Le notizie di stampa sulla vicenda Banca delle Marche, piuttosto numerose in questa prima metà di agosto, dicono molto su come la partitocrazia trasforma, in una regione italiana, la democrazia in una oligarchia di comitati di affari che gestiscono come propria la cosa pubblica e, quel che è forse ancora più grave, condizionano potentemente l'economia locale, sottraendo risorse alla collettività e creando privilegi e rendite di posizione, disegnando un nuovo feudalesimo. La premessa è che le Marche sono una regione italiana laboriosissima, con il più alto tasso di iniziativa imprenditoriale d'Italia; si aggiunga una tradizionale tendenza a non confliggere con il potere costituito, retaggio forse di secoli di dominio della Curia romana, per cui all'autorità vigente è meglio sottomettersi, purché in cambio si possa lavorare; un'area nella quale, fin dagli anni Sessanta, si è affermato il celebratissimo "modello adriatico", imperniato su di un tessuto di piccole imprese a bassissima conflittualità sociale, con elevata capacità di innovazione ed attenzione alla qualità; una regione infine che, trent'anni fa, uno studio Fininvest considerava la regione italiana con maggiore accumulo di risparmio. Su questo tessuto si è instaurato un sistema partitico immobile, nel quale persino la ventata di Mani Pulite ha semplicemente accentuato un trasformismo capace di perpetuare una classe dirigente di professionisti della politica, saldamente alimentata da un clientelismo omnipervasivo, che però è sempre riuscito ad evitare scandali di grosse proporzioni, garantendo una pluridecennale, assoluta stabilità degli equilibri politici.
Le gravissime difficoltà di Banca delle Marche, il maggiore istituto bancario della Regione, suonano quindi come un serio campanello d'allarme per questi equilibri, soprattutto perché, dietro i gravissimi dati di bilancio della banca, vengono a galla informazioni rivelatrici di come, all'ombra di un narcotizzante immobilismo politico, gruppi affaristici ben radicati nel malgoverno del Paese abbiano potuto operare tranquillamente a danno dell'economia reale, vale a dire del lavoro delle imprese e dei cittadini. Il sistema dei partiti comincia a rendersi perfettamente conto del pericolo che la crisi di Banca delle Marche rappresenta per la propria continuità di potere: lo dimostra, come ultimo esempio, la quasi esilarante intervista di un esponente dell'establishment marchigiano, nonché senatore della Repubblica, il quale commenta come segue gli ultimi eventi: "Banca Marche ha quasi una funzione sociale nella nostra regione, mi verrebbe da dire istituzionale. Questo significa che i comportamenti debbono essere adeguati. Quindi adesso bisogna comprendere bene ciò che è successo durante la gestione passata. Bisogna capire bene dove sono stati commessi gli errori e perseguire i responsabili. Parlare genericamente di "politica" non ha senso, non aiuta a individuare le responsabilità" (1). La linea adottata è dunque ben chiara: evitare ad ogni costo il naturale collegamento con il potere politico locale. Anche se subito dopo il senatore è costretto a toccare la questione, ovviamente e del tutto politica, delle Fondazioni bancarie che anche qui, dal 1994, rappresentano la stanza dei bottoni di Banca delle Marche, dato che controllano il 55% del pacchetto azionario globale e tutte le nomine dei vertici dell'istituto. Per cui sorge spontanea la domanda: ma non è allora invece proprio "politica" la principale responsabilità di quanto accaduto, o lasciato accadere? Vogliamo essere ancora più precisi: non è responsabilità specifica dei partiti che hanno espresso i vertici delle Fondazioni quello che è accaduto o che si è lasciato accadere?
