Troppi pensionati e troppo pochi giovani lavoratori, il mercato del lavoro europeo rischia di andare in tilt. È il risultato di uno studio dell’International Longevity Centre (ILC), un centro di ricerca britannico specializzato in demografia. L’aumento dell’aspettativa di vita media e quindi degli anni di pensione insieme all’insufficiente forza lavoro (e contribuente) attiva potrebbe mandare in rovina le casse pubbliche di molti Paesi se non si prendono i giusti provvedimenti. Quali? Secondo il centro, la soluzione migliore è la solita: aumentare ulteriormente l’età pensionabile. Presto i contributi pagati dai lavoratori non basteranno più a pagare le pensioni di chi ha smesso di lavorare. Secondo l’International Longevity Centre si passerà quindi rapidamente a una proporzione di quattro a due lavoratori per pensionato, una situazione insostenibile soprattutto in quei paesi, come Grecia, Spagna e Italia, con la più alta percentuale di disoccupazione giovanile. Le cause principali secondo gli esperti sono l’aumento dell’aspettativa di vita dei pensionati europei e il minor incremento demografico complessivo dei 28 Paesi Ue. Viene poco presa in considerazione, invece, la crescente disoccupazione giovanile che in alcuni Paesi, come la Spagna, ha superato la fatidica soglia del 50 per cento.
Ecco che secondo gli autori dello studio, la soluzione più papabile diventa sia aumentare ulteriormente l’età pensionabile che disincentivare direttamente a livello nazionale ogni forma di uscita preventiva dal mondo del lavoro, a prescindere da quanti anni di lavoro una persona abbia sulle spalle. Ad esempio “virtuoso” vengono portati i Paesi Bassi, che dal 1993 sono riusciti ad abbattere la percentuale di “non lavoratori senior” eliminando buona parte degli incentivi alla pensione anticipata e imponendo limiti ai sussidi per disoccupazione e malattie di servizio. D’altronde nel mondo imprenditoriale anglosassone la pensione viene sempre di più vista come un problema e l’innalzamento dell’età pensionabile come un indispensabile palliativo. Insomma, “70 or bust” (70 o fallimento) come intitolava qualche mese fa la copertina dell’Economist, bibbia del liberismo economico anglosassone, che da sempre spinge a favore dei 70 anni come età minima per godere del meritato riposo dopo una vita di lavoro. Non basterebbe nemmeno un aumento dell’immigrazione extraeuropea, almeno secondo lo studio ILC. I 60 milioni di immigrati previsti per i prossimi 50 anni in Europa (0,2 per cento della popolazione totale del Vecchio Continente), ammesso che trovino tutti lavoro, costituirebbero solo una goccia nel mare. “L’Unione europea avrebbe bisogno di un’ondata immigratoria ben superiore per mantenere i suoi pensionati”, si legge nel rapporto, “almeno altri 11 milioni solo entro il 2020”.
Lo studio tratta solo in secondo piano la questione disoccupazione. Se infatti a luglio il tasso di disoccupazione nell’Eurozona è rimasto stabile al 12,1% (il quarto mese consecutivo che non cresce), quella giovanile continua a salire: 24,0% (23,9% a giugno, 23,8% a maggio). I dati sono Eurostat (ufficio statistiche dell’Ue) secondo il quale i disoccupati nei 17 paesi della moneta unica sono 19,231 milioni, con i tassi più bassi, in Austria (4,8%) e Germania (5,3%) e quelli più alti in Grecia (27,6%, dato di maggio) e Spagna (26,3%) e Italia (12%). Piaccia o meno, questa filosofia, predominante in Gran Bretagna, ha influenzato le politiche del lavoro anche di Bruxelles. Già nel 2000 il Consiglio europeo (istituzione che rappresenta i governi nazionali) aveva fissato l’obiettivo di portare dal 37 al 50 per cento la percentuale dei lavoratori attivi tra i 55 e i 64 anni. A questo proposito lo studio registra un lieve aumento dell’età media europea di pensione, da 60,1 a 61,4 anni. Insomma, l’obiettivo recondito restano i 70 anni.
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