giovedì 30 settembre 2010

L'utilità dell'onu


NEW YORK - Quando ET atterrerà finalmente sulla Terra pronunciando la fatidica frase «portatemi dal vostro capo», (come nel film «Men in Black») all' Onu sapranno chi chiamare. Dopo un lungo e rigoroso esame per riempire la neonata carica di «ambasciatore Onu per gli alieni», le Nazioni Unite hanno annunciato che la scelta è ricaduta sulla 58enne astrofisica malese Mazlan Othman, già direttore dell' Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari dello Spazio extra atmosferico (Unoosa), l' agenzia con sede a Vienna che supervisiona i programmi spaziali dei vari Paesi e finanzia i progetti delle nazioni che vogliono creare un programma spaziale in modo pacifico. La Othman illustrerà il suo nuovo incarico alla conferenza scientifica della Royal Society che si terrà la settimana prossima nel Buckinghamshire. Per giustificarlo, secondo le anticipazioni dei giornali britannici, l' astrofisica dirà ai delegati che la recente scoperta di centinaia di pianeti in orbita attorno ad altre stelle ha reso «sempre più probabile e imminente» la scoperta di una vita extraterrestre. «La continua ricerca di comunicazioni extraterrestri da parte di più soggetti ci lascia sperare che un giorno l' umanità riceverà segnali dagli alieni» ha spiegato lei stessa durante una recente conferenza internazionale di scienziati. «Quando succederà dovremo avere in piedi una risposta coordinata che tenga conto di tutte le sensibilità delle parti coinvolte», ha teorizzato, spiegando che «l' Onu è una struttura già pronta per mettere in piedi tale meccanismo». Mentre l' Onu si prepara ad accogliere gli extraterrestri con la stessa diplomatica nonchalance riservata a leader quali il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e quello venezuelano Chávez - bollati come «marziani» dai media americani - molti hanno già ironizzato sul progetto, chiedendo che l' Onu si occupi prima della pace sulla Terra e poi delle relazioni interplanetarie. A frenare gli scettici sono arrivate però le testimonianze di sei ex ufficiali dell' aeronautica Usa che parlano di ripetute visite dallo spazio per disattivare i sistemi di difesa nucleare Usa. La «minaccia extraterrestre» citata da Ronald Reagan nel famoso discorso di fronte alla 42ª sessione dell' Assemblea generale Onu, nel settembre 1987, è stata in un modo o nell' altro riconosciuta da innumerevoli politici americani, dal presidente Jimmy Carter al Congressman democratico Dennis Kucinich e ciò giustificherebbe l' ansia Onu di coordinare la risposta a un eventuale «primo contatto», evitando che sia la superpotenza a farlo. Il problema è che anche la politica extraspaziale - come accogliere eventuali ET che bussassero alla porta della Terra - è già spaccata in due tra falchi e colombe. Secondo l' Outer Space Treaty del 1967, regolato dall' Unoosa, gli Stati membri dell' Onu si sono impegnati a proteggere la Terra contro la contaminazione di specie aliene, che dovranno essere «sterilizzate» prima di poter metter piede sul nostro pianeta. La Othman sarebbe fautrice di un approccio «più tollerante». Ma a metterla in guardia dai rischi di un eccessivo buonismo è, nientemeno, il professor Stephen Hawking. «Immagino che gli alieni possano vivere in enormi astronavi, dopo aver usato tutte le risorse dei loro pianeti - afferma il celebre matematico e astrofisico britannico - il risultato sarebbe molto simile a quello della scoperta dell' America da parte di Cristoforo Colombo. Che come tutti sanno non fu un lieto fine per i nativi americani». Alessandra Farkas RIPRODUZIONE RISERVATA **** Al cinema

Farkas Alessandra

Immigrazione, interpreti e processi


ROMA - Ora si spera nell’udienza del 30 novembre. Chissà se quel giorno il processo potrà cominciare. Perché, da quasi un anno, la paralisi è completa: manca un traduttore di cingalese. Dopo sei udienze volate via per motivi tecnici, «il 24 novembre 2009 - racconta l’avvocato Gianluca Arrighi - il tribunale ha convocato un interprete di inglese. Si è capito subito che non era il caso. E per l’udienza successiva, il 2 marzo scorso, ne è stato individuato uno che parlasse cingalese. Ma non si è presentato, così come è successo il 13 luglio». Così, il processo si è arenato. «Per il 30 novembre prossimo - prosegue arrighi -, il presidente del collegio ha sollecitato noi avvocati e la procura a rivolgersi all’ambasciata dello Sri Lanka». Provengono infatti da lì i protagonisti della storia. E non è che uno tra le migliaia di casi che ogni anno si verificano nei tribunali di Roma e di tutta Italia: la carenza di traduttori e il caos delle normative che regolano l'arruolamento di interpreti rischia di paralizzare oltre 30 mila processi.

INCOMPRESIBILI IN AULA - Secondo le statistiche diffuse dall'Aiti (associazione italiana traduttori e interpreti), che giovedì 30 settembre organizza a Roma un dibattito sul ruolo dell’ interprete nei processi, soltanto nel 2009 in Italia su un totale di 68mila detenuti 25mila erano stranieri: «Ciò significa che circa il 37% dei processi svolti nell’ultimo anno - sottolineano i traduttori - hanno visto coinvolto uno straniero che ha, o comunque avrebbe dovuto necessitare, del coinvolgimento di un interprete». Nel maggio scorso, l'Associazione Nazionale dei traduttori e Interpreti del Ministero degli Interni ha chiesto ai giudici che operano presso il Tribunale di Roma ad esprimersi sull’importanza degli interpreti durante i processi, perchè anche nel Tribunale penale più grande d’Europa l’utilizzo dei traduttori varia dal 10 al 30% dei casi sul totale dei processi civili, mentre la percentuale aumenta fino al 40%-50% quando si tratta di direttissime. Inevitabili i rinvii per mancanza di personale specializzato.


ATTORE MALMENATO - Parte lesa nell'ultimo dei procedimenti slittati per mancanza di interprete a Roma, è Kumara Thilak Jayaweera, l’attore più famoso dello Sri Lanka, malmenato e rapinato di 3.500 euro e di alcuni gioielli a piazzale Flaminio il 9 novembre 2007. E sono suoi connazionali i due imputati, Chanaka Ranga Weerasinhe, 30 anni, che lavora come corriere espresso, e Sampah Thushara Philips, 29 anni, portiere in un condominio.

POCHE VOCI DALL’ASIA - Magari la prossima volta il traduttore ci sarà, ma intanto si è perso un anno. «Va sempre così nei processi con i cingalesi - racconta Arrighi -. E pure in quelli con i cinesi. Credo che gli interpreti siano pochi, un problema che in passato c’è stato anche i traduttori filippini». Diversa è la situazione quando in aula ci sono rumeni, albanesi o arabi: «Allora l’interprete si trova nel giro di un’ora», spiega un altro avvocato, Fabrizio Gallo.

I NUMERI DI UN'EMERGENZA - A Roma la categoria degli interpreti ufficiali conta 180 iscritti all’albo del tribunale penale: italiani, rumeni, albanesi, polacchi, latino-americani, bulgari, siriani, egiziani, cittadini del Maghreb, bengalesi, indiani, afgani, senegalesi, nigeriani, cinesi e così via. Nel 70% dei casi si tratta di donne tra i 45 e i 50 anni, con un’esperienza tra i 3 e i 10 anni, come sottolineano i dati dell’Aiti, che nel convegno del 30 settembre al centro congressi Cavour chiederà al ministero della Giustizia di emanare «norme chiare e vincolanti sull'utilizzo degli interpreti nei tribunali». Sandra Bertolini, presidente di Aiti, sottolinea infatti quanto i sevizi resi dagli interpreti siano «misconosciuti» a fronte dell’obbligo, previsto nella Costituzione, di «garantire la tutela dei diritti degli indagati, delle vittime e dei testimoni». Che sono migliaia, perché in Italia, come si ricordava, solo tra i 68 mila detenuti finiti in carcere nel 2009, 25 mila sono stranieri. E gli arrestati in flagrante sono solo una parte.

RECLUTATI ALLA SBARRA - Gli stranieri ci sono anche negli altri dibattimenti, in tutto oltre 30 mila: 27.827 davanti al giudice monocratico e 2.581 in tribunale fino al 30 giugno scorso. Eppure manca «un sistema di reclutamento degli Interpreti valido per tutto il territorio nazionale». Presso molti Tribunali, ricorda l'Aiti, «non si viene iscritti nell'Albo dei Periti se prima non si è fatta l'iscrizione presso la Camera di Commercio, che funge da Albo, in quanto là si viene iscritti per titoli ed esami». Quando i titoli non sono sufficienti si deve passare un esame. A Roma, invece, attualmente «si presenta domanda d'iscrizione presso il Tribunale civile o il Tribunale penale senza passare per la Camera di commercio, ma questo non vale ancora per tutti i tribunali, primi fra tutti tribunali sensibili come Bari, Perugia e Caltagirone».

mercoledì 29 settembre 2010

Sondrio


SONDRIO - Si sono messi in fila per ricevere la Comunione, ma una volta davanti al sacerdote hanno preso l'ostia consacrata e l'hanno infilata nelle tasche. Quando poi alla fine della funzione, l'arciprete don Marco Zubiani si è avvicinato per chiedere spiegazioni i due protagonisti del gesto oltraggioso hanno risposto: "Tu chi sei per dirci cosa fare? Non ci comandi. Noi siamo di fede islamica e tu chi sei? Sei Dio tu?". E' successo ieri nella Collegiata, la chiesa principale di Sondrio, gremita per la messa serale, tra lo sbalordimento e il dolore degli altri fedeli.

"Sono stati proprio i parrocchiani a segnalarmi l'episodio" - spiega don Zubiani, originario di Sondalo e da soltanto un paio di settimane nuovo arciprete di Sondrio nominato dal vescovo di Como, monsignor Diego Coletti. Il prete, a celebrazione conclusa, si è avvicinato ai due, giovani, un accento da paese dell'est, ancora seduti sulle panche. "Volevo una spiegazione...", ha detto. E invece, sempre tra lo stupore degli altri fedeli, la derisione. "Chi sei tu? - hanno beffeggiato il sacerdote - Non vogliamo i tuoi rimproveri, noi siamo islamici". Poi se ne sono andati. Don Marco avrebbe voluto che l'episodio non avesse troppo eco. Ma sono stati i fedeli, testimoni dell'accaduto a raccontare tutto. "Non nascondo che l'episodio mi ha molto indispettito, ma è stato chiarito nella stessa serata, appena finita la Santa Messa - spiega il prete - Non avrebbe dovuto trapelare ai giornalisti e per questo avevo anche deciso di non presentare alcuna denuncia".