A questo punto, la tattica dell'establishment è chiamare in soccorso, come già avvenuto a livello nazionale, i cosiddetti "tecnici", in questo caso un accademico di chiara fama che, a suo dire, è stato richiesto di intervenire per iscritto addirittura dal presidente della Regione. Un accademico che, per di più, è ora presente anche nel consiglio di amministrazione della Banca delle Marche: situazione del resto molto frequente nel sistema italiano, in cui evidentemente non ci si pone il problema dell'opportunità del fatto che chi, con ogni garanzia di indipendenza, dovrebbe fare ricerca e analisi scientifica sia invece allo stesso tempo fra gli amministratori di aziende su cui quella ricerca e quell'analisi dovrebbero concentrarsi, nel solo interesse di verità e scienza. L'accademico di turno se la cava benissimo, del resto, con un'analisi che anche in questo caso farebbe sorridere, se non venisse da un esimio docente universitario: la Banca delle Marche va male perché tutte le banche italiane vanno male. Sì, è vero che Banca delle Marche ha un risultato peggiorativo di ben 6,5 volte superiore al previsto, rispetto ad una media dell'1,5 a livello nazionale, ma ciò dipende senza dubbio da una sfortunata serie di fattori negativi. "Le esorbitanti perdite su crediti vanno interpretate - aggiunge il professore - come una profonda azione di risanamento che ha creato le premesse per la messa in sicurezza e il rilancio consistente e sostenibile di BM. Lo slogan che mi viene alla mente è "non gettare via il bambino con l'acqua sporca". Questa azione di pulizia e di selezione tra ciò che non ha funzionato e ciò che funziona va vista in prospettiva con fiducia e sostegno da parte di tutti i portatori di interessi della banca. Vanno opportunamente vagliate le responsabilità di ciò che non ha funzionato, ma sapendole circoscrivere entro i precisi confini di ciò che è individuabile lasciando eventualmente questo compito alle sedi competenti" (2). Anche in questo caso, ci si limita quindi ad un filosofico "chi ha dato ha dato, chi ha avuto avuto", senza che l'impulso alla conoscenza ed alla verità ponga altri problemi allo studioso: l'essenziale è circoscrivere il problema e confortare la pubblica opinione sull'eccellenza del sistema. Né più né meno del senatore poc'anzi citato. Da un docente di economia politica avremmo sperato qualche approfondimento in più, per esempio, su quali siano le ragioni di un -75% sulla raccolta dalla clientela large corporate, che ha comportato una riduzione di 679 milioni di euro di fatturato; sulle ragioni e sugli effetti di una strategia di credito che concentra il 48,3% dell'accordato sul 3,5% dei clienti; su quale sia la relazione fra le cosiddette "rettifiche di valore per il rischio creditizio", con cui a bilancio si giustifica l'enorme perdita di esercizio, e le singolari vicende che stanno arrivando agli onori della cronaca. Vicende che hanno portato, a quanto pare, in un crescendo rossiniano, ad una serie di esposti da parte della nuova direzione di Banca delle Marche nei confronti di ben sedici società e gruppi, primari clienti dell'istituto, esposti scaturiti, così dice cautamente la stampa locale, in relazione a "presunte anomalie riscontrate nel sistema di istruttoria, erogazione, gestione e controllo del credito ed all'analisi delle eventuali responsabilità dei precedenti dirigenti apicali della banca".
In soldoni anche i non-professori possono capire che la perdita di 526 milioni (in realtà di oltre 650 milioni, contando anche l'azzeramento dell'utile della gestione 2011) così determinatasi è, in qualche modo e misura, in relazione con una condotta non propriamente trasparente ed illuminata da parte della banca. Condotta che, anche solo stando alle indiscrezioni su talune operazioni dell'ex direttore generale Massimo Bianconi riprese dalla stampa nazionale, è stata originata ai massimi livelli della banca. Per tacere di tutta una serie di presenze non propriamente qualificate negli organi direttivi, delle quali un pesante intervento di Bankitalia del settembre 2012, oltre a somministrare una severa multa, ha chiesto l'immediata sostituzione. Rispetto a tutto questo, ci sembra quindi davvero difficile pensare che "la politica" possa chiamarsene fuori, semplicemente facendo appello ai tecnici; così come che i tecnici possano semplicemente appellarsi alla crisi generalizzata del sistema bancario mondiale, in una catena di scaricabarile che non fa onore né ai politici di lungo corso né agli accademici di alto bordo. Troppo facile per la "politica" chiamarsi fuori anche dalle altre conseguenze, di carattere più ampio, per esempio in termini di effetti sul patrimonio delle tre fondazioni bancarie (Pesaro, Macerata, Fano), patrimonio che, come sappiamo, è di interesse collettivo - dato che è stato costruito con più di cento anni del lavoro dei cittadini marchigiani: un patrimonio la cui amministrazione è da tempo affidata proprio al sistema politico, vale a dire al sistema dei partiti. La perdita in questione, infatti, eguaglia quasi i 687 milioni di euro di valore delle quote azionarie delle tre fondazioni che detengono la maggioranza del capitale della banca: un dato abbastanza impressionante.
