domenica 11 novembre 2012

Folle burocrazia

Un commento: "Solo che dopo ci piove dai mercati orientali ogni sorta di prodotto tossico senza che nessuno si sogni di verificare, controllare e mettere idonei paletti all'ingesso selvaggio di mercanzie di varia origine. Le centinaia di milioni di euro di prodotti di contrabbando che raggiungono i nostri negozi non fanno riflettere e anzi sequestrarli diventa solo una seccatura seguita a brevissimo dal dissequestro e allora fate largo alla slealissima concorrenza uccidere le aziende nostrane è un hobby di questo governo: andate pure dai cinesi a incassare tutte le gabelle che imponete."


Vuoi esportare delle sedie? Devi dichiarare che non vengano utilizzate per torturare qualcuno. Vuoi importare metalli? Devi compilare un modulo che attesti che la merce non sia venuta a contatto con peli di cane e gatto. O di foca. Non stupitevi: non sono battute di cabaret, ma la pura e cruda realtà con la quale tutti i giorni sono costretti a fare i conti gli imprenditori italiani. È la burocrazia, bellezza. Quel “gigantesco meccanismo azionato da pigmei", così descritto da Honoré de Balzac. Che, se avesse fatto i conti con quella italiana, probabilmente avrebbe reso più caustica la sua citazione. Oltre alla marea di tasse che attanagliano le piccole e medie imprese (nel 2011 il peso del fisco sulla busta paga era al 47,6%, superiore di 5,5 punti alla media dell'Eurozona), a complicare il quadro c'è tutta una serie di adempimenti burocratici che ostacolano, rallentano e aumentano i costi per le aziende nostrane. Semplici documenti, alcuni richiesti solo nel nostro Paese. Nel settore dell'import-export, i moduli da compilare possono arrivare fino a 68. E non c'è da stupirsi poi se nel 2010 il nostro paese si sia piazzato al ventesimo posto su venticinque nella classifica sul grado di complessità della burocrazia a livello internazionale.

Operazioni che in Germania o in Olanda vengono fatte con un clic – lì la digitalizzazione e l'informatizzazione dei sistemi di comunicazione non sono una chimera ma una realtà – da noi vengono fatte a mano, con carta e penna, o con l'ausilio, costoso, di dipendenti. Un esempio su tutti? Lo fornisce Paolo Federici, da più di 30 anni nel settore dei trasporti internazionali e autore di un blog (lanavedeisogni.com) in cui affronta tutte le problematiche del settore. “Per i pagamenti dei dazi doganali noi dobbiamo andare in banca, far fare un assegno circolare, prendere un’automobile, arrivare dove c’è la dogana, fare la fila, versare e consegnare gli assegni e tornare indietro. Con tutte le spese connesse: dall'autostrada, alla benzina passando per il personale utilizzato per un'operazione che in Germania e in Olanda fanno in 30 secondi al pc”, spiega Federici. Che poi aggiunge un dettaglio non trascurabile: “Dal 1991, c'è una legge che stabilisce che anche in Italia possiamo pagare i dazi doganali tramite bonifico, ma il problema è che tra Agenzia della dogana, Agenzia delle entrate e Banca d’Italia non sono riusciti a mettersi d’accordo per aprire un conto in banca”. E sono passati 21 anni...

Hai voglia a parlare di snellimento della macchina burocratica. E se si passa ad analizzare la lista delle dichiarazioni da sottoscrivere per importare ed esportare, la situazione diventa paradossale. Come dicevamo, i moduli da compilare possono arrivare a 68. C'è la scheda di trasporto, un documento che “vantiamo” di avere solo noi. C'è la dichiarazione Black list, (anche questa l'abbiamo solo noi in Italia) cioè una comunicazione da fare all’Agenzia delle entrate ogni qualvolta si effettua o si riceve un pagamento nel rapporto con un’azienda residente in uno dei circa 70 Stati che rientrano nella lista nera. “Noi esportiamo i metalli in foglia e per un carico del valore di 150 euro spedito a Malta abbiamo dovuto fare la dichiarazione black list. Ci sembra una cosa aleatoria”, denuncia Carlo Magani, componente di giunta di Confapi industria e responsabile del distretto sud est di Milano. Dal 2010, è stata estesa anche alle aziende di servizi la dichiarazione Intrastat, con la quale si elencano tutti gli acquisti e le cessioni di beni mobili e servizi. Poi c'è la dichiarazione cane-gatto, in cui si attesta che il prodotto non contiene peli di cane e/o di gatto. "Questa è la dichiarazione più richiesta. Noi importiamo merci che comportano circa 12 milioni di operazioni doganali all'anno e su circa 3milioni e mezzo dobbiamo fare la dichiarazione cane e gatto", lamenta Federici.

Oltre al cane e al gatto, c'è anche la dichiarazione sui peli di foca. Il secondo documento più richiesto. Poi ancora c'è la dichiarazione legata al nichel. Quella in cui si attesta che la merce non è stata a contatto con le bustine di muffa. Poi c'è la dual-use. In pratica, se esporti o importi sedie destinate a un bar devi dichiarare che non siano utilizzate per torturare qualcuno, se importi o esporti tubi per gas devi assicurare che non verranno usati per costruire la bomba atomica. Follie burocratiche a cui gli imprenditori si sono ormai abituati. Ma la lista non finisce qui. C'è la dichiarazione sui beni culturali, quella sulle merci che potrebbero essere utilizzate per infliggere trattamenti crudeli, quella sulle specie minacciate di estinzione, flora e fauna, quella sulle sostanze chimiche pericolose, quelle sulle sostanze che riducono lo strato di ozono e quelle sulla radioattività (dopo Fukushima). Solo per citarne alcune. Oltre il danno, c'è poi la beffa. Perché mentre in Germania e in Olanda e in altri paesi Ue hanno realizzato lo sportello unico per compilare tutti questi moduli, da noi ci sono diversi uffici che hanno orari e sedi differenti. “Dobbiamo ogni volta andare in 5-6 uffici per fare una operazione e per avere altrettanti documenti”, tuona Federici, aggiungendo come tutto questo comporti ulteriori costi relativi al personale e alle spese di compilazione. In Italia, al momento di unico c'è solo il paradosso.

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