Il problema è non aver tenuto conto della specificità del mondo della scuola, in cui l’unica unità di misura è l’anno scolastico e non quello solare. Rispetto agli altri dipendenti pubblici, infatti, i lavoratori della scuola hanno un’unica finestra di uscita previdenziale: possono andare in pensione solo tra il 31 agosto e il primo settembre, vista la necessità di non lasciare una classe a metà anno. Per questo le riforme pensionistiche hanno sempre riservato un capitolo ai dipendenti della scuola. Non quella Fornero, però, che anche per loro ha fissato il termine per la maturazione dei requisiti al 31 dicembre 2011 (fine dell’anno solare) e non al 31 agosto 2012 (fine dell’anno scolastico). La svista è stata riconosciuta più volte e da più parti. Il Partito Democratico si era fatto carico della questione, facendone addirittura uno dei punti del programma di governo per il settore scuola: “Occorre permettere il pensionamento di quanti (docenti e Ata) sono rimasti ‘impigliati’ nella riforma Fornero, in particolare sanando l’ingiustizia subìta dai lavoratori della scuola della cosiddetta quota 96”, si legge ancora nel manifesto che ha sostenuto la candidatura di Bersani. Per questo “l’esclusione dal decreto legge sulla scuola da parte di un governo capeggiato proprio dal Pd è stata una delusione enorme”, spiega Giuseppe Grasso, professore romano e membro del “direttivo quota 96″. E anche la stessa deputata democratica Ghizzoni ha parlato di “vulnus alla credibilità del Pd”. “Siamo stati sacrificati sull’altare di altre emergenze – spiegano dal direttivo -, come i docenti inidonei e gli insegnanti di sostegno. La verità è che i pensionandi fanno meno notizia di precari e disabili: la coperta era corta e il governo non ha avuto dubbi su chi scegliere”.
La questione, infatti, è fondamentalmente economica. Per mandarli in pensione servono decine di milioni, forse centinaia. Quanti, di preciso, non si sa. Perché non è chiaro neanche quale sia il numero totale dei “quotisti”: una prima stima del Miur li quantificava in 3500; ma secondo le stime attuariali fornite dall’Inps sono oltre 9mila. Una cifra che il direttivo ritiene esagerata: “Sparano alto per spaventare il governo e proteggere la riforma Fornero, che per loro è un dogma intoccabile”. Fossero veri questi numeri, però, il provvedimento a regime varrebbe almeno 200 milioni di euro. “E la copertura – aggiunge Ghizzoni – in un momento in cui tante risorse sono state drenate per la cancellazione dell’Imu, proprio non c’era”. “Adesso ci hanno assicurato che toccherà a noi”, affermano i “quota 96″. In Parlamento c’è un provvedimento ad hoc (a firma della Ghizzoni) che riprende il suo iter dopo la pausa estiva. Altre possibilità potrebbero essere degli interventi all’interno della legge che convertirà il dl Imu-Cig-esodati (come prospettato da Francesco Boccia), o della legge di stabilità. Certezze, però, non ce sono: se non quella che, in ogni caso, i pensionandi passeranno almeno un altro anno in servizio. La prima cosa da fare – suggerisce Ghizzoni – sarà un censimento preciso dei lavoratori interessati, per capire le proporzioni del provvedimento. “Noi, di certo, continueremo la nostra battaglia”, conclude Grasso. Sulla questione pende poi la spada di Damocle del giudizio della Corte costituzionale, che il 19 novembre si pronuncerà sul ricorso presentato da un insegnante. Se il verdetto sarà favorevole, governo e ministero non potranno più temporeggiare.
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