Ma a Sondrio, da tempo, è accesa la polemica perché la comunità islamica ha acquistato un'ex palestra per adibirla a moschea, ma nonostante i divieti e le mancate autorizzazioni a utilizzare i locali a luogo di preghiera l'andirivieni di immigrati è continuo. Vorrebbe gettare acqua sul fuoco il sindaco di Sondrio, il medico Alcide Molteni (centrosinistra). "Non esprimo considerazioni - si limita a dire il primo cittadino - fintanto che non avrò parlato con l'arciprete per apprendere direttamente da lui i dettagli di quanto accaduto ieri sera in Collegiata". "I fatti incresciosi avvenuti in Collegiata - commenta Francesco Violante, uno dei più vecchi politici valtellinesi del centrodestra - sono uno dei risultati prodotti dalla politica di tolleranza alle ripetute violazioni delle norme commesse dagli extracomunitari da parte della Giunta comunale di centrosinistra che non fa rispettare neppure i divieti imposti dai vigili del fuoco e le sentenze del Tar, che vietano l'utilizzo dell'ex palestra situata in un condominio, e non rafforza i controlli all'ex palestra ad opera della Polizia Locale".

08 Gen 2010

E’ possibile integrare i musulmani in Italia?

La presenza di un milione e mezzo di musulmani in Italia è una minaccia per l’identità italiana oppure una risorsa di dialogo, scambio culturale, integrazione di nuovi cittadini italiani in un paese come il nostro, dove gli anziani ormai sono più numerosi dei giovani? Ambedue i punti di vista hanno qualcosa di vero. Su tutto si può essere d’accordo (accoglienza, aiuto, fraternità, dialogo, confronto, scambio), il termine che fa difficoltà è “integrazione”: è possibile integrare pienamente nel popolo italiano una consistente minoranza musulmana, che tende ad aumentare per le continue immigrazioni e il tasso di crescita demografico? Si noti che nessuno fa difficoltà per integrare in Italia, con la concessione della cittadinanza italiana, immigrati dall’America Latina, dall’Europa dell’Est, dall’Africa nera e anche dai paesi asiatici come Filippine, India, Cina, Sri Lanka, Vietnam, ecc. Ma è possibile integrare nel popolo italiano immigrati musulmani in numero consistente? La storia ci dice che fin dall’origine dell’islam, un popolo musulmano non si è mai integrato, come consistente minoranza, in nessun paese non islamico. E’ un dato di fatto che non si può negare, non esistono casi contrari. L’esempio classico è quello dell’India. L’invasione e la conquista islamica dell’India inizia col Mahmud di Ghazna (997-1030) che occupa il Punjab, a cui seguono vari principi e condottieri, con la costituzione di altri regni islamici, fino al 1526 quando Baber, un discendente di Tamerlano, sconfigge il sultano di Delhi e dà origine all’impero Moghul (mongolo), che governa l’India fino al 1858. La colonizzazione inglese blocca l’islamizzazione del grande paese asiatico.

Per più di tre secoli popolazioni indù e islamiche, delle stesse etnie o razze e della stessa lingua, convivono negli stessi territori, ma assolutamente non si integrano. E quando nasce nel 1885 il “Partito del Congresso”, subito proclama la sua laicità, assicurando parità e libertà religiosa a tutti. Ma i musulmani creano la “All India Muslim League”, che infiamma il popolo islamico martellando lo slogan: “Fuori dall’India indù per restare fedeli all’islam”. Così i nazionalismi indiani che manifestano e lottano contro l’Inghilterra per l’indipendenza sono due, nonostante che grandi personalità come Gandhi e Nehru promettano ai musulmani piena libertà di diritti, come a tutte le minoranze religiose. Quando il 15 agosto 1947 l’Inghilterra si ritira, l’India si divide in due stati rivali, uno indù (India) e uno musulmano (Pakistan), che finora hanno combattuto tre guerre. Sappiamo cos’è successo in Kossovo e in Bosnia, dove popolazioni cristiane e musulmane non si sono assolutamente integrate dopo cinque-sei secoli di convivenza. E anche paesi liberi e democratici come Inghilterra, Francia e Olanda, che ospitano consistenti minoranze islamiche concedendo loro tutte le libertà e i diritti di cittadinanza, non riescono ad integrarle nei rispettivi popoli, ormai laicizzati al massimo e in grande maggioranza non più “praticanti” la fede cristiana. Anzi, figli e nipoti dei primi immigrati musulmani mezzo secolo addietro, o anche prima, oggi si scopre che almeno in parte sono seguaci dell’estremismo islamico. Il governo laburista di Gordon Brown ha di fatto riconosciuto la poligamia, riconoscendo gli assegni familiari ai musulmani poligami che sono sposati in paesi dove questa forma di matrimonio è permessa. Sono molti i fatti da citare, che dimostrano come la “Sharia” (legge islamica) sta penetrando ed è riconosciuta in paesi europei (che hanno una forte minoranza islamica). Nella stessa Inghilterra, ad esempio, i tribunali islamici della “Sharia” possono da anni legiferare e giudicare in tema di diritto familiare. E in Germania non pochi verdetti emessi dai tribunali tedeschi citano principi o consuetudini legate al diritto islamico. Ad esempio, un giudice di Dortmund ha stabilito che un padre può picchiare la figlia quindicenne che non vuole indossare il velo; e un altro di Francoforte, sempre facendo riferimento ad un passaggio del Corano, ha stabilito che il marito può picchiare la moglie, “in quanto ambedue sono musulmani”.

Questi sono dati di fatto di cui bisogna tener conto, per dare un giudizio sul tema che interessa oggi la politica italiana e rispondere all’interrogativo di fondo: è possibile “integrare” la consistente minoranza islamica nel nostro popolo, dando loro la cittadinanza italiana? Giovanni Sartori così conclude un editoriale su questo tema (“Corriere della Sera”, 20 dicembre 2009): “Illudersi di integrare (i musulmani) italianizzandoli è un rischio da giganteschi sprovveduti, un rischio da non rischiare”. Giudizio esagerato, ma che esprime una mentalità abbastanza diffusa. Però è anche vero che, dopo un certo numero di anni di residenza e di lavoro in Italia, non è possibile negare la cittadinanza ai lavoratori stranieri; e non è pensabile discriminare i musulmani dandola solo a quelli che sono cristiani o buddhisti o indù. Il problema, come si vede, è molto complesso. Che fare? Una risposta, almeno in teoria, forse esiste, ma vorrei prima sentire il parere di amici lettori. Scrivetemi, grazie e Buon Anno a tutti.

Piero Gheddo

Olanda


BRUXELLES — È la prima volta che accade dal lontano 1939, anno di inizio della seconda guerra mondiale, e per qualcuno questa coincidenza ha qualcosa di sinistro: dopo 111 giorni di trattative e 71 anni di solide maggioranze politiche, l’Olanda ha da oggi un governo di minoranza, minoranza di centro-destra, con l’appoggio esterno determinante di Geert Wilders e del suo partito anti-Islam. L’accordo finale è stato raggiunto ieri sera, in un clima di confusione generale. E attraverso tre passaggi successivi: primo, accordo bipartitico fra i cristiano-democratici di Maxime Verhagen (Cda) e i conservatori di Mark Rutte (Vvd); secondo, formazione del governo di minoranza (che si chiamerà appunto Verhagen-Rutte); terzo, accordi separati fra ciascuno dei due partiti e i populisti del Partito della Libertà (Pvv) guidato appunto da Geert Wilders; con preventiva contrattazione dei temi su cui Wilders dovrebbe accordare di volta in volta il voto di fiducia, facendo così da «stampella» (e probabilmente non a titolo di beneficenza). Quasi un miracolo funambolico all’italiana. E una cornice pragmatica, cioè depurata da troppe questioni di principio, tant’è vero che il cristiano-democratico Verhagen si ritrova già segnato a dito dal segretario generale del Consiglio delle chiese olandesi: «Questa è una operazione di prostituzione politica, un governo di destra penserà solo a far soldi infischiandosene dei valori umani, e chi gli dà il suo appoggio si prostituisce». Fra i cristiano-democratici, molti non nascondono la paura della convivenza con un personaggio poco controllabile come Wilders: sabato si riuniranno a congresso, non si esclude una spaccatura fra loro. Quanto allo stesso Wilders, alza di continuo la posta, ed è ben conscio di quel che ha ottenuto: «È un momento storico — ha dichiarato ieri — chi l’avrebbe detto, solo due anni fa, che un giorno avremmo avuto tanta influenza sul governo…». Fra pochi giorni, ad Amsterdam, l’uomo sarà processato per incitamento all’odio razziale («ci saremo anche noi, per solidarietà», annunciano gruppi di ultras del calcio da tutta l’Europa) e nell’attesa si prepara a tenere un comizio anti-Islam a Berlino. «Questo nuovo governo è il peggiore che potesse uscire da mesi di trattative», tuona il leader laburista Job Cohen. Ma egli stesso, alle elezioni di giugno, era stato umiliato (30 seggi contro i 31 di Rutte e i 23 di Wilders). Fin dal primo momento, era stato chiaro che senza Wilders non si sarebbe andati da nessuna parte. E chiaro, o quasi, è adesso ciò che Wilders chiederà, in cambio della sua «stampella» politica: nuove leggi anti-Islam, blocco delle immigrazione musulmana in tutto l’Occidente (su questo tema ha già lanciato un’alleanza internazionale in 5 Paesi), ed espulsione degli immigrati Rom.

Paceamoretolleranza, islam


VICENZA - Costretta dalla famiglia, a poco più di 20 anni, a sposare un uomo conosciuto solo tre giorni prima del matrimonio, ha dovuto subire le angherie della madre e della sorella del marito, il quale non ha esitato a picchiarla, violentarla e segregarla in casa. Samia (il nome è di fantasia, a tutela della vittima), una giovane di origine marocchina, è riuscita però a fuggire dalla prigionia di quell’appartamento nell’Alto Vicentino e a chiedere aiuto ai carabinieri. Ora il marito è stato indagato per violenza sessuale, sequestro di persona e lesioni. Samia, oggi, ha ricominciato un’altra vita, da persona libera. La disavventura di questa giovane e coraggiosa donna, ha inizio poco più di un anno fa, in Marocco, quando i genitori decidono, dopo il matrimonio della primogenita, che è giunto il momento di sistemare anche la seconda di sei figlie femmine. Samia accetta il volere della famiglia, che l’ha promessa in sposa a un uomo di dieci anni più grande di lei e che le viene presentato solo tre giorni prima delle nozze.

