Roma – 19 settembre 2013 - Si chiama Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA) lo strumento che il governo vuole mettere in campo per combattere la povertà in Italia, anche tra gli immigrati. L’hanno presentato ieri a Roma il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Enrico Giovannini e la viceministro Cecilia Guerra. ''Non possiamo andare avanti così, la crisi non è come le altre e non sarà l'ultima, dobbiamo attrezzarci'' ha spiegato il ministro, premettendo però che ''la proposta non è immediatamente operativa, ma la apriremo al dibattito pubblico e parlamentare”. Il SIA è un contributo economico che dovrebbe permettere l’acquisto di un paniere di beni e servizi ritenuto “decorso” sulla base degli stili di vita prevalenti. Riguarderebbe solo i poveri e idealmente dovrebbe ammontare alla differenza tra le loro risorse (attestate dall’ISEE) e il livello sotto il quale, secondo la legge, si è in una situazione povertà. Essere poveri, però, non basterebbe per accedere al SIA. L’aiuto economico sarebbe infatti subordinato all’impegno, da parte dei beneficiari, a raggiungere “concreti obiettivi di inclusione sociale e lavorativa”. Come? Ad esempio partecipando a corsi di formazione e riqualificazione professionale, o impegnandosi a far frequentare la scuola ai propri figli. “Si tratta innanzitutto di consentire e richiedere, ai beneficiari, comportamenti che ci si aspetta da ogni buon cittadino” si legge nella relazione della task force di esperti presieduta da Cecilia Guerra che ha delineato la Sia.
Il Sia, che a regime dovrebbe costare allo Stato 7 miliardi l’anno, verrebbe pagato dall’Inps, magari sotto forma di una carta di debito. Toccherebbe invece ai Comuni gestire tutta la macchina, prendendo in carico i poveri e avviando i percorsi di “attivazione sociale” in collaborazione con centri per l’impiego, scuole, Asl, altre amministrazioni, associazioni di volontariato o privati. Tra i beneficiari ci sarebbero anche gli immigrati, colpiti dalla crisi economica allo stesso modo, se non in maniera più grave, degli italiani. “L’accesso alla prestazione a regime – spiega la relazione - andrebbe condizionato a un periodo minimo di residenza in Italia, non superiore a due anni. In una fase transitoria si potrebbe limitare l’accesso a quanto previsto come standard minimo dalle norme e dalla giurisprudenza comunitaria”, quindi sarebbe necessaria la cosiddetta carta di soggiorno. L’apertura ai cittadini stranieri non piace però a Renato Brunetta, capogruppo del Popolo delle Libertà alla Camera dei Deputati. “Il ministro Giovannini dovrebbe sapere che se sbagliare è umano, perseverare è diabolico. L’idea di stanziare maggiori risorse per combattere la povertà è cosa buona e giusta. Può diventare perversa se gli entitlements, come dicono gli inglesi, sono estesi anche agli immigrati. Non siamo contro i diritti. Temiamo invece – conclude l’esponente del Pdl - che queste ulteriori concessioni operino come una calamita, attirando sul territorio nazionale flussi clandestini ancora maggiori”.
Elvio Pasca
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