta questa correttezza me la sono persa) ed ha ancora lo stomaco contratto per la nausea, per le stronzate che le menti informi hanno enunciato con le loro vocette, e per il tono di voce con cui le hanno dette, tra l’altro, a spese dei contribuenti, uno dei quali sono io. Mente informe non è un insulto: è la dichiarazione di un dato di fatto. La nostra mente trova la forma nell’espressione di giudizi. Una mente che non esprime giudizi è una mente informe, una mente che dichiara la fierezza della propria capacità di non esprimere giudizi è una mente oscena e informa, che ha rinnegato la propria umanità. Alla prossima incarnazione nascete toro o volpe, perché la corrida è un rito estremamente complesso, che fa innegabilmente parte della cultura spagnola, ma nessuno tra quelli che la disapprovano risparmia critiche pensando che la corrida è un pezzo portante della cultura spagnola (cfr Hemingway Morte nel pomeriggio, Richiard Whright Spagna pagana), nessuno ha dubbi che la caccia alla volpe ha linee nella cultura inglese che permettono di collegare i re medioevali all’epoca attuale, ma nessuno fa sconti quando si trratta di tirare picconate. Nessuno rimprovera alla Turchia di essere uno stato genocidario, basato sull’invasione di uno stato e dallo sterminio totale della popolazione precedente di cui non restano tracce né della religione né della lingua, ma tutti rimproverano agli usa di essere uno stato basato sulla persecuzione degli indigeni, perché le menti informi non capiscono che loro non osano rimproverare nulla alle popolazioni abbronzate perché sono impregnate di razzismo inconscio, perché le ritengono non alla loro altezza, non all’altezza di americani, spagnoli e inglesi. Questo blog nutre un disprezzo ogni giorno più abissale per la viltà e l’ignavia del politicamente corretto. A questo aggiornamento sulle mutilazioni genitali tenuto alla clinica ostetrica di Torino le menti informi hanno dichiarato che:

Non è giusto giudicare le culture degli altri: Questa delirante affermazione che porta alla paralisi del pensiero ci permette di passare dal bi pensiero di Orwell a non pensiero del pensiero debole, del relativismo culturale. Sulle urla di bambine torturate non si fa relativismo.

Affermazione apparentemente vera: l’infibulazione è praticata anche da cristiani, quindi non è legata all’islam. L’infibulazione appartiene all’islam. E’ praticata da Cristiani sono quando questi cristiani sono minoranze in paesi islamici, minoranze che sono devastate dalle violenze sessuali contro le donne. Nella civilissima Betlemme, le denunce di ragazze cristiane rapite all’uscita da scuola e costrette a nozze forzate come seconda o terza moglie di islamici sono la norma. Già tua figlia è la cagna cristiana, se è anche non infibulata, non riesce a tornare a casa da scuola.

Loro non sanno perché ci sono le mgf: perché è importante nell’islam che non si crei il piacere sessuali nel matrimonio o i maschi non andranno più a morire nel jihad per conquistare un paradiso dove non ci sono le loro spose. L’islam non è una religione (Claude Levi Straus) ma un sistema di potere camuffato da religione, la frustrazione sessuale ne è un elemento essenziale.

Loro non sanno perché non si riesca a diminuire le mgf. Perché due correnti islamiche, lo wahabismo saudita e i fratelli musulmani le sovvenzionano e le diffondono. Ma soprattutto loro sono buone, corrette, giuste: non giudicano.Certo. Una mente informe non è in grado di farlo.

Kamikaze sotto il burqa

Ritratto delle donne di Al Qaeda e del loro sfrenato desiderio di vendetta di Gaia Pandolfi