Dopo il matrimonio, la donna lo segue in Italia, nella casa dove lui già viveva con la madre e la sorella, in provincia di Vicenza. La solitudine in un paese sconosciuto spinge Samia a scrivere un diario, che ora è in fase di traduzione perché oggetto di indagine, a cui affida i suoi pensieri e le sue emozioni: «Ho fatto questa scelta. Era importante per i miei genitori. Ora voglio solo essere una brava moglie», scriveva. La convivenza con la famiglia del marito, però, si fa subito difficile. Rivalità tra donne nel contendersi il focolare domestico e il bisogno di ristabilire i ruoli in casa sono forse all’origine delle continue critiche rivolte alla neosposa. Suocera e cognata, infatti, la rimproverano di non essere all’altezza dei suoi compiti, di non saper fare nulla. Stanca, Samia confida al marito la sua difficoltà e il malessere per i continui rimproveri. La sua richiesta d’aiuto viene però interpretata dal marito come un segno di ribellione della giovane moglie alle giuste regole di comportamento. Così come la sua richiesta di imparare la lingua italiana. Cominciano così le botte e i maltrattamenti, intesi dall’uomo come strumento per rimettere in riga Samia e insegnarle ad essere più remissiva. Per nove mesi Samia accetta in silenzio, impara l’italiano di nascosto prendendo appunti dalla televisione, cerca di evitare litigi. Fino a una sera ai primi di giugno, quando la donna rifiuta di fare l’amore col marito. L’uomo la picchia. Sberle e pugni al viso. La costringe con la forza ad avere un rapporto sessuale, ignorando le sue lacrime. Poi la chiude a chiave in casa per diversi giorni. Forse perché spera che segregandola nessuno possa vedere i lividi ed evitare che lei possa denunciare l’accaduto. Per Samia è troppo. Riesce a fuggire. Lo denuncia ai carabinieri, che le indicano un’associazione. Ora Samia vive presso una famiglia disposta a ospitarla. Ha trovato un lavoro. E la serenità lontana da quell’uomo.

Romina Varotto

Unione europea vs Francia


BRUXELLES - La Commissione Ue ha preso «la decisione di principio» di aprire una procedura d'infrazione contro la Francia per mancato rispetto della legge europea sul caso dello smantellamento dei campi Rom.

LA LETTERA - Bruxelles di conseguenza invierà una lettera di messa in mora, ovvero il primo passo della procedura di infrazione, a Parigi per invitarla a prendere provvedimenti in materia. La lettera dovrebbe essere inviata nel corso del mese di ottobre insieme al pacchetto delle altre procedure di infrazione che la Commissione apre mensilmente ma, ha precisato la portavoce della Commissione europea, la missiva potrebbe non essere inviata se la Francia fornirà a Bruxelles un calendario preciso con misure dettagliate entro il 15 ottobre.

ALTRI PAESI NEL MIRINO - La Commissione europea sta anche analizzando la trasposizione della direttiva del 2004 sulla libera circolazione anche negli altri Stati membri dell'Unione e, «se sarà il caso» invierà altre lettere di messa in mora a quei Paesi che a suo giudizio non dovessero rispettare la normativa Ue.

Terrorismo islamico


ROMA - Una serie di attacchi per colpire, in modo coordinato, alcune delle principali città europee. Questo il progetto, sventato, di un gruppo terroristico con base in Pakistan, secondo quanto rivelano fonti dell'intelligence britannica citate da Sky News. Nel mirino ci sarebbero state la Gran Bretagna, la Germania e la Francia. Obiettivo dei terroristi, ripetere su larga scala quanto accaduto nel 2008 a Mumbai, quando un commando del gruppo Lashkar-e-Taiba - anch'esso composto da una decina di pachistani - uccise 166 persone in una serie di attacchi nella città indiana.

La notizia, diffusa dalla rete all news di Rupert Murdoch, arriva a poche ore dall'ennesimo allarme bomba 1, rivelatosi poi falso, a Parigi, in seguito al quale - una telefonata anonima - per circa due ore è stata evacuata la Tour Eiffel. Secondo le fonti citate da Sky News, gli obiettivi sarebbero stati Londra (già teatro del drammatico attacco del 7 luglio del 2005) e altri grandi città della Germania e della Francia.

"Il piano era a buon punto - dice Tim Marshall di SkyNews - ma la sua realizzazione non era imminente". I sospetti erano "seguiti da tempo" dagli agenti dei servizi di Londra, Berlino e Parigi, con la collaborazione degli Stati Uniti che, sempre secondo la stessa fonte, per primi avevano avvertito i colleghi del pericolo. Per questo, prosegue Marshall, "i militari americani nelle ultime settimane avevano iniziato a colpire più intensamente i sospetti in Pakistan, nella regione del Waziristan" dove, ricorda Sky News, si sono registrati venti attacchi con droni (gli aerei senza pilota) negli ultimi trenta giorni.

martedì 28 settembre 2010

Non avere niente da fare...


SONDRIO, 28 SET- Alla messa serale di ieri, a Sondrio, due giovani di fede islamica al momento della comunione hanno preso l'ostia e l'hanno messa in tasca. Al termine della funzione religiosa alla Collegiata, la chiesa principale della citta', l'arciprete, si e' avvicinato per chiedere spiegazioni e stigmatizzare il gesto oltraggioso. I due hanno ribattuto di essere islamici e di non essere disposti ad accettare rimproveri da un sacerdote: 'Tu chi sei per dirci cosa fare? Mica sei Dio tu'.

Coop


ROMA - Il coccodrillo verde era proprio uguale. La caratteristica maglia di cotone pure. Solo che con la famosa griffe francese le polo sugli scaffali avevano davvero poco a che fare. Soprattutto per il prezzo, troppo basso rispetto all'originale. Così la Coop dovrà sborsare oltre trentamila euro per risarcire il colosso francese Lacoste: contraffazione e concorrenza sleale le accuse.

FALSO IN VENDITA - Il Tribunale civile di Perugia ha infatti condannato la Coop Centro Italia che commercializzava false polo Lacoste nel centro commerciale Ipercoop di Collestrada, ai piedi di Perugia. La causa è stata intentata nel 2002 dalla Lacoste, rappresentata dagli avvocati del Foro di Milano Giovanni Iazzarelli e Giorgio Valli. La società francese, dopo alcuni controlli nel maggio del 2002, aveva notato che nel centro commerciale erano in vendita «sottocosto» maglie col coccodrillo prive «dell'abituale busta in plastica del prodotto originale». Una consulenza tecnica disposta dal giudice civile ha rilevato la «non autenticità del prodotto» con differenze riguardo al «titolo del filato (...) all'intreccio del tessuto, alle cuciture» e anche «alla grandezza» e alla «posizione del logo».

«CONDOTTA ILLECITA» - Il giudice ha riconosciuto la condotta illecita di Coop Centro Italia, accogliendo le istanze della Lacoste sulla «repressione della concorrenza sleale» e a «tutela del marchio». Coop Centro Italia dovrà pagare a Lacoste circa 12mila euro per il danno economico e 20 mila euro per il «danno da sviamento di clientela, discredito commerciale, deprezzamento del marchio». Il magistrato ha anche ordinato la distruzione delle magliette «taroccate».

lunedì 27 settembre 2010

... Bagnasco e le sue prediche


ROMA - Un avvertimento, e poi un invito. Li ha espressi il card. Angelo Bagnasco aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei. Il primo: «I personalismi bloccano l'intero paese». Il secondo: «E' il momento di mettere in campo un supplemento di reciproca lealtà e una dose massiccia di buon senso per raggiungere il risultato non di individui, gruppi o categorie, ma del Paese». Per efficaci processi di riforma - ha aggiunto il cardinale - occorre «avviare meccanismi di coinvolgimento e di partecipazione non fittizi», e rendersi conto che «la fiducia che i cittadini esprimono verso chi li rappresenta è un onore e una responsabilità che non ammette sconti di nessun tipo».

«ANGUSTIATI PER L'ITALIA» - Bagnasco ha sottolineato che i vescovi sono «angustiati per l'Italia» ed esprimono «grande sconcerto e acuta pena per discordie personali che, diventando presto pubbliche, sono andate assumendo il contorno di conflitti apparentemente insanabili», e si sono fatte «pretesto per bloccare i pensieri di un'intera nazione, quasi non ci fossero altre preoccupazioni, altri affanni».

MONITO SUL FEDERALISMO - Il cardinale ha anche espresso un monito sul federalismo. La riforma è irreversibile ma essa «non deraglierà se potrà incardinarsi in un forte senso di unità e indivisibilità della Nazione: il tricolore è ben radicato nel cuore del nostro popolo».

Nomadi


Milano - "Nessuna delle famiglie che saranno allontanate dai campi nomadi regolari di Milano e che hanno i titoli per restare in città, saranno ospitate in alloggi popolari, come originariamente previsto nel piano per l’emergenza rom". Lo ha annunciato il ministro dell’Interno Roberto Maroni al termine di un vertice in prefettura a Milano. "Il campo rom di Triboniano verrà chiuso - ha affermato Maroni - e chi stava dentro e ha i titoli per restare in città avrà una sistemazione, escludendo l’utilizzo di case Aler (di edilizia residenziale pubblica) o nella disponibilità del patrimonio immobiliare del Comune".

La linea dura. Poi il ministro sposa la linea Sarkozy. "Proporrò al governo e al parlamento che ci venga data la possibilità di espellere i cittadini comunitari se non hanno i requisiti previsti dalla direttiva europea del 2004" spiega Maroni ricordando che questa innovazione legislativa è particolarmente urgente visto che all’inizio del prossimo anno paesi come la Romania sono destinati ad entrare nell’are Schenghen. Il ministro dell’Interno riconosce la necessità di una nuova normativa per applicare concretamente nel territorio italiano quanto previsto dalla direttiva europea del 2004 che disciplina il soggiorno dei cittadini comunitari negli altri stati membri dell’Unione europea. "Serve una innovazione legislativa che ho in animo di prendere - ha spiegato il ministro dell’Interno - per applicare concretamente gli obiettivi della direttiva europea del 2004".

I requisiti. Il principio che ispirerà l’intervento legislativo del Viminale è quello di trovare strumenti efficaci per allontanare tutti i cittadini che non hanno un reddito e un lavoro sufficienti per il proprio mantenimento e contemporaneamente garantire percorsi di accoglienza e integrazione con chi, avendo invece i titoli per restare, si impegna a rispettare le regole della convivenza civile. "Occorre un segnale netto - ha osservato Maroni - anche in vista di scadenze importanti, come l’allargamento dell’area Schengen alla Romania, e il sistema da predisporre sarà basato su due aspetti: il rigore, ovvero rimane soltanto chi è nelle condizioni per poter rimanere e rispetta le regole, e poi l’accoglienza e l’integrazione".

