Mentre la commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama votava gli emendamenti al ddl che cambierà la Carta, in aula è passata un po’ in sordina un’altra “grande riforma”. Quella della cooperazione internazionale per lo sviluppo, oggi regolata da una legge del 1987 che da almeno dieci anni la politica promette di rinnovare in tempi rapidi. Ora sembra sia la volta buona, con un testo che cambia nome e connotati al ministero degli Esteri e affida programmazione e gestione delle iniziative di cooperazione a una nuova Agenzia ad hoc. Lo scatto in avanti e l’impalcatura della riforma piacciono alle organizzazioni non governative e agli altri soggetti non profit che lavorano nei Paesi in via di sviluppo, in alcuni casi beneficiando dei contributi della Farnesina. Non tutto però li convince. E ora che il ddl passa in commissione Esteri della Camera (per approdare in aula forse prima della fine dell’estate) chiedono alcune correzioni di rotta, senza le quali si rischia di confondere i ruoli e aprire la strada ad abusi. Punto primo: ben venga l’istituzionalizzazione del ruolo delle imprese private, come accade a livello internazionale. Ma solo se rispettano standard precisi e con l’obiettivo finale di creare lavoro e sviluppo. Non certo per sfruttare opportunità di promozione commerciale o delocalizzare la produzione. Secondo: il testo non prevede che le organizzazioni senza fini di lucro possano proporre in maniera autonoma progetti e iniziative di cooperazione. Un’anomalia che va eliminata, sostengono ong, onlus e cooperative, perché chi lavora in un Paese da anni conosce esigenze e priorità più di qualsiasi “esperto” di stanza a Roma. Ecco le principali novità della riforma e i punti critici.
Corsia preferenziale per aziende e banche - I “soggetti con finalità di lucro”, cioè imprese ma anche istituti bancari, diventano a tutti gli effetti soggetti della cooperazione. Su questo spinge del resto anche la Commissione Ue, firmataria di una comunicazione ad hoc sul “rafforzamento del settore privato” in queste attività. Idea che il governo Renzi ha abbracciato con entusiasmo, mettendola in cima alle priorità del semestre italiano di presidenza del Consiglio Ue nel campo della cooperazione. Non per niente il 15 luglio a Firenze, a margine della riunione informale dei ministri europei competenti, si terrà un convegno sul tema aperto a ong e imprese. Ma in che cosa consiste il ruolo dei privati? L’articolo 27 spiega che l’Italia promuove la loro “più ampia partecipazione” alle “procedure di evidenza pubblica (gare) dei contratti per la realizzazione di iniziative di sviluppo finanziate dalla cooperazione allo sviluppo nonché da Paesi partner, Unione europea, organismi internazionali, banche di sviluppo e fondi internazionali che ricevono finanziamenti dalla cooperazione”. Non solo: una quota del fondo rotativo previsto dalla legge per sostenere le iniziative di cooperazione sarà destinata alla concessione di “crediti agevolati” per costituire imprese a capitale misto (joint venture) con società di Paesi partner.
Relazioni pericolose tra aiuto e promozione economica - E i paletti sono davvero pochi: le aziende devono “aderire agli standard comunemente adottati sulla responsabilità sociale e alle clausole ambientali” e “rispettare le norme sui diritti umani per gli investimenti internazionali”. Ci mancherebbe, viene da dire. “Sono favorevole al fatto che il mondo economico si mobiliti per affrontare i problemi dello sviluppo”, commenta Gianfranco Cattai, presidente della Focsiv, federazione degli organismi di volontariato internazionale, “ma ho qualche dubbio sul come. Il focus dev’essere sulla creazione di lavoro, non sull’internazionalizzazione dell’impresa. Altrimenti ovviamente saranno privilegiati i Paesi con economie più forti, mentre nessuno andrà a fare joint venture in Burkina Faso. In più, l’attuale ddl introduce per i soggetti con fini di lucro addirittura una corsia preferenziale: da parte loro “è promossa la più ampia partecipazione”, mentre per ong e onlus c’è scritto solo che “l’Agenzia può concedere contributi”. Mentre Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid, teme soprattutto “il cosiddetto “aiuto legato”, cioè condizionato all’acquisto di beni o servizi dal donatore”. Pratica finora largamente diffusa e istituzionalizzata. Anche nella forma del finanziamento per opere e infrastrutture condizionato al fatto che ad aggiudicarsi la gara sia un’impresa italiana. “Questo è sostegno all’internazionalizzazione, non cooperazione. Lo faccia il ministero dello Sviluppo”. In più, “non possiamo permetterci di lasciare margini di incertezza sui criteri che i privati devono rispettare per qualificarsi come attori della cooperazione: occorre inserire riferimenti ai principi internazionali sull’uso efficace delle risorse, al Global compact delle Nazioni Unite e alle norme Ocse sulla responsabilità sociale delle imprese”.