Era entrata facilmente nella base americana di Tall Afar, città irachena al confine con la Siria, nel settembre del 2005, senza destare alcun sospetto, sebbene fosse imbottita di tritolo. In nome del “proprio onore e della propria fede” ha ucciso cinque uomini, ma di lei non si è saputo nulla, neppure il nome, soltanto che si è trattato della prima donna terrorista di al Qaida. Un attacco che allora rappresentò una frattura con il passato, come ha scritto la rivista americana Newsweek. Sono trascorsi cinque anni, ma gli episodi di donne che si lasciano saltare in aria in nome di Allah si sono susseguiti sempre più numerosi, tanto che secondo alcuni studiosi americani il pericolo delle donne-kamikaze non è più semplicemente “teorico”. Oggi al Qaida è diventata un’organizzazione terroristica all’avanguardia, sia in Afghanistan che in Pakistan. In Libano è incarnata dalle forze di Hezbollah, in Palestina dall’organizzazione di Hamas e della Jihad islamica. I suoi leader sono ancora intellettuali, dottori ed ingegneri, che, però, non considerano più le donne soltanto come mogli da onorare o icone di cui preservare la virtù. Per il ricercatore giordano Hassan Abu Hanieh, l’ex terrorista internazionale Abu al Zarqawi, ucciso nel giugno del 2006 da un attacco aereo americano, avrebbe cercato di spronare i giovani Musulmani. “Non ci sono uomini, così dovremmo reclutare le donne”, aveva scritto in un messaggio provocatorio, pubblicato da un sito Web vicino ad al Qaida. Secondo una fonte talebana, il medico e “luogotenente” di Osama bin Laden, Ayman al Zawahiri, sarebbe invece uno dei sostenitori della causa femminile all’interno dell’organizzazione terroristica. Già prima della caduta dei Talebani in Afghanistan, nel 2001, Zawahiri cercò di garantire anche alle donne la partecipazione all’addestramento militare. Allora incontrò l’opposizione del Mullah Mohammed Omar, e a nulla valse l’esempio dell’afghana Malalai, la donna che nel Diciannovesimo secolo si era battuta contro l’impero Britannico. Ma oggi si è aperto un nuovo scenario: mogli e vedove dei guerriglieri di al Qaida fanno parte di un’unica, grande famiglia. E’ la vendetta il sentimento principale che spinge queste donne a lanciarsi, cariche di esplosivo, contro qualche obiettivo che possa definirsi “Occidentale”. Sono mogli, spesso giovani, che hanno perso i propri mariti, madri che hanno lasciato partire figli che poi non sono più tornati. In Cecenia sono chiamate “Black Widows” (Vedove Nere), “donne martire”, come quelle che si fecero esplodere in un teatro gremito o nella metropolitana di Mosca. La prima in assoluto, la diciassettenne Hava Baraeva, è diventata una leggenda. “Sorelle, è giunto il nostro momento!”, gridava in un video registrato nel giugno del 2000. La palestinese Wafa Idris, invece, passerà alla storia per essere stata la prima donna-kamikaze nel conflitto mediorientale. A soli 28 anni, si è lasciata saltare in aria il 27 gennaio 2002 a Gerusalemme, uccidendo un giovane israeliano. Le “donne martire” dopo la morte diventeranno degli “angeli più puri e ancor più belli”, ha rivelato Thauria Hamur, catturata dall’esercito israeliano nel 2002, in un’intervista a Newsweek. Paradiso ben diverso da quello che, invece, si attendono i soldati di al Qaida: 72 vergini, dagli occhi neri e la pelle color alabastro.

Inglesi, un passo avanti...

Burqa: Londra si differenzia dalla posizione francese

Venerdì il governo britannico ha ribadito la sua scelta per la libera espressione delle credenze religiose in tema di abbigliamento nel Regno Unito, in particolare riguardo al velo islamico, che la Francia sta studiando di vietare nei luoghi pubblici. Dopo sei mesi di lavoro, infatti, una missione parlamentare francese dovrà presentare martedì un progetto di risoluzione su questo tema. “Il governo britannico non condivide la posizione della Francia sulla laicità”, precisano le autorità britanniche sul sito web di Downing Street in risposta a una petizione online. Quest’ultima chiedeva al Primo Ministro Gordon Brown di consentire alle donne musulmane di fare le proprie scelte su niqab o burqa, invece di opprimerle.Da notare che anche un’altra petizione “per sostenere la volontà di Sarkozy di vietare il velo,” con 54 firmatari, è presente sul sito web del primo ministro britannico. Conferma che tale argomento provochi dibattiti anche oltre Manica, c’è una terza petizione che vorrebbe fosse vietato a qualsiasi persona che indossi un pezzo di stoffa coprente il volto (e parte dell’ampiezza di visuale), di guidare un veicolo a motore, per motivi di sicurezza. Infine un’ altra petizione preme su Gordon Brown per vietare il burqa in luoghi pubblici. “In Inghilterra siamo a nostro agio di fronte all’espressione delle diverse convinzioni, sia che si indossi un turbante, il hijab, il crocifisso o la kippà. Questa diversità è una parte importante della nostra identità nazionale e uno dei nostri punti di forza“, ha precisato il governo. Egli ha sottolineato che “le esperienze culturali e storiche della Francia hanno portato ad una posizione diversa sulla laicità e il fatto di indossare i simboli religiosi”, facendo esplicito riferimento alla legge del 1905 sulla separazione tra Stato e Chiesa. La laicità è considerata il secondo valore più importante della Repubblica [francese] per suffragio universale, ha osservato. “Il governo britannico comprende le inquietudini che accompagnano le restrizioni supplementari di indossare segni religiosi in Francia”, ma sottolinea che è problema della politica nazionale francese.