L'imbecille

Perchè difendo l'uso del burqa di Martha Nussbaum

Martha Nussbaum, (New York, 6 maggio 1947), è una filosofa statunitense, studiosa di filosofia greca e romana, filosofia politica ed etica. Attualmente è Ernst Freund Distinguished Service Professor di Diritto ed Etica presso l'Università di Chicago, cattedra che include impieghi al Philosophy Department, alla Law School e alla Divinity School. Tiene inoltre corsi sui classici e sulle scienze politiche, è membro del Committee on Southern Asian Studies, ed è membro esterno del Human Right Program. Ha precedentemente insegnato all'Università di Harvard e alla Brown University, dove ha ottenuto il titolo di professore universitario. Nussbaum cerca, senza successo, di convincere il lettore che portare il burqa sia una libertà dell'individuo e che, per questo, sia sbagliato vietarlo. Nel suo articolo, Nussbaum elenca cinque motivazioni addotte da chi desidera che il burqa venga vietato e cerca di confutarle. Per quanto riguarda le prime due, entrambe legate a problemi di sicurezza, Nussbaum non scrive una confutazione. La terza motivazione è legata al burqa come simbolo di discriminazione e segregazione della donna. Nussbaum risponde: "Ma la pecca più lampante consiste nel fatto che la nostra società è piena di simboli della supremazia maschile che trattano la donna come un oggetto. Riviste erotiche, foto di nudo, jeans attillati: tutti questi prodotti possono essere tacciati di ridurre la donna a un oggetto, così come la stessa accusa può essere rivolta a molteplici aspetti della nostra cultura mediatica. Che dire della «degradante prigione» della chirurgia plastica?". Nussbaum ritiene che jeans attillati e burqa siano la stessa cosa, discrimininino la donna. Non entriamo nel merito della sua affermazione, facciamo solo notare che, in Occidente, i jeans attillati li mettono solo le donne che desiderano farlo, non sono obbligate a farlo. Non è possibile sostenere lo stesso per chi indossa il burqa. Lo stesso discorso vale per la chirurgia plastica. Nessuno è sottoposto a interventi chirurgici del genere contro la propria volontà, per questo è impossibile paragonarli al burqa.Nussbaum continua : "Una quarta argomentazione è quella secondo cui le donne indosserebbero il burqa solo perché costrette. È una tesi abbastanza non plausibile da generalizzare". Il burqa come imposizione, secondo Nussbaum, è una tesi non plausibile, ma non specifica in base a quali elementi possa sostenere il contrario. Nussbaum scrive, nel suo articolo: "Partiamo da una considerazione ampiamente condivisa: tutti gli esseri umani sono uguali e hanno la medesima dignità". Una tesi giusta e condivisa. Vietare il burqa significa essere coerenti con questa tesi. Il burqa non è un abito folkloristico, ha a che vedere con la discriminazione della donna e con l'integralismo religioso. Stupisce che a sostenere la tesi maschilista secondo la quale portare il burqa sarebbe una libertà sia proprio una donna, anche se, ormai, registriamo che, visti i suoi silenzi, il movimento femminista è defunto, appartiene al passato.

Ai primi di luglio, in Spagna, il parlamento catalano ha respinto per pochissimi voti una proposta di legge che avrebbe vietato il burqa musulmano in tutti gli spazi pubblici, capovolgendo l´esito del voto espresso una settimana prima dal Senato a favore del divieto. Proposte analoghe potrebbero diventare presto legge in Francia e in Belgio. Perfino il foulard è spesso fonte di problemi. In Francia, le ragazze non possono indossarlo a scuola. In Germania (così come in alcune zone del Belgio e dell´Olanda) in diverse regioni alle insegnanti di scuola pubblica è proibito portarlo in classe, malgrado a preti e suore sia consentito insegnare con l´abito talare. (...) Partiamo da una considerazione ampiamente condivisa: tutti gli esseri umani sono uguali e hanno la medesima dignità. Pressoché ovunque si concorderà sul fatto che i governi devono rapportarsi a tale dignità con immutato rispetto. Ma cosa vuol dire trattare la gente con lo stesso rispetto in ambiti che hanno a che fare con le credenze e l´osservanza religiosa? Aggiungiamoci allora un´ulteriore premessa: la facoltà attraverso cui l´uomo ricerca il significato ultimo dell´esistenza - facoltà comunemente denominata "coscienza" - è una componente fondamentale della persona, strettamente legata alla sua dignità. E a questo punto possiamo puntualizzare con un´altra premessa ancora, che potremmo chiamare la "premessa della vulnerabilità": tale facoltà, infatti, può essere gravemente compromessa da condizioni ambientali globali ostili. (...).

Generalmente a favore delle proposte di legge che presuppongono il divieto vengono sostenute cinque argomentazioni. Vediamo se esse trattano tutti i cittadini con uguale rispetto. La prima riguarda il fatto che per esigenze di sicurezza gli individui devono mostrare il volto quando frequentano luoghi pubblici. La seconda, strettamente correlata alla prima, sostiene che la trasparenza e reciprocità proprie dei rapporti tra concittadini verrebbe minata dall´abitudine di coprirsi parte della faccia. (...) Il terzo punto, di gran rilievo attualmente, è che il burqa sia un simbolo di dominazione maschile che rappresenta l´oggettivazione della donna (vista non più come persona, ma come mero oggetto). Un legislatore catalano di recente l´ha definito una «prigione degradante». La prima cosa da dire riguardo a tale tesi è che coloro che generalmente la sostengono non sanno molto dell´islam e sicuramente non sono in grado di affermare cosa simboleggi cosa in tale religione. Ma la pecca più lampante consiste nel fatto che la nostra società è piena di simboli della supremazia maschile che trattano la donna come un oggetto. Riviste erotiche, foto di nudo, jeans attillati: tutti questi prodotti possono essere tacciati di ridurre la donna a un oggetto, così come la stessa accusa può essere rivolta a molteplici aspetti della nostra cultura mediatica. Che dire della «degradante prigione» della chirurgia plastica? (...)

Una quarta argomentazione è quella secondo cui le donne indosserebbero il burqa solo perché costrette. È una tesi abbastanza non plausibile da generalizzare. (...) In ultimo, ho sentito anche l´argomentazione secondo cui il burqa sarebbe di per sé non salutare, perché caldo e scomodo (non sorprende che tale tesi sia stata avanzata in Spagna). Mi sembra forse la più stupida di tutte. (...) Tutte e cinque le argomentazioni che ho riassunto sono discriminatorie. Non dobbiamo neanche scomodarci a toccare la delicata questione del compromesso su basi religiose per renderci conto che sono profondamente inaccettabili in una società dedita alla libertà e all´uguaglianza. Il pari rispetto di tutte le coscienze ci impone di rifiutarle.

Islam d'amore


Sono passati dieci anni. Una lunga parentesi di silenzio, di oblio per Erica, la bambina che aveva avuto il coraggio di sfidare non solo suo padre ma anche le convenzioni dell’Islam rifiutandosi di accettare la separazione dalla madre imposta da un tribunale del Kuwait. Erica scappò di casa il 16 gennaio del 2000, una fuga mirata, rifugiandosi nelle sale austere dell’ambasciata italiana a Kuwait City dove l’ambasciatore Capece Galeota venne travolto da questa ragazzina, dalla sua storia e da un incidente diplomatico che scomodò le diplomazie di tre paesi: Italia, Kuwait ed Egitto. Il 9 agosto un aereo della presidenza del Consiglio la riportò in Italia, un «rapimento» per motivi umanitari su cui c’era l’accordo del Kuwait. Oggi quei giorni sono lontani, ma la fuga di questa ragazzina, di sua sorella e di sua madre non è ancora finita. Mi emoziono quando sento la voce di Stefania, la mamma, al telefono.

L’ho cercata per tanto tempo ma era come se lei e le bambine fossero state inghiottite dal nulla. Nessuna traccia di loro a Banchette di Ivrea, nella casa dei nonni, due persone speciali che hanno combattuto a fianco della figlia e delle nipoti. Possibile che dopo dieci anni la paura non abbia ancora lasciato spazio a una vita normale? Mi ricordo la prima volta che vidi nell’ambasciata di Kuwait City. La faccia da adolescente smunta dal non mangiare, una protesta silenziosa che l’ha portata alle soglie dell’anoressia, quegli occhi decisi, neri, profondi di chi sai che non mollerà. E Stefania, la mamma, avvolta da abiti che non lasciavano intravedere neanche un lembo di pelle, come l’Islam impone, La figlia più piccola, Marta, di otto anni, abbarbicata al collo, decisa a tutto pur di non separarsi dalle figlie. Oggi quella determinazione la ritrovo in una voce che racconta senza vittimismo quel che è stato la loro vita, da allora. «Vorrei che non si parlasse più di noi, vorrei essere dimenticata».

Forza e paura si mescolano in questa voce che parla da un luogo protetto. E nonostante tutto, nonostante questi dieci anni passati a dimenticare, le due ragazze sono serene. Erica ha compiuto a febbraio scorso 23 anni, si sta per laureare ed è bellissima come allora, con quei profondi occhi neri che parlano delle sue origini, mentre Marta ha compiuto da poco 18 anni e dell’odissea vissuta insieme alla mamma e alla sorella, ricorda poco. Qualche bagliore del passato, qualche faccia come quella di Stefano de Leo, consigliere dell’ambasciatore, figura chiave nella risoluzione della vicenda. «Ma per il resto non ricorda nulla meglio così», dice Stefania. Per Erica è diverso e i frammenti di quello che è stato hanno formato la donna forte che è oggi, decisa a essere quello che vuole e non quello che altri avevano deciso per lei. Il padre Hesham Aboulnaga non lo vede da allora. Ha perso la patria potestà su di loro, si è risposato, ha un’altra figlia, vive in Egitto. Non ha accettato la scelta delle figlie e chissà se un giorno ci sarà un incontro su nuovi basi che parlano di affetto e non di costrizioni. Non è stata facile per queste tre donne che mai hanno ricevuto una lira di alimenti. Ma la libertà era più importante. «Dobbiamo andare tutte avanti», dice Stefania che adesso ha un compagno che la ama. «Per fortuna ho un’altra vita e con me le ragazze». Lo aveva promesso quando il 9 agosto di dieci anni fa era tornata in Italia. E così è stato, le tre donne da allora hanno vissuto in diversi posti, ma non si sono mai separate, neanche adesso che Erica è una donna in gamba con una perfetta conoscenza dell’inglese e la voglia di farsi strada nella vita. Una vita blindata che è iniziata con la fuga ma che è continuata anche dopo, quando Stefania ha prima voluto mettere al servizio di tutte le donne la sua esperienza, scrivendo un libro («L’Infedele») e poi ha deciso di aprire un blog per raccontare la parte più buia e integralista dell’Islam, le comunità di convertiti in Italia, la condizione delle donne. Un blog molto frequentato che le ha causato non pochi problemi. «Sono state insultata, minacciata, soprattutto dopo che Maria Giovanna Maglie ha raccontato di questo mio angolo virtuale. Da allora il blog è aperto ai commenti ma io mi sono presa un momento di pausa». Questo non è bastato comunque a farla tornare ad essere una donna libera dalla paura. «Mi raccomando non scrivere niente che possa farci trovare». E come un mantra questa frase, una cisti dolorosa nella normalità conquistata a caro prezzo. Anni in cui tranne che per il lancio del libro non ha mai accettato un invito in televisione.

