Sessismo, discriminazione di genere e subordinazione della donna nel matrimonio, sono come il caffè reclamizzato, ma con una piccola correzione: più li mandi giù e più tornano su. Così come anche l’istinto panpenalistico e carcerocentrico del legislatore italiano, che nello stesso giorno in cui converte in legge un decreto per sfollare le galere, mandando fuori i condannati, ne vara un altro per spedirci nuovi clienti, neanche processati. Sarebbe mero folklore, se non fosse che il decreto intitolato al “femminicidio” ha tutte le caratteristiche per provocare guasti enormi. Oramai è una moda: si deve iscrivere il genere sessuale fra le caratteristiche dei cittadini. Perché serve fare norme contro il gaycidio o il femminicidio, che già l’omicidio? Se volontario e premeditato è previsto il massimo della pena. Le leggi già prevedono aggravanti relative ai futili motivi o all’approfittare di maggiore forza, come anche per le molestie e le minacce pregresse. Perché si sente il bisogno di specificare il sesso di vittime e carnefici? Forse perché esistono casi come quello di Corazzini, assassino condannato a dieci anni in primo grado e a sei in secondo, poi graziato dal presidente della Repubblica, quindi nuovamente assassino del padre. Ma Corazzini, saggiamente, ammazza vecchi maschi, mica giovani donne o simpatici omosessuali. Nella conferenza stampa Enrico Letta e Angelino Alfano hanno segnato la linea che è poi stata ripresa da tutti i giornali, spiegando le nuove norme sempre al femminile. Il testo del decreto ancora non c’è, ma immagino che non sarà in quel modo concepito. Se lo fosse violerebbe l’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale siamo tutti uguali davanti alla legge (e lasciamo perdere che il fatto stesso sia un decreto cozza con la Carta). Ma la favola era troppo bella per non affascinare troppi, sicché abbiamo tutti letto i titoli dei giornali: il marito violento sarà allontanato da casa. Molto bene, e chi mai potrebbe pensarla diversamente? Nessuno, tant’è che è già così. Per la prevenzione della violenza le norme ci sono già, solo che non c’è la giustizia e, in queste condizioni, le leggi sono solo grida manzoniane: tanto più inutili quanto più tonitruanti.
Scusate: ma se un marito arreca una lesione permanente alla moglie è più grave che se la moglie arreca una lesione permanente al marito? Se la risposta è “no”, di che stiamo parlando? E se la risposta è “sì”, che parliamo a fare? tanto siamo matti. E ora riflettete su questa perversione: nel caso di violenza è un’aggravante che a usarla sia il coniuge (immagino il decreto porterà questa formula neutra), che i giornali hanno tradotto: se a picchiare è il marito. In effetti è moralmente più grave, perché avviene all’interno di un rapporto che dovrebbe essere affettivo, ma perché si traduce in aggravante legale, posto che litigare con il coniuge è più facile e consueto che farlo con uno che non si conosce? La radice di questa aggravante la trovate in due concetti: è la donna che viene affidata al marito, passando all’altare dalle mani del padre a quelle del nuovo padrone, quindi è lei a essere doppiamente vittima, perché percossa da chi dovrebbe provvedere al suo benessere. Peccato che questa è esattamente la (detestabile) radice del sessismo. E, difatti, picchiare una donna con la quale non si convive sarà meno grave che picchiare quella che si ha a casa. Lo trovo inaccettabile, perché dovrebbe essere ugualmente grave picchiare chiunque, in quanto individuo, non in quanto parte sessuale, salvo far valere le aggravanti già esistenti, compresa quella della eventuale soggezione. L’idea che la famiglia sia un’aggravante in sé, invece, è figlia dell’idea che il matrimonio sia la forma preferibile e legislativamente santificata delle unioni. Una riaffermazione di tradizionalismo. Alla fine, come è capitato anche con la Convenzione di Istanbul, la discriminazione di genere che s’intende avversare ne esce ingigantita. Con tutti i pregiudizi e i tabù che si porta dietro.
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