Senza titolo

domenica 24 gennaio 2010

Dal Gazzettino, piccoli regali...

PORDENONE (23 gennaio) – L’ordinanza anti-sbandati di Azzano Decimo dell’agosto del 2008 rischia di fare una vittima “illustre”: la mamma di Sanaa Dafani, la ragazza uccisa nello scorso settembre in un bosco a Montereale Valcellina, potrebbe essere espulsa. La donna, Dafna Charuk, e le due sorelle di Sanaa hanno chiesto un aiuto al Comune di Azzano – che segnalerà il caso alla Questura – per il pagamento delle bollette di luce, gas, mensa e trasporto scolastico. Della questione si è occupata la giunta (assente il sindaco, Enzo Bortolotti, sospeso dalla carica). Con il capofamiglia in carcere, le tre rischiano il ritiro del permesso di soggiorno e il rimpatrio in Marocco, perché qui non hanno sufficienti mezzi di sussistenza. Per il sindaco reggente, Vittorino Bettoli, «la giunta all’unanimità ha deciso di approvare quei contributi per garantire i bisogni delle due bambine. Umanamente non potevamo fare altro e non credo che la mamma di Sanaa sarà rimpatriata». Ma Bortolotti va all’assalto. «Io credo che in giunta abbiano preso un abbaglio al quale ora dovranno rimediare. Io ero favorevole al contributo per le due bambine, il Comune del resto ha già detto che se ne farà carico, ma per l’altro sussidio dovrà scattare la segnalazione alla questura per evitare omissioni».

Su Wilders e sulla libertà

Dove comincia la loro prepotenza finisce la nostra libertà. Il processo a Geert Wilders di Piera Prister