Una rapida visita ai blog che parlano di Islam e si capisce il perché Stefania abbia paura. Gli insulti e il disprezzo su di lei si riversano dai post in rete. Impossibile quindi mettere radici. In dieci anni sono stati diversi i traslochi. «Ma Erica e Marta sono sempre state bene perchè erano insieme e con me». Anche il disturbo alimentare dell’adolescenza è solo un ricordo per Erica che in questi anni ha dovuto rinunciare anche a tutti quegli strumenti di comunicazione comuni per i teen ager, come Msn e Facebook. «Non ha nessun contatto con l’Islam», racconta Stefania, «come se fosse stata sempre qui in Italia, si è adattata subito». D’altronde la vita che faceva in Kuwait era ben diversa da quella delle coetanee italiane. «Solo scuola e casa». Dieci anni difficili ma pieni di calore. In pochi hanno teso una mano, ma Stefania è orgogliosa: «Non abbiamo bisogno di niente». La stessa frase di dieci anni fa quando l’unica cosa che chiedeva era avere con se le figlie. Le ha avute. E’ iniziata la loro storia, che non è stata una fiaba, ma ha il sapore della libertà.

Punti di vista


Dopo l’11 Settembre il mondo arabo e musulmano è diventato protagonista assoluto delle cronache occidentali, com’era già successo in passato ogni volta che l’Europa ha patito la pressione dell’imperialismo islamico. Di quel mondo, che poi sono più mondi, abbiamo scrutato fin nel dettaglio i mali oscuri, il fondamentalismo religioso, le tirannie, il modo a volte ripugnante di trattare le donne, i gay, i giovani, gli apostati e le minoranze che non possono difendersi. Sempre di più, nei Paesi occidentali si è diffusa la paura verso la potenza generativa del mondo musulmano, nei confronti degli immigrati che giungono nei “paesi ricchi” talvolta cercando una difficile integrazione altre volte imponendoci il loro stile di vita. Reclusi con il loro assenso nei ghetti metropolitani, i nuovi arrivati non hanno turbato le coscienze dei benpensanti che, anzi, difendono questa separazione col brevetto del multiculturalismo. Dell’Islam si è scritto e detto di tutto, spesso confondendo artatamente le questioni legate alla nostra sicurezza con l’immagine del musulmano – kalashnikov in una mano e Corano nell’altra, come se nell’esistenza di questi popoli ci fosse spazio soltanto per l’odio e la violenza. Non dovremmo esagerare con la “grande minaccia” perché l’Orientalismo, una certa rappresentazione forzosa del mondo musulmano, ideologizzata quanto mediatizzata, è come un macigno che seppellisce ogni altra questione culturale, politica e strategica del futuro. La guerra ad Al Qaeda non è finita, e forse un giorno non troppo lontano l’Europa conoscerà – come ha giù sperimentato episodicamente – la sollevazione dei giovani arabi che odiano o provano risentimento verso la cultura e la storia dei Paesi che li ospitano; ma non vanno sottovalutate le condizioni degradanti in cui si trovano a vivere, tra povertà e clandestinità, mentre di fronte a loro scintilla illusoria e a portata di mano quella “grande opportunità” che le democrazie occidentali non riescono più a garantire neppure ai loro figli.

La futurologia è a volte un esercizio senza prospettive perché si stacca dalla storia passando sul piano enigmatico del vaticinio; ciò nonostante bisogna chiedersi come cambierà il mondo da qui alla metà del XXI secolo. Siamo proprio sicuri che tutto si ridurrà a un copione già scritto? Un Islam straripante che non si fermerà a Vienna o in Andalusia ma diventerà la principale religione europea, scalzando il Cristianesimo; la lunga decadenza dell’Occidente pronto a ricorrere continuamente alle armi per difendere la propria essenza e le sue ricchezze; l’emergere di nuove potenze come la Cina, il Brasile o l’India, che in realtà sono già emerse da tempo. Scenari di cui si legge abitualmente anche se le cose potrebbero andare diversamente, ecco tutto. Primo. Verrà il momento in cui anche nel mondo arabo e musulmano sorgerà una classe media “pop” simile a quella dominante nelle democrazie occidentali. La borghesia global è una cerchia di persone, non proprio ristretta, che condivide le stesse esigenze di benessere, lavoro, progresso. Un gruppo umano tendenzialmente pacifico. Quando i tassi demografici delle famiglie arabe e musulmane inizieranno a scendere, si ridurrà anche il peso delle grandi migrazioni. Le donne avranno più tempo per istruirsi e conquistare i propri diritti, riequilibrando la loro posizione all’interno di una società ancora profondamente patriarcale. I giovani si ribelleranno a forme di autoritarismo che oggi non sarebbe esagerato definire medievali.

La rivoluzione verde la faranno, se ci riusciranno, proprio i cittadini del mondo arabo, trovando una originale sintesi fra modernità, fede e sviluppo economico. Il grande capitale internazionale insieme alle idee di democrazia e libertà occidentali dovrebbero favorire, se non altro per interesse, questi processi già in corso. La globalizzazione non è ancora finita e se c’è un paese che l’ha capito più di altri è la Turchia di Erdogan, l’esempio più vicino a una “democrazia islamica” che può venire in mente. Ankara sta assumendo un profilo geopolitico sempre più autonomo, allontanandosi dall’Europa per badare ai suoi interessi post-imperiali, dai Balcani al Caucaso, passando per Gaza. L’episodio della Flottilla da questo punto di vista appare emblematico anche se, in fin dei conti, meglio l'espansionismo di Erdogan che il nucleare di Ahmadinejad. Secondo. L’Islam non può corrompere e corrodere lo “spirito occidentale” semplicemente perché l’Occidente non si trova sull’orlo dell’abisso o all’ultima fermata della sua civiltà. La Polonia, per fare un esempio, è uscita dal disastro di Katyn senza incrinare di un millimetro la propria stabilità democratica ed è attualmente uno dei membri UE con i tassi di crescita più alti. Giovane, cattolica, “atlantica” nonostante il tradimento del Presidente Obama sullo scudo spaziale, Varsavia ha tutte le carte in regola per entrare nel club delle capitali che contano.

Anche gli Stati Uniti vengono dipinti spesso come un Paese allo sbando, in declino, sul viale del tramonto. In realtà gli Usa sono diventati solo di recente una superpotenza. Prima della Seconda Guerra mondiale gli americani non si curavano troppo di come andassero le cose oltreoceano, tranne quando i loro interessi venivano minacciati; dopo aver sconfitto il Nazifascismo, la Guerra Fredda impedì all’America di trionfare. A pensarci bene è solo dagli anni Novanta che gli Stati Uniti sono diventati “la” superpotenza che conosciamo, in grado di dettare le leggi dell’economia e del sistema monetario e finanziario, dotarsi di una forza militare senza rivali, grazie agli enormi passi avanti fatti nel campo delle scienze e della tecnologia. Nonostante le cicliche e distruttive crisi di rigetto, la democrazia capitalista gode di buona salute se paragonata ad altri posti della Terra ed è ancora un modello in grado di affascinare chi è a corto di libertà.

Terzo. Il mondo cambia così velocemente che si fatica a distinguere i nuovi dai vecchi avversari. Fino a qualche tempo fa la Russia sembrava cadere a pezzi, oggi invece è di nuovo rispettata, se non temuta, nonostante tassi di natalità e condizioni di vita da far spavento. Una progressiva apertura democratica del Paese, insieme al vantaggio di essere il ‘granaio energetico’ dell’Europa, potrebbero ridare a Mosca le aspirazioni egemoniche di un tempo, almeno nella sua attuale sfera di influenza (una partnership con Algeri sull'energia sarebbe il colpo di grazia per Bruxelles). Si parla tanto della Cina, l’altro grande gigante demografico, una sorta di versione alla Blade Runner della globalizzazione, ma anche Pechino corre dei rischi per colpa della sovrappopolazione, dell’urbanesimo selvaggio, della miopia verso la questione ambientale, delle tensioni centrifughe a carattere etnico o religioso che potrebbero minare la sua integrità territoriale. Nascosto nelle pieghe dei corsi e ricorsi storici c’è piuttosto il Giappone. Anni fa il toyotismo sembrava aver seppellito il sistema industriale occidentale, oggi il “pacifico” impero del Sol Levante ha una delle più grandi marine militari del mondo... L’Islam non deve trasformarsi in una fissazione. Nel 2050 l’America potrebbe confrontarsi e ingaggiare potenze che attualmente le sono amiche. Qualcuno ha evocato un attacco congiunto in grado di paralizzare e distruggere i satelliti che determinano la superiorità americana nelle comunicazioni e quindi la loro forza militare. Sarà fantascienza ma esercitarsi su scenari del genere ci aiuta per un attimo a ridimensionare il pericolo di Bin Laden, consegnando "gli Islam" al giusto posto che gli spetta nella storia, senza tante esagerazioni.

domenica 26 settembre 2010

Luca Cordero di Montezemolo vs Bossi


MILANO - Duro attacco a Umberto Bossi da parte di Italiafutura, l'associazione vicina a Luca Cordero di Montezemolo. Un articolo firmato da Carlo Calenda e Andrea Romano, pubblicato sul sito dell'associazione, accusa il leader della Lega Nord di limitarsi a lanciare «proclami e provocazioni» e di non fare nulla di concreto per il Paese. «I fatti di chi produce e le parole (e gli insulti) di chi ha fallito» è il titolo dell'editoriale: la Lega viene ritenuta «corresponsabile di 16 anni di non scelte, che hanno portato il Paese a impoverirsi materialmente e civilmente». Quindi gli autori si scagliano contro «la classe politica screditata, di cui gli italiani hanno piene le tasche». Sabato il leader della Lega aveva polemizzato con la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia che si è rivolta al governo perché faccia qualcosa di concreto prima che si esaurisca la pazienza dei cittadini e delle imprese. «È facile parlare in questo che è un Paese dove molti parlano e pochi sanno cosa fare - le ha risposto indirettamente Bossi -: questo governo ha dimostrato di saper fare ed è quindi già qualcosa in mezzo a tanti parlatori».

