Sorrisi, strette di mano e pose fotogeniche, meglio di così non poteva andare, almeno all’apparenza, il primo incontro da premier di Matteo Renzi con Angela Merkel. Non c’è stata nessuna provocazione, come aveva azzardato il quotidiano Die Welt alla vigilia. Nessuna prova di forza per ottenere il permesso a fare qualche debito in più per finanziare il programma anti-crisi. Non c’è stato bisogno di incrociare le armi perché Angela Merkel desse il via libera alle misure sin qui annunciate da Renzi, incluso il famoso taglio dell’Irpef per i redditi inferiori a 25000 euro lordi che fa ottanta euro in più al mese in busta paga. Dieci miliardi in più sui conti dello Stato (7 se si conta quel che resta dell’anno) che in teoria avrebbero dovuto far saltare su tutte le furie l’alleata. E invece niente. Angela Merkel non ha fatto una piega. Nessuno però ignora – men che mai la cancelliera – che la promessa di Renzi di chiudere il 2014 con un deficit al di sotto del fatidico tre per cento del Pil è un azzardo. La scommessa si gioca sulla speranza che il prodotto interno cresca quel tanto necessario a far scendere in termini percentuali il deficit. Difficile. L’effetto espansivo della riduzione delle tasse potrebbe essere molto più modesto del previsto. La spending review e i tagli alla spesa pubblica possono neutralizzare i benefici sulla domanda interna. E’ come se, momentaneamente, Angela Merkel avesse deciso di relegare ai margini quella dottrina dell’austerità, della quale è stata sinora la più intransigente paladina. Sarà un caso – o forse no – ma la cancelliera ha preferito mettere l’accento sulla riforma del mercato del lavoro. Al di là delle formali rassicurazioni a rispettare il patto di stabilità, la vera natura dell’accordo raggiunto a Berlino consiste in quello che l’economista Emiliano Brancaccio ha definito uno scambio tra un po’ meno di austerità e un po’ più di precarietà del lavoro. Da un lato, la velata disponibilità della Germania a tollerare, eventualmente, qualche punto decimale in più di deficit a fine anno; dall’altro, l’impegno dell’Italia a riformare il mercato del lavoro – nella segreta speranza che precarizzazione faccia rima con crescita. “La Germania sa bene per propria esperienza che occorre il fiato lungo per cambiare il mercato del lavoro”. Sottinteso: l’Italia segua la stessa strada dei tedeschi.
AGENDA 2010
La riforma oggi lodata da Angela Merkel, in realtà, ha visto la luce per opera del suo avversario politico e precedessore, il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder. Fu il governo di quest’ultimo, nel lontano 2002, a istituire una commissione per riformare il mercato del lavoro. Alla sua guida Schroeder mise uno dei suoi più influenti consiglieri personali, l’ex manager della Volkswagen Peter Hartz. Il quarto e ultimo stadio della legge (da cui il nome “Hartz IV”) è entrato in vigore nel 2005, come parte di un più complessivo ridisegno del welfare tedesco, la cosiddetta Agenda 2010. Le misure principali sono due. La prima è la limitazione del vecchio sussidio di disoccupazione a un massimo di due anni, trascorsi i quali subentra un contributo mensile di circa 480 euro (Arbeitslosengeld II), vincolato però all’obbligo di accettare qualsiasi lavoro venga offerto dalle agenzie di collocamento (i jobcenter), anche qualora l’impiego non corrisponda alla professionalità del lavoratore. La seconda consiste nell’aver istituzionalizzato le tipologie flessibili di contratto, a part-time, stagionali o a tempo determinato. Ma a far deflagrare il mercato del lavoro sono stati i cosiddetti minijob, contratti atipici a costo zero sul piano fiscale per gli imprenditori e con retribuzioni non superiori ai 480 euro mensili. Gli unici contributi previsti sono il minimo indispensabile da versare nelle casse della previdenza sociale, a carico dello Stato.