Il giorno 20 gennaio sono iniziate ad Amsterdam le udienze preliminari del processo eretico a Geert Wilders, accusato di diffamare l’Islam. Un giorno nero per l’Olanda, il giorno della vergogna che vede sul banco degli imputati un uomo che come un leone difende il diritto alla liberta’ di parola, giudicato da una corte imbelle di pecoroni in toghe e parrucche che, forti del loro ruolo di giudici, punto su punto lo interrogheranno sui molti capi di imputazione scritti in un dossier di 70 pagine. E’ un processo politico orchestrato dalla sinistra che provochera’ in Olanda uno stragrande aumento di voti a favore di Wilders nelle prossime elezioni generali. L’anno scorso e’ toccato al caricaturista Gregorius Neckshot che di notte tempo fu svegliato da poliziotti e funzionari del Ministero di Giustizia e trascinato in prigione mentre gli perquisivano la casa e gli sequestravano il computer. Ora e’ il turno di Geert Wilders che coraggiosamente denuncia il processo di islamizzazione dell’Occidente e sul cui capo pende una minaccia di morte. Il parlamentare olandese e’ determinato a procedere, non ha paura dell’Islam che lo minaccia di una morte orrenda, ma e’ l’Islam che invece lo teme perche’ e’ un leader carismatico che nell’ambito della legaita’ si e’ messo di traverso per fermare l’avanzata integralista degli islamici. E’ chiaro che la liberta’ di parola e di espressione sono sotto attacco assieme a tutte le altre liberta’ che sono il fondamento della civilta’ dell’Occidente. Ne e’ l’esempio piu’ assurdo questo processo a Wilders il cui surrealismo ci ricorda “Il Processo” di Kafka o anche il processo a Galileo che, convinto d’avere ragione anche dopo la sentenza di condanna del tribunale ecclesiastico, continuo’ a dire: ”Eppur si muove”. Le loro armi sono quelle dell’intelligenza, della parola, delle argomentazioni avverso le armi assassine delle bombe, della spada e dei roghi. Chi liberamente esprime il proprio pensiero e’ messo sotto accusa, e’ intimidito, costretto a vivere sotto scorta o alla macchia; oppure finisce deturpato o con la gola tagliata o – cosi’ come vorrebbero uccidere Wilders - decapitato. Il paradosso e’ che la legge non lo protegge ma difende la marmaglia che non ha altre argomentazioni da opporre se non la minaccia di morte per poi passare dalle minacce ai fatti. Largo all’Islam e guai a chi gli sbarra il passo. I giudici poi se la battono in ritirata e con loro la maesta’ della Legge. Ci si deve pure chiedere perche’di tutte le stragi, massacri e atti terroristici che non si contano piu’ ormai, recano tutti la firma dell’Islam. E allora si deve pure indagare e risalire alla fonte dell’indottrinamento di tante menti esaltate. Wilders lo ha fatto e ha identificato nel Corano e nella interpretazione che ne danno i falsi maestri nelle moschee e nelle madrasse l’origine dell’indottrinamento e dell’odio verso le altre religioni e verso la civilta’ occidentale. Non c’e’ ombra di dubbio che nelle scuole islamiche si coltivino potenziali killer. Come controllarle? L’Europa civile democratica e postmoderna arretra e l’Islam avanza con il suo sistema di leggi della Shariah che ci sta facendo fare un balzo all’indietro nel Medioevo, quando dominavano la paura e la repressione, la caccia alle streghe e i roghi. E anche i processi eretici infami a Galileo e a Giordano Bruno. Dall’Europa con il processo a Wilders agli Stati Uniti dove il Metropolitan Museum ha cancellato le immagini di Maometto dalle pregiate opere d’arte, la paura dell’Islam s’allarga a macchia d’olio. Altro che rispetto per le altre civilta’. Sono loro che non rispettano la nostra. Visto che il rispetto per valere dovrebbe essere vicendevole. Geert Wilders e’ un deputato liberale conservatore, con un vasto consenso popolare che difende il diritto alla liberta’ di parola e d’espressione assieme al diritto di non aver paura di ritorsioni in un’Olanda in cui l’intimidazione e le minacce di morte stanno prevaricando e sono all’ordine del giorno. In questo caso la giustizia non difende chi e’ minacciato di morte ma coloro le cui azioni di ritorsione come il tagliare lingue e gole, gettare acido muriatico in faccia o benzina per poi appiccare fuoco, sono sotto gli occhi di tutti sul palcoscenico internazionale. Ricordiamo gli assassinii di Theo Van Gogh e di Pim Fortunyn e della condanna a morte a Hirsi Ali costretta a nascondersi. E’ di questi giorni la notizia che estremisti islamici a Parigi, fuori del teatro “Maison des Metallos” hanno cosparso di benzina e gettato una sigaretta accesa contro la drammaturga algerina Rayhana che per caso e’ sfuggita ad rogo. Da quando in qua i tribunali si sono messi a difendere i bulli avvolti in kefiah che innalzano striscioni che inneggiano alla violenza e alla morte! Non e’ giustizia questa e’ solo il suo travestimento. Questi fondamentalisti non solo compiono le malefatte, non solo costringono giornalisti, artisti, parlamentari, intellettuali ed esponenti religiosi ad una vita blindata ma vogliono l’accondiscendeza di tutti e anche le sentenze favorevoli delle Corti di Giustizia. E’ la solita farsa dei processi per diffamazione dove la civilta’ arretra e la barbarie avanza. Purtroppo le cosi’ dette elites non sanno difendere i valori fondanti della nostra civilta’, danno solo man forte ai prepotenti che seminano il terrore e aumentano di numero. Gia’ dagli anni settanta i terroristi islamici hanno insanguinato l’Europa quando la sinistra al governo “flirtava amorosamente” con i Palestinesi. Quante stragi depistate ed insabbiate! E cosi’ si continua oggi. Perche’ nella storia dei popoli una democrazia come e’ nata potrebbe anche morire e cosi’ le nazioni, come nascono muoiono. Noi amiamo la democrazia garante delle nostre liberta’ individuali, quali il diritto di parlare, di scrivere, di dissentire e anche quello di informare e di far satira contro la disinformazione; amiamo la liberta’ di professare la nostra religione o anche di non professarla. Insomma amiamo il pluralismo e odiamo la sopraffazione e l’intimidazione. Che non ci vengano a dire come dobbiamo vestire, che cosa dobbiamo leggere e chi dobbiamo amare. Perche’ dove comincia la loro prepotenza finisce la nostra liberta’. Perche’ e’ certo che non ci piacerebbe avere come vicino di casa uno che considera il nostro cane impuro; e non ci sentiremmo sicuri se lo stesso vicino fosse anche un odiatore di ebrei che non tollerasse la nostra accensione delle candeline di Chanukah sul nostro davanzale, ci minacciasse anche di morte e ci gridasse in un folto corteo di esaltati di morire bruciati di nuovo nei forni, come e’ accaduto un anno fa ad Amsterdam come qui in America. O fosse anche un odiatore di cristiani vista la fine brutta che fanno nei paesi musulmani e visto anche che le stesse hostess sugli aerei non sono libere di portare al collo la catenina con la croce. Siamo per la coesistenza con gli altri, civile e rispettosa delle regole della democrazia. Per questo sosteniamo Geert Wilders, come speriamo che lo sosterranno in massa gli Olandesi con il loro prossimo voto contro questa farsa di processo in cui si sono rovesciati i ruoli dell’imputato e dell’accusa, del perseguitato e dei persecutori.