La nuova Agenzia e il rischio carrozzone - La legge ribattezza il Mae “ministero degli Esteri e della Cooperazione” (Maeci) e prevede l’obbligo di nominare un viceministro delegato a seguire la materia. L’altra faccia della medaglia, però, è che l’attuale Direzione generale cooperazione allo sviluppo della Farnesina viene svuotata sopprimendo “non meno di sei strutture di livello dirigenziale”. Perché a gestire le politiche di cooperazione, dall’istruttoria dei progetti ai controlli, sarà una nuova Agenzia, con un organico fino a 200 dipendenti (trasferiti dal ministero) tra Roma e le sedi estere, autonomia di bilancio e un direttore di “documentata esperienza”, esterno alla diplomazia ma nominato dalla politica. Evidente il rischio carrozzone, solo parzialmente compensato dal fatto che le risorse rimarranno invariate rispetto a quelle oggi previste dal bilancio del Mae. Cioè 231 milioni complessivi, in forte recupero rispetto agli 86 del 2012 ma ben lontano dal picco di oltre 700 milioni raggiunto nel 2008. A questo vanno aggiunti gli stanziamenti previsti da altri ministeri ma destinati anche in parte al finanziamento di politiche di cooperazione. “La legge stabilisce che dovranno essere tutti elencati in un allegato allo stato di previsione della spesa del Maeci”, chiarisce Nino Sergi, presidente dell’organizzazione umanitaria Intersos. Si spera che la novità basti a evitare che l’esistenza di fondi per lo sviluppo nelle pieghe dei bilanci ministeriali emerga solo allo scoppiare degli scandali. Come quello relativo ai fondi per opere di protezione ambientale in Iraq che ha portato all’arresto dell’ex ministro Corrado Clini.
Per ong e società civile nessun diritto di iniziativa – Per quanto riguarda il mondo non profit, sono riconosciuti come “soggetti della cooperazione” le ong, le onlus, le organizzazioni del commercio equo e solidale, le comunità di cittadini immigrati che sostengono lo sviluppo del Paese di origine e le cooperative e imprese sociali. Oggi è il Mae a selezionare le “ong idonee” e i progetti da finanziare, con procedure che due anni fa sono finite nel mirino della Corte dei conti per “una serie complessa di disfunzioni” tra cui l’assenza di procedure concorsuali (poi superata) e gli insufficienti controlli contabili. In futuro sarà invece l’Agenzia a tenere e aggiornare un nuovo elenco di organizzazioni che potranno avere accesso a contributi ed essere incaricate di realizzare iniziative di cooperazione. “Ma con il passaggio dalla vecchia alla nuova legge le ong, ora riconosciute come onlus, perderebbero la qualifica e le relative agevolazioni fiscali, come la deducibilità dei contributi e delle donazioni”, spiega Silvia Stilli, direttore di Arci cultura e sviluppo e portavoce dell’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Aoi). “Insomma: risulterebbero penalizzate rispetto alle organizzazioni non specializzate nella cooperazione”. Anche Cattai è convinto che occorra ripensare quel comma. Ma per il numero uno della Focsiv c’è un aspetto ancora più critico: “Non è previsto che le organizzazioni iscritte nell’albo possano in maniera autonoma proporre progetti di sviluppo”. Insomma: addio diritto di iniziativa. L’unica via per ricevere finanziamenti rimarrebbe quella di “essere scelti” dall’Agenzia.
Il tavolo consultivo: una volta non basta – Un ridimensionamento che fa il paio con la debolezza del Consiglio nazionale per la cooperazione. Cioè il nuovo tavolo consultivo chiamato a dire la sua sulla coerenza delle scelte politiche, le strategie, le linee di indirizzo, la programmazione, le forme di intervento e soprattutto la loro valutazione. Ora la legge ne prevede la riunione una volta all’anno, un po’ poco per poter davvero influenzare le scelte politiche. Soprattutto se si considera che “programmazione e coordinamento” di tutte le attività sono demandate a un ulteriore organismo, il nascituro Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo presieduto dal premier. “Per questo chiediamo che il Consiglio possa anche autoconvocarsi su richiesta di un terzo dei suoi membri”, spiega Nino Sergi. Che promette anche battaglia perché nel testo siano inseriti meccanismi robusti di valutazione ex post dei progetti. “Al Senato era passato un emendamento che prevedeva l’intervento, in quella fase, di soggetti esterni indipendenti. Poi è stato cancellato, penso per questioni di budget. Non è un buon motivo”.
Le parole sono importanti – Tutto il mondo non profit, infine, è concorde su un’ultima criticità: non si deve più parlare di “aiuto pubblico allo sviluppo”. Si chiama cooperazione. Non è solo questione di correttezza politica, si tratta di prendere atto che non parliamo di “beneficenza” ma di attività che sono parte integrante della politica estera e si basano su un rapporto alla pari tra Paesi partner.
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