«LEGA CORRESPONSABILE» - «Ha ragione Bossi. È facile parlare e più difficile agire. Bisogna ascoltarlo quando discetta sul valore dei proclami perché si tratta di un vero esperto in materia - è la stoccata di Italiafutura -. Negli ultimi sedici anni Bossi ha costruito il successo della Lega sul lavoro di organizzazione del partito ma anche sulle provocazioni (e ultimamente anche su qualche gesto). Di fatti invece se ne sono visti ben pochi. Se non la corresponsabilità della Lega in questi sedici anni di non scelte che hanno portato il Paese a impoverirsi materialmente e civilmente. Anche sul fronte delle rivendicazioni specifiche del suo elettorato Bossi ha combinato ben poco (guardare alle promesse sul federalismo per credere). Dubitiamo infatti che i suoi elettori l'abbiano mandato in Parlamento per difendere Cosentino o Brancher Ha ragione Bossi: in Italia (e in particolare nella sua Padania immaginaria) la chiacchiera va per la maggiore e delle parole a vanvera di una classe politica screditata gli italiani ne hanno piene le tasche. In particolare quelli che lavorano e producono (e al convegno di Genova della Confindustria ce n'erano tanti). Quegli italiani che, a differenza di Bossi, tengono in piedi il paese con i fatti e non con le parole».

Ahahahah, che ridere Montezemolo... Io lo dico sempre; meglio tacere e dare l'impressione d'essere scemo, piuttosto che aprire la bocca e togliere (sempre) ogni dubbio. Montezemolo (come tanti altri), perde sempre l'occasione per tacere. 

Il discorso...


Difesa, accusa, appello. Tre livelli sui quali Gianfranco Fini imposta il videomessaggio e gioca la sua partita, forse quella più importante: sul piano personale, in relazione all’affaire Montecarlo; sul piano politico tratteggiando il solco lungo il quale a suo dire bisogna camminare d’ora in poi. Come? Fermando una volta per tutte i veleni, concentrandosi sulle cose da fare per il Paese. Nessuna rottura, dunque, perché Fini le elezioni anticipate non le vuole, forse perché le teme. Piuttosto, il suo è un invito al Cav. a deporre le armi. Per tutto il giorno il timing del videomessaggio tiene banco nei palazzi della politica e sulle agenzie di stampa, come un metronomo che dà il tempo. E il livello dell’attesa si fa spasmodico. Previsto per la mattinata, il videomessaggio slitta di ora in ora. Le agenzie spiegano che Fini lo sta ultimando, limando, quasi come fosse ‘il discorso della montagna’. In realtà, ogni parola viene ‘pesata’ specie dopo le dichiarazioni del ministro di Santa Lucia e dell’avvocato-ex senatore leghista Ellaro il quale dice che chi ha comprato quell’appartamento è un suo facoltoso cliente, non Giancarlo Tulliani. Poi alle 19,20 finalmente su Youtube compare Fini che racconta la sua verità. Sulla casa di Montecarlo dice, tra l'altro, che l’11 luglio 2008 “la casa è stata venduta alla società Printemps segnalatami da Giancarlo Tulliani” e ammette con una sorta di candore disarmante che lui non sa chi è il vero proprietario. E che se “dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la presidenza della Camera. Non per personali responsabilità – che non ci sono – bensì perché la mia etica pubblica me lo imporrebbe”.

Passaggi scanditi con abilità dalla terza carica dello Stato, mediaticamente efficaci, ma che se si guardano in controluce, evidenziano una contraddizione di fondo. Perché trattandosi di società off-shore è alquanto difficile riuscire a stabilire con certezza assoluta chi veramente risulti il proprietario finale dell’immobile monegasco. Altro punto: Fini in sostanza ammette che l’obiezione sulle ragioni per le quali An abbia venduto un immobile a una società con sede nei paradisi fiscali è "sensata": “E’ stato scritto: ma perché venderla ad una società off shore, cioè residente a Santa Lucia, un cosiddetto paradiso fiscale? Obiezione sensata, ma a Montecarlo le off shore sono la regola e non l'eccezione”. Una giustificazione che, francamente, appare alquanto debole se non sbrigativa. Nella ricostruzione dei fatti che il presidente della Camera scandisce riportando date e cifre della vendita, si può leggere il tentativo di minimizzare la questione. Soprattutto quando afferma che si trattava di un’abitazione di piccola metratura e in condizioni quasi “fatiscenti e del tutto inutilizzabile”, riportando il tutto a fatto personale sul quale si è scatenato il putiferio trasformandolo in “un affare di Stato”. Ma la casa è stata donata al partito (An) del quale Fini è stato per decenni il leader e questo dato non può essere derubricato alla sfera privata. Tanto più che su questa vicenda c’è un’inchiesta della magistratura i cui esiti lo stesso Fini ha ripetuto più volte di attendere con serenità e fiducia.

Alla difesa segue l’accusa. Fini non cita mai direttamente Berlusconi ma in alcuni passaggi del suo discorso è possibile cogliere un riferimento. Lo si capisce ad esempio quando dopo aver spiegato la vicenda dell’appartamento dice: “E sia ben chiaro, personalmente non ho nè denaro, nè barche nè ville intestate a società off shore, a differenza di altri che hanno usato, e usano, queste società per meglio tutelare i loro patrimoni familiari o aziendali e per pagare meno tasse. Ho sbagliato? Con il senno di poi mi devo rimproverare una certa ingenuità. Ma, sia ben chiaro: non è stato commesso alcun tipo di reato, non è stato arrecato alcun danno a nessuno. E, sia ancor più chiaro, in questa vicenda non è coinvolta l'amministrazione della cosa pubblica o il denaro del contribuente. Non ci sono appalti o tangenti, non c’è corruzione né concussione". A questo si aggiunge il j’accuse contro le “tante, troppe pagine oscure” di questa storia. “Un affare privato è diventato un affare di Stato per la ossessiva campagna politico-mediatica di delegittimazione della mia persona: la campagna si è avvalsa di illazioni, insinuazioni, calunnie propalate da giornali di centrodestra e alimentate da personaggi torbidi e squalificati. Non penso ai nostri servizi di intelligence, la cui lealtà istituzionale è fuori discussione, al pari della stima che nutro nei confronti del Sottosegretario Letta e del Prefetto De Gennaro”.

Fini punta l’indice in un’altra direzione: “'Penso alla trama da film giallo di terz’ordine che ha visto spuntare su siti dominicani la lettera di un ministro di Santa Lucia, diffusa da un giornalista ecuadoregno, rilanciata in Italia da un sito di gossip a seguito delle improbabili segnalazioni di attenti lettori. Penso a faccendieri professionisti, a spasso nel Centro America da settimane (a proposito, chi paga le spese?) per trovare la prova regina della mia presunta colpa”. Non manca poi una “lezione” sulla libertà di informazione che – ripete – “è il caposaldo di una società aperta e democratica. Ma proprio per questo, giornali e televisioni non possono diventare strumenti di parte, usati non per dare notizie e fornire commenti ma per colpire a qualunque costo l’avversario politico”.

Peccato che il presidente della Camera applichi il principio (sacrosanto) solo al suo caso e non abbia invece speso una parola sulla campagna mediatico-politico scatenata da Repubblica e per tre mesi, sulle presunte amanti del premier Berlusconi. Allora no, non era il buio della democrazia, oggi evidentemente sì. Il terzo livello del videomessaggio è politico. E qui Fini non accelera, anzi frena. Niente rottura totale e definitiva col Cav. seppure i rapporti tra i due sono ai minimi storici ormai da tempo. No, Fini non chiude, ma tiene aperta la porta del dialogo dimostrando così di voler scongiurare, il più a lungo possibile, il rischio del voto anticipato. Per questo invita chi “ha irresponsabilmente alimentato questo gioco al massacro si fermi, fermiamoci tutti prima che sia troppo tardi. Fermiamoci pensando al futuro del paese”. Quindi propone la ripresa del “confronto: duro come è giusto che sia, ma civile e corretto. Gli italiani si attendano che la legislatura continui per affrontare i problemi e rendere migliore la loro vita”.

Ma anche qui il presidente della Camera non dice che se il punto cruciale è e resta la necessità di condurre la legislatura a scadenza naturale “per il bene del Paese”, qualche mese fa è stato proprio lui insieme ai suoi uomini a smontare pezzo per pezzo ciò che il governo ha fatto, mettendo a repentaglio la stabilità dell'esecutivo e la durata della legislatura.

Gianfranco Fini

La furbata delle non dimissioni di Alessandro Sallusti

Fini non si dimette, appende il suo futuro di presidente della Camera al filo della «certezza» che suo cognato sia, o sia stato, vista la facilità e velocità con cui le società offshore passano di mano, il proprietario della famosa casa di Montecarlo. Non basta che lui stesso abbia «sospetti», non serve che il ministro della Giustizia di Santa Lucia lo abbia certificato. No, a lui l’evidenza dei fatti non interessa, vuole la prova che sa non poter probabilmente esistere trattandosi di società sostanzialmente segreta. Insomma, una furbata che consegna il destino della legislatura nelle mani e nelle parole di un ragazzotto spregiudicato, il cognato Giancarlo Tulliani, che scorrazza in Ferrari per le vie del Principato. Con la mano destra il presidente lo scarica, con la sinistra se ne fa scudo, nel tentativo di salvare la poltrona, il nascente Fli e forse anche la famiglia. Politicamente, il discorso di ieri sera non cambia le pedine sullo scacchiere. Il buon senso, infatti, dice che Fini dovrebbe lasciare la carica che ricopre indipendentemente dalla soluzione del giallo Montecarlo, in quanto leader di uno schieramento politico ostile alla maggioranza che non esisteva al momento della sua elezione. Ma di questo non ne fa neppure cenno, anzi, rilancia con forza e rabbia la sfida a Berlusconi sul piano personale («io non ho avvisi di garanzia», «io non ho società offshore») senza neppure avere il coraggio di citarlo direttamente. E ci aggiunge pure un ultimatum che sa (...)

(...) di ricatto quando dice: fermiamoci tutti prima che sia troppo tardi. Tutti chi? E tardi per che cosa? È evidente che Fini vorrebbe vedere Berlusconi morto, almeno politicamente parlando. Ma non ha il coraggio di sfidarlo nell’unica arena che la politica dovrebbe darsi. Che è quella delle elezioni. Infatti allude a complotti che sarebbero organizzati dal premier in persona, ma invece che dire «adesso basta» e rompere rilancia la palla: io sto nel centrodestra, se vuoi far saltare il banco - dice in sostanza - prenditi tu, Berlusconi, la responsabilità, sapendo che il killer della legislatura pagherà qualche pegno alle urne. Nel videomessaggio non c’è una parola di politica, un segnale che qualche cosa potrebbe cambiare nell’atteggiamento ostile nei confronti del Pdl. E in questo senso è elemento di chiarezza. Semmai qualcuno sperasse ancora in una possibilità di tregua, deve ricredersi. Il prezzo che Fini pone, e che traspare anche dalle parole di ieri, è inaccettabile e così sintetizzabile: caro Pdl, dammi un po’ di tempo per capire meglio che tipo è mio cognato, nel frattempo fammi restare ancora un po’ presidente della Camera e finto alleato in modo da poterti fare più male e, se ci riesco, pure distruggerti. Se poi scopriremo che la casa è proprio del Tulliani, farò un altro videomessaggio per dire che oltre che ingenuo sono anche stato fesso. A questo punto Berlusconi deve valutare solo se in Parlamento c’è una maggioranza autonoma dai finiani, non in contrasto con le indicazioni uscite dalle urne, e poi decidere. Se c’è, si proverà ad andare avanti, altrimenti la via del voto anticipato sarà inevitabile.