Ma non basta. Scopo dell'articolo del ricordato docente universitario, infatti, è lanciare un accorato appello al coraggio degli imprenditori marchigiani a seguito della nuova, urgente richiesta di capitali con cui sostenere il patrimonio di Banca delle Marche: appello che pare ad oggi non avere raggiunto nemmeno lontanamente l'ammontare deliberato col "piano industriale" approvato ai primi di agosto, che esige l'apporto di ben 300 milioni di euro entro la fine del 2013. Alla luce di quanto accaduto, quali garanzie di trasparenza, indipendenza e autonomia questa classe dirigente intende offrire a quegli imprenditori che avessero il coraggio e la determinazione di intervenire? Chi ancora, tra le imprese e i risparmiatori del territorio marchigiano, può affidare il proprio denaro ad un sistema di gestione controllato da una "politica" che ha fatto così scadente e sospetta prova di sé? Senza dimenticare il fatto che, nello stesso "piano industriale", il previsto risparmio di 120 milioni di euro di costi di funzionamento dell'istituto comporterà in pratica anche robusti tagli ai ben 3.000 dipendenti, forse cresciuti troppo rispetto a quello che la banca poteva effettivamente permettersi. Riuscirà il sistema di potere locale a far digerire alle organizzazioni sindacali, per altro abbastanza facilmente addomesticabili, i tagli al personale che dovranno sicuramente essere praticati in velocità? Sono quindi ben chiare le ragioni per cui la vicenda di Banca delle Marche è diventata negli ultimi mesi una questione strategica per la difesa del potere locale dei partiti marchigiani, per i quali rappresenta uno strumento fondamentale di quella che Michel Foucault chiamava la "microfisica del potere", vale a dire il modo con cui concretamente il potere agisce sulla gente nella vita quotidiana della comunità.
Proprio analizzando questa "microfisica", si vede bene come non sia affatto qualunquistica la generale insoddisfazione che va crescendo anche nelle Marche nei confronti del sistema di potere dei partiti: gli operatori economici che lavorano, rischiano e producono, hanno ormai chiarissima percezione del danno che quotidianamente produce la patologica commistione fra interessi economici e amministrazione politica che caratterizza il sistema partitocratico, bene evidenziata non solo dal caso Banca delle Marche, ma anche da quelli più noti del Monte dei Paschi e dello "scandalo Ligresti", solo per citare i più recenti. Sarebbe un serio problema per la sclerotizzata classe dirigente marchigiana se la gente cominciasse a reclamare un modello di organizzazione sociale nel quale fosse impedito alle forze finanziarie di acquisire potere politico e ai partiti di influenzare in modo determinante le scelte economiche. Eppure se non si arriva a questo passo decisivo, la malattia profonda della società italiana continuerà ad erodere, oltre che quelle economiche, le sue risorse più importanti e, ci si lasci dire, determinanti: la voglia di costruire non per se stessi ma per il futuro del nostro Paese.
2) Banca Marche e l'importanza di una banca del territorio, vedi:
http://www.linkiesta.it/blogs/mofir-blog/banca-marche-e-l-importanza-di-una-banca-del-territorio
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