«Pronto, presidente, vuol venire a fare il presidente della Fondazione Monte dei Paschi?». Magari il sindaco renziano di Siena, Bruno Valentini, non ha usato queste parole nella telefonata con l'ex premier Romano Prodi, ma la sostanza dell'invito è tutta lì. Scontato il «No, grazie» del Professore che di prendersi un'altra patata bollente - dopo l'Iri nella stagione delle privatizzazioni - non aveva nessuna voglia. In area prodiana, tuttavia, è stato reperito il nominativo del candidato numero uno a ricoprire la guida dell'azionista di maggioranza relativa dell'istituto di credito più antico del mondo. Si tratta di Francesco Pizzetti, costituzionalista dell'Università Luiss di Roma e presidente del Garante della Privacy dal 2005 al 2012. Sia detto per inciso, è colui che cercò di inasprire le pene per la pubblicazione di dati sensibili quando il Giornale e altri quotidiani impaginarono le foto della gita sulla via Salaria a Roma (con annesso stop presso un transessuale) del portavoce del Professore, Silvio Sircana. Analogo zelo fu mostrato quando sanzionò la pubblicazione delle immagini di Villa Certosa scattate indebitamente. La questione è un'altra. Il Monte dei Paschi, con la gestione del presidente Alessandro Profumo e dell'amministratore delegato Fabrizio Viola, sta cercando di voltare pagina, dopo le tribolazioni di Antonveneta, che al contribuente italiano sono costate 4 miliardi di euro. L'acquisizione pagata cara (10,1 miliardi) ha affossato la redditività della banca che, negli anni scorsi, per continuare a distribuire un dividendo all'azionista di maggioranza ha stipulato i derivati Alexandria e Santorini subendo perdite potenziali per oltre 700 milioni.
È il combinato disposto del vecchio «sistema-Siena», certificato anche dai verbali di interrogatorio del presidente uscente dell'ente Gabriello Mancini: il partito e il Comune nominano la maggioranza dei componenti della Fondazione che controlla la banca che finanzia il territorio. Da quando è arrivato Alessandro Profumo, le cose sono un po' cambiate. Non foss'altro perché oggi l'ente detiene solo il 33% della banca e, dopo l'aumento di capitale da realizzare entro il 2015 per restituire in parte i Monti-bond, potrebbe scendere verso il 20 per cento. A questo si aggiungono le moral suasion di Bankitalia (che ha imposto l'allentamento dei vincoli col Monte) e del Tesoro che ha caldeggiato il cambiamento di statuto della Fondazione. Ora il Comune di Siena può nominare solo 4 consiglieri su 14 e il suo ruolo, pur preponderante, non è più maggioritario. Eppure da quando Bruno Valentini, seguace di Matteo Renzi, si è insediato a Piazza del Campo la sua battaglia è stata il ripristino dello status quo ante. Lo si può notare nelle 4 nomine per la Fondazione: un ex segretario nazionale Cisl già consigliere di Unipol, un esponente della Legacoop e due professionisti senesi. Il mantra dei «renziani» è mantenere il rapporto organico tra il Monte e il territorio senese. Magari anche quello di cercare di evitare nuovi esuberi nella banca che è nel mirino dell'Ue proprio per l'«aiutino» ricevuto con i Monti-bond. Certo, proprio ieri il premier Enrico Letta e il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, hanno ribadito che la Commissione ha commesso «un errore di valutazione» nel giudicare insufficienti le misure adottate. Mps, tuttavia, è la banca di una città governata da un Pd a volte «eretico» nei confronti di Roma. Non a caso, i piddini senesi «osservanti» contestano al sindaco renziano di aver gestito in proprio le designazioni (inclusa la telefonata a Prodi). I renziani, dal canto loro, controbattono agli avversari di essersi fatti «teleguidare» da D'Alema & C. nella scelta di Profumo. La lotta delle contrade, però, stavolta rischia di nuocere al Monte e anche al Paese.
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