Antifascisti


Se sessantacinque anni vi sembran pochi... Pochi, evidentemente, per un’equa valutazione della storia italiana recente, anche di quella più amara, com’è stata la guerra civile. C’è chi non vuole assolutamente mettere la parola fine alle lacerazioni interne, anche perché è su queste divisioni che ha campato e tutt’ora campa. Notizia recentissima: il comune di Voghera autorizza l’affissione di una targa sulle mura del castello della città in ricordo di sei cittadini vogheresi fucilati nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione. Qualcosa di strano? No, un doveroso atto di riconoscimento verso quei vinti che dopo la morte violenta sono stati misconosciuti, calunniati, condannati ad una perpetua «damnatio». Ma insorgono le prefiche dell’antifascismo in servizio permanente effettivo e gridano allo scandalo. Ugo Scagni, nato in provincia di Pavia nel 1931, storico locale della Resistenza, è il più indignato: «È una vigliaccata - strepita - dando il benestare a simili proposte si processa la Resistenza», mentre le varie associazioni (ormai formate per lo più da gente che con la Resistenza ha avuto poco a che fare, stante che i veri partigiani per ragioni anagrafiche ormai se ne sono quasi tutti andati) gli fanno il coro: «È uno scempio, uno scempio». Ma chi erano questi fascisti fucilati senza processo il 13 maggio 1945? Erano sei militari, di cui tre giovanissimi, arruolati da pochi mesi, forse non c’era stato neppure il tempo di addestrarli all’uso delle armi. Luigi Albini aveva 17 anni, Sergio Montesanto ne aveva 21. Eugenio Quarto Vannutelli ne aveva soltanto sedici. Gli altri tre - Pierino Andreoni, Giuseppe Piccinini e Arnaldo Romanzi - ne avevano rispettivamente 48, 38 e 36.

Ma quattro di loro - Albini, Andreoni, Montesanto e Vannutelli - appartenevano al 2° Battaglione di polizia più noto col nome tedesco di Sicherheitspolizei perché alla diretta dipendenza del comando tedesco. A questi uomini - come conferma Arturo Conti presidente dell’Istituto Storico della Rsi - era affidato il cosiddetto «lavoro sporco», dai rastrellamenti all’esecuzione delle fucilazioni decise dal tribunale militare. E in una zona di scontri violenti fra le forze militari italo-tedesche e le formazioni partigiane come fu la provincia pavese, è ovvio che tra le fazioni divampasse l’odio. Anche perché il reparto, prima saldamente nelle mani del colonnello Alfieri, passò, dopo la sua morte in uno scontro con i partigiani, a un colonnello Fiorentini molto meno rigoroso nel reprimere eccessi e illegalità dei suoi uomini. Ma tant’è: che si fossero resi colpevole di eccessi oppure no, sugli uomini della Sicherheits piombò la vendetta partigiana che colpì anche il milite della Gnr Piccinini e il capitano delle Brigate Nere Romanzi. Erano del luogo, ben conosciuti e forse, proprio perché sicuri della propria buona fede, non avevano neppure pensato a nascondersi, forse si erano addirittura consegnati. Quale che sia stata la storia di ciascuno di loro, è certo che una lapide in ricordo di una fucilazione forse ingiusta è ancora indigesta per tutti coloro che non vogliono deporre le armi dell’odio civile. Ma i tempi cambiano velocemente (anche se loro non se ne accorgono). Se il sindaco di Voghera, Carlo Barbieri, si difende sostenendo che la decisione era stata presa dalla giunta precedente, nella città di Arcevia, in provincia di Ancona, il comune aveva fatto togliere d’autorità dalla chiesetta di Madonna dei Monti una lapide apposta in ricordo di tredici cittadini (tutti civili, questa volta, e completamente innocenti) fucilati nel 1944 dai partigiani come spie fasciste. Ebbene, il Tar di Ancona ha annullato l’ordinanza e autorizzato l’affissione della targa. È tempo di mandare in pensione la faziosità degli irriducibili.

Criminali


Per impossessarsi dei 60 euro che aveva nel portafoglio lo hanno massacrato di botte e lasciato agonizzante in mezzo alla strada, alla Magliana. Lui, Ennio Casale, un barista romano di 63 anni che lavorava in un caffè in piazza Santa Maria Maggiore, da quel 7 settembre non si è più ripreso dal coma. Ora, per lo meno, quattro dei suoi aggressori sono stati arrestati dai carabinieri. Si tratta di quattro romeni di 22, 27, 28 e 30 anni incastrati dalla telecamera di un bar che li ha ripresi mentre si allontanavano subito dopo il pestaggio. Sono senza fissa dimora, dormivano nei vagoni dei treni, negli alberghi a Termini o nei campi nomadi e sono accusati di rapina e tentato omicidio. Ma il cerchio non è ancora chiuso. Gli investigatori stanno cercando due complici. Erano in sei, infatti, i balordi immortalati dalla telecamera di un bar di via della Magliana. Il proprietario ha visto quelle immagini sconvolgenti: «È stato un vero e proprio agguato - racconta - Erano in sei e uno di loro si vede che aveva anche un braccio ingessato. Si erano divisi, due erano dietro il barista, due lo aspettavano davanti, mentre un altro ha scavalcato una ringhiera e gli si è affiancato. Poi, dopo il pestaggio, sono andati via separatamente». È stato grazie al particolare del braccio ingessato che i carabinieri sono riusciti a risalire al gruppo di romeni. È bastata una piccola ricerca negli ospedali per individuare il primo giovane, quello di 27 anni, pregiudicato per furto. Una settimana prima dell'aggressione era stato coinvolto in una rissa e si era fatto medicare. I militari lo hanno pedinato, hanno visto chi frequentava, poi lo hanno fermato per interrogarlo. E lui ha confessato e messo gli inquirenti sulle tracce dei complici. Alcuni di loro hanno precedenti, uno è stato identificato anche grazie ai suoi numerosi tatuaggi e la corporatura tarchiata. Il proprietario del bar le cui telecamere hanno ripreso il pestaggio parla di violenza gratuita e malvagità: «Il problema - commenta - è che se commettono in Italia i reati le pene sono minori rispetto a quelle nel loro paese. Qualche anno in carcere e poi di nuovo liberi. Mi viene da dire che questi meriterebbero di essere fucilati per quanta violenza ci hanno messo. E poi per cosa? Per 40-60 euro? È assurdo».

In guerra con le occidentali?


ROMA - Hanno tentato di violentare una giovane connazionale ma lei è riuscita a fuggire e ad avvisare i carabinieri. In manette due giovani marocchini di 21 e 26 anni, entrambi pregiudicati, accusati di violenza sessuale ad Ardea, un centro a sud di Roma. E' accaduto venerdì notte quando nel complesso delle Salzare - già al centro di altri gravi episodi di cronaca da quando è divenuto rifugio di famiglie senza casa, sbandati, pregiudicati - una ragazza di 25 anni è stata aggredita.

AGGUATO SULLE SCALE - I due, approfittando del buio, si erano nascosti sotto la rampe delle scale. Atteso che la donna, loro connazionale, rincasasse da sola a piedi, l'hanno aggredita appena è entrata nell'androne del palazzo. Prima l'hanno percossa, poi hanno tentato di abusare di lei. Ma dopo alcuni minuti la ragazza è riuscita a divincolarsi e a scappare, dando l'allarme al 112. I carabinieri sono riusciti ad individuare e arrestare i due aggressori mentre la ragazza, medicata all'Ospedale di Anzio, ne avrà per una settimana.

sabato 25 settembre 2010

Stato e religione


Il mondo si commuove giustamente per Sakineh, la donna iraniana condannata alla lapidazione dal regime islamico di Teheran. Ma i casi di ordinaria crudeltà in nome dell'Islam non scuotono quasi mai le coscienze occidentali. Qualche settimana fa un giudice saudita ha chiesto a numerosi ospedali del regno se fossero in grado di menomare, danneggiare, spaccare il midollo spinale di un imputato condannato per aver attaccato un altro uomo, paralizzandolo. La pena comminata dal giudice saudita è stata l'occhio per occhio. La fonte di tale barbarie è la legge islamica, la sharia. Uno degli ospedali sauditi, a Tabuk, ha detto di sì, ma il giudice compassionevole sta ancora cercando «una struttura più specializzata per condurre l'operazione». Thomas Friedman ha scritto sul New York Times di A precious life, un documentario di un giornalista israeliano che racconta l'incredibile storia di Mohammed Abu Mustafa, un bambino palestinese di 4 mesi affetto da una rarissima malattia. Il giornalista aveva lanciato un appello alla tv israeliana per raccogliere i 55mila dollari necessari al trapianto di midollo osseo del neonato di Gaza. Un cittadino israeliano, il cui figlio è stato ucciso nella guerra contro gli arabi, ha donato la somma e il bambino è stato curato da un chirurgo che a un certo punto ha dovuto lasciare l'ospedale per andare in guerra proprio a Gaza. Raida, la madre del bambino, è stata criticata e insultata dai suoi vicini per aver accettato le cure in Israele. Invece di ignorare le ingiurie, la mamma del bimbo ha detto al documentarista di sperare che suo figlio diventi un martire, un uomo bomba, un assassino che muore suicida per conquistare Gerusalemme.

Alle Nazioni Unite Barack Obama invita al dialogo, mostra la faccia buona dell'Occidente, tende la mano al mondo musulmano, ma finora dagli ayatollah iraniani ha ricevuto un pugno serrato. Nel suo nuovo libro Faith and Power, appena uscito in America, Bernard Lewis è meno ottimista del presidente. Il 94enne Lewis è il più importante studioso occidentale di Islam, professore onorario a Princeton e autore di numerosi saggi sull'argomento. Il nuovo libro spiega l'intreccio tra fede e potere, tra religione e politica, in Medio Oriente e nel mondo islamico. Il concetto di separazione tra stato e chiesa nell'Islam non esiste, scrive Lewis. «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» è il principio chiave del pensiero e della pratica cristiana. Nel Cristianesimo ci sono due autorità, Dio e Cesare, la Chiesa e lo Stato. Nell'Islam fino a poco tempo fa non c'era distinzione tra le due istituzioni. In arabo non esistono le parole "laico" ed "ecclesiastico", "sacro" e "profano", "spirituale" e "temporale" perché, spiega Lewis, la dicotomia che esprimono, profondamente radicata nel pensiero cristiano, è rimasta sconosciuta fino a tempi relativamente recenti e ci è arrivata come prodotto di un'influenza esterna.