IL BILANCIO DELLA RIFORMA
Un regalo per le imprese tedesche, che possono disporre di un esercito di manodopera a basso costo e senza vincoli giuridici, da impiegare soprattutto in occupazioni a medio-bassa qualifica. Di fatto, un aiuto di Stato alla propria impresa nazionale. Il successo delle esportazioni tedesche e soprattutto la bilancia commerciale in attivo è, in gran parte, da ricondurre a questa disponibilità di manodopera, oltre che alla solidità di un sistema industriale e di apprendistato mai smantellato. Le statistiche ufficiali ci dicono che oggi la Germania ha un tasso di disoccupazione del 6,9 per cento, che dovrebbe salire al 7,3 nell’anno in corso – comunque tra i più bassi in Europa. Quello che i sostenitori della riforma Hartz IV definiscono il Jobwunder, il miracolo tedesco dei posti di lavoro, si traduce nella cifra di 41,8 milioni di occupati nel 2013, un numero in crescita per il settimo anno consecutivo, 0,6 % in più rispetto a quello precedente. E per il 2014 gli esperti prevedono un nuovo record. I critici della riforma, però, fanno notare che all’aumento di posti non corrisponde una crescita economica. Nel 2013 il Pil tedesco è avanzato solo dello 0,4 %. Il segno che la creazione di nuovi posti di lavoro non è l’effetto della crescita economica, come comunemente s’intende, ma della semplice redistribuzione del lavoro che già c’era. Il volume complessivo di lavoro cresce infatti in misura molto ridotta, mentre la media di tempo lavorato per singolo occupato è in realtà scesa. Questo significa che dove in passato c’erano rapporti lavorativi a tempo pieno, oggi invece aumenta il lavoro precario e a part-time. La prova inequivocabile è la diffusione dei minijob che ormai riguardano all’incirca sette milioni e mezzo di tedeschi, quasi un quarto di tutti gli occupati. Per una parte di loro (2,7 milioni) si tratta di arrotondare lo stipendio. Per gli altri è pura sopravvivenza. Un “minijobber”, in un anno, può maturare al massimo una pensione di 4,45 euro al mese. La Germania oggi è spaccata in due: da un lato, gli occupati che godono di retribuzioni alte, pensioni e assistenza sanitaria di qualità; dall’altro, una fascia di lavoro precario e bassi salari che non può neppure partecipare al gettito fiscale del paese.
IL MERKELLISMO E LA CRISI DELLA SPD
La riforma si è tramutata in un boomerang per il partito che l’ha varata e in un beneficio politico per Angela Merkel. La Spd ha pagato un duro prezzo. Non solo per le divisioni interne e la spaccatura con i sindacati – tradizionalmente una roccaforte della socialdemocrazia tedesca – ma anche in termini di frantumazione del proprio elettorato e di voti persi. Il punto più basso, i socialdemocratici, l’hanno toccato nelle elezioni del 2009: appena il 23 per cento rispetto al 34,2 del 2005 e al 38,5 del 2002. Alle ultime elezioni per il Bundestag nel settembre scorso, nonostante abbia tentato di recuperare un’anima più “keynesiana”, la Spd si è fermata al 25,7. E, se non bastasse, alla sua sinistra è cresciuta la concorrenza della Linke, oggi il terzo partito tedesco con l’8,6 per cento e, non a caso, principale – se non unica – formazione a opporsi frontalmente alla riforma Hartz IV. Sull’altro versante, la Spd si è vista sovrastare dal fenomeno Merkel, alla quale gli stessi socialdemocratici hanno fornito la principale arma di stabilità di governo. La natura stessa del “merkellismo” poggia sugli effetti materiali della riforma: sul fronte esterno, la competitività e la conquista dei mercati; sul fronte interno, un modello di conservazione fondato sulla pacificazione sociale, sulla difesa del Paese dalla crisi mondiale in cambio di maggiore precarietà del lavoro e su misure politiche venate di socialdemocrazia, indirizzate a gruppi sociali specifici, come gli aiuti alle famiglie o le pensioni per le mamme. Un modello di conservatorismo sociale che Matteo Renzi si appresta ora ad applicare all’Italia in circostanze politiche analoghe. In Germania sono stati i socialdemocratici a farsi carico di attuare una riforma rivelatasi congeniale al campo politico avversario, col risultato di minare il proprio radicamento sociale. Da noi, con il Jobs Act e l’introduzione del contratto a termine di tre anni, potrebbe ripetersi la stessa storia. Il Pd rischia di immolarsi nell’illusione di poter conquistare e mantenere il potere ricorrendo alle armi dell’avversario.
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