L'ebraismo si fonda su Mosè che ha liberato il suo popolo, ma il profeta non è riuscito a entrare nella Terra promessa. Cristo è morto sulla Croce e i suoi seguaci sono stati perseguitati per secoli fino alla conversione di un imperatore romano. Maometto, invece, profeta e fondatore dell'Islam, è morto da generale vittorioso e da capo di uno stato che in poco tempo si è trasformato in un impero. Da comandante in capo del mondo islamico, Maometto guidava eserciti, dichiarava le guerre e siglava la pace, imponeva le tasse e raccoglieva le imposte, stabiliva le leggi e le faceva applicare. Nella tradizione islamica, religione e stato sono la stessa identica cosa. Potere e fede non sono scindibili, a differenza delle altre religioni abramitiche. Il Cristianesimo è cresciuto nel momento del crollo di un impero. La Chiesa ha dovuto creare le sue istituzioni per far fronte al declino di Roma. L'Islam, invece, è prosperato come collante e base di un vasto impero fondato sui suoi principi. Nel mondo cristiano il potere di governo proviene dal popolo o, nel caso delle monarchie, dal legame dinastico. Nell'Islam arriva direttamente da Dio. Il capo di governo nel mondo islamico è anche l'autorità religiosa. Le leggi sono volontà di Dio. Rispettarle diventa un obbligo religioso. La disobbedienza è un peccato, non solo un crimine.

I fondamentalisti islamici non esistono, spiega Lewis. Il concetto di fondamentalismo è cristiano. È un concetto nato negli Stati Uniti per definire le chiese che si differenziavano dal mainstream protestante per una maggiore obbedienza alla letteralità dei testi sacri, senza la mediazione di una casta ecclesiastica. Nell'Islam su questo non c'è discussione: tutti, moderati ed estremisti, credono, praticano e accettano la divinità del testo coranico. Il Corano è la parola di Dio, è stato scritto direttamente da Maometto su dettatura di Allah. In alcuni stati islamici, come Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Yemen e Emirati, la sharia è la fonte primaria delle leggi. In altri paesi musulmani è vietato approvare leggi contrarie ai principi fondamentali dell'Islam. In Iran, una bambina di 9 anni può essere data in sposa. Nove anni. Non è stupro, perché è l'età di Aisha quando sposò il cinquantenne Maometto. Il paradosso è che tra tutte le civiltà non occidentali, dice Lewis, il mondo musulmano è quello che offre le migliori prospettive per l'affermazione di una società libera e democratica di modello occidentale. Storicamente, culturalmente e religiosamente, scrive lo studioso, l'Islam condivide molti elementi con la tradizione giudaico-cristiana e greco-romana alla base della civiltà occidentale. Ma dal punto di visto politico, le prospettive liberaldemocratiche non sono incoraggianti, visto che dei 47 paesi della Conferenza islamica internazionale soltanto la Turchia, a fatica, può essere definita una democrazia di tipo occidentale. «O gli portiamo la libertà o ci distruggeranno», conclude Bernard Lewis.

Stupro


Dovevano incontrarsi per parlare di un eventuale matrimonio di convenienza, poi lui l’ha fatta salire in macchina e, con la scusa di cercare un bancomat, ha raggiunto una zona boschiva dove ha consumato il terribile abuso. L’incontro tra i due è avvenuto ieri sera a Lainate, in via Cairoli. Lì si sono visti A.M. 31enne, egiziano, muratore di Milano, e M.M., 43 anni, disoccupata, di Como. Il motivo era parlare di un possibile matrimonio che avrebbe fatto comodo ad entrambi: lui ne avrebbe tratto la regolarizzazione della propria posizione in Italia, lei avrebbe avuto una casa da condividere insieme.

Nonostante ciò, però, la 43enne è giunta alla conclusione di non voler procedere e, dopo che la donna è salita a bordo dell'auto dell’egiziano e ha espresso il suo rifiuto all'accordo, l’uomo ha messo in atto il silenzioso proposito di farle violenza. Con la scusa di cercare un bancomat, infatti, ha guidato fino a recarsi nei pressi di una zona boschiva e qui, dopo essersi fermato, l'ha aggredita e costretta con la forza ad avere un rapporto sessuale. Dopo lo stupro, la vittima è riuscita ad aprire la portiera e scappare fino al centro abitato di Pregnana Milanese, dove ha chiamato i Carabinieri al 112 e ha atteso l'arrivo della pattuglia. Nonostante l’evidente stato di shock, hanno spiegato i Carabinieri, la donna è riuscita a fornire tutte le in indicazioni utili a rintracciare dell'uomo, e le indagini sono scattate immediatamente. Alle prime luci dell'alba i militari hanno quindi trovato l'egiziano: intento a dormire nella sua macchina parcheggiata in una zona campestre della via per Arluno. L'uomo è stato arrestato per il reato di violenza sessuale e tradotto presso il carcere di San Vittore.

Gianfranco Fini


Io so chi c’è dietro le carte che accusano Fini. So chi le ispira, conosco bene il mandante. Non c’entra affatto con Palazzo Chigi, i servizi segreti, il governo di Santa Lucia. È un ragazzo di quindici anni che si iscrisse alla Giovane Italia. Sognava un’Italia migliore, amava la tradizione quanto la ribellione, detestava l’arroganza dei contestatori almeno quanto la viltà dei moderati, e si sedette dalla parte del torto, per gusto aspro di libertà. Portava in piazza la bandiera tricolore, si emozionava per storie antiche e comizi infiammati, pensava che solo i maledetti potessero dire la verità. Quel ragazzo insieme ad altri coetanei fondò una sezione e ogni mese facevano la colletta per pagare tredicimila lire di affitto, più le spese di luce, acqua e attività. Si tassavano dalla loro paghetta ma era solo un acconto, erano disposti a dare la vita. Il ragazzo aveva vinto una ricca borsa di studio di ben 150mila lire all’anno e decise di spenderla tutta per comprare alla sezione un torchio e così esercitare la sua passione politica e anche di stampa. Passò giorni interi da militante, a scrivere, a stampare e diffondere volantini. E con lui i suoi inseparabili camerati, Precco, Martimeo, il Canemorto, e altri. Scuola politica di pomeriggio, volantini di sera, manifesti di notte, rischi di botte e ogni tanto pellegrinaggi in cerca di purezza con tricolori e fazzoletti al collo. Erano migliaia i ragazzi come lui. Ce ne furono alcuni che persero la vita, una trentina mi pare, ma non vuol ricordare i loro nomi; lo infastidiva il richiamo ai loro nomi nei comizi per strappare l’applauso o, peggio, alle elezioni per strappare voti. Perciò non li cita. Sa solo che uno di quei ragazzi poteva essere lui.

È lui, il ragazzo di quindici anni, il vero mandante e ispiratore delle accuse a Fini. Non rivuole indietro i soldi che spese per il torchio, per mantenere la sezione, per comprare la colla. Furono ben spesi, ne va fiero. Non rivuole nemmeno gli anni perduti che nessuno del resto può restituirgli, le passioni bruciate di quel tempo. E nemmeno chiede che gli venga riconosciuto lo spreco di pensieri, energie, parole, opere e missioni che dedicò poi negli anni a quella «visione del mondo». Le idee furono buttate al vento ma è giusto così; è al vento che le idee si devono dare. Quell’etichetta gli restò addosso per tutta la vita, e gli costò non poco, ma seppe anche costruirvi sopra qualcosa. No, non chiede indietro giorni, giornali, libri, occasioni e tanto tanto altro ancora. Però quel che non sopporta è pensare che qualcuno, dopo aver buttato a mare le sue idee e i loro testimoni, dopo aver gettato nel cesso quelle bandiere e quei sacrifici, dopo aver dimenticato facce, vite, morti, storie, culture e pensieri, possa usare quel che resta di un patrimonio di fede e passione per i porci comodi suoi e del suo clan famigliare. Capisce tutto, cambiare idee, adeguarsi al proprio tempo, abiurare, rinnegare, perfino tradire. Non giustifica, ma capisce; non rispetta, ma accetta. È la politica, bellezza. E figuratevi se pensa che dovesse restare inchiodato alla fiamma su cui pure ha campato per tanto tempo. Però quel che non gli va giù è vedere quelle paghette di ragazzi che alla politica dettero solo e non ebbero niente, quei soldi arrotolati di poveracci che li sottraevano alle loro famiglie e venivano a dirlo orgogliosi, quelle pietose collette tra gente umile e onesta, per tenere in vita sezioni, finire in quel modo. Gente che risparmiava sulla benzina della propria Seicento per dare due soldi al partito che col tempo finirono inghiottiti in una Ferrari. Gente che ha lasciato alla Buona Causa il suo appartamento. Gente che sperava di vedere un giorno trionfare l’Idea, come diceva con fede grottesca e verace. E invece, Montecarlo, i Caraibi, due, tre partiti sciolti nel nulla, gioventù dissolte nell’acido. È questo che il ragazzo non può perdonare.

Da Berlusconi il ragazzo non si aspettava nulla di eroico, e neanche da Bossi o da Casini. E nemmeno da Fini, tutto sommato. Capiva i tempi, i linguaggi e le esigenze mutate, le necessità della politica, il futuro... Poteva perfino trescare e finanziare la politica con schifose tangenti; ma giocare sulla pelle dei sogni, giocare sulla pelle dei poveri e dei ragazzini che per abitare i loro sogni si erano tolti i due soldi che avevano, no, non è accettabile. Attingere da quel salvadanaio di emarginate speranze è vergognoso; come vergognoso è lasciare col culo per terra tanta gente capace e fedele nei secoli, che ha dato l’anima al suo partito ed era ancora in attesa di uno spazio per loro, per favorire con appaltoni rapidi e milionari il suddetto clan famigliare. Lui non crede che il senso della vita sia, come dice Bocchino in un’intervista, «Cibo, sesso e viaggi» (si è scordato dei soldi). Il vero ispiratore e mandante dell’operazione è lui, quel ragazzo di quindici anni. Si chiama Marcello, ma potrebbe chiamarsi Pietrangelo o Marco. Non gl’interessa se Gianfrego debba dimettersi e andarsene all’estero, ai Caraibi o a Montecarlo, o continuare. Lo stufa questo interminabile grattaefini. È pronto a discutere le ragioni politiche, senza disprezzarle a priori. Sentiremo oggi le sue spiegazioni (ma perché un videomessaggio, non è mica Bin Laden). Però Fini non ha diritto di rubare i sogni di un ragazzo, di un vecchio, di un combattente. Non ha diritto di andarsi a svendere la loro dignità, i loro sacrifici, le loro idee. Non può sporcare quel motto di Pound che era il blasone di quei ragazzi; loro ci hanno rimesso davvero, lui ci ha guadagnato. Quel ragazzo ora chiede a Fini solo un piccolo sforzo, adattare lo slogan alla situazione reale e dire: se un uomo è disposto a svendere casa, o non vale niente la casa o non vale niente lui. E la casa valeva.