venerdì 21 dicembre 2012

Magistratura italiana


Milano - É un Babbo Natale un po' più generoso del solito quello arrivato in questi giorni per un piccolo esercito di magistrati milanesi. A una lunga lista di toghe - 204, per l'esattezza - una sentenza del Tar della Lombardia ha riconosciuto il diritto a vedersi risarcire, ovviamente «con rivalutazione ed interessi», il danno ingiustamente patito nel corso degli ultimi due anni, da quando un provvedimento del governo Berlusconi diede una sforbiciata alle loro retribuzioni e a quelle dei manager pubblici. Tutti stipendi, quelli dei 204 magistrati milanesi, sopra i novantamila euro all'anno, e per questo ricaduti - chi più chi meno - sotto la scure del decreto Tremonti. Dalla categoria si erano alzate proteste veementi. Tranne qualche voce isolata (una per tutti l'ex procuratore Francesco Saverio Borrelli, che aveva invitato i colleghi a fare la loro parte di sacrifici) il decreto era stato accusato dal popolo in toga di costituire un attacco alla sua indipendenza, oltre a violare l'uguaglianze dei cittadini. Il provvedimento prevedeva che tutti gli stipendi pubblici superiori ai 90mila euro vedessero un taglio del 5 per cento nella parte tra i 90mila e i 150mila euro, e del 10 per cento nella parte sopra i 150mila. Il 30 luglio 2010 il provvedimento era stato approvato dalle Camere. Ma i magistrati non si erano arresi. A Milano, una class action contro l'iniqua sanzione aveva raccolto l'adesione della maggioranza delle toghe milanesi.

Nell'elenco dei 204 che firmarono il ricorso al Tar compaiono i nomi di quasi tutti i protagonisti delle cronache giudiziarie di questi anni, tanto che si fa prima probabilmente a dire chi non c'è: tra i pochi vip del Palazzaccio che non hanno firmato il ricorso ci sono il procuratore Edmondo Bruti Liberati, i suoi vice Piero Forno, Ilda Boccassini e Alfredo Robledo, la presidente del tribunale Livia Pomodoro. Per il resto ci sono quasi tutti: dal giudice del Lodo Mondadori Raimondo Mesiano al procuratore aggiunto Armando Spataro, al giudice del caso «Ruby» Giulia Turri, all'ex giudice del caso Mills Nicoletta Gandus. E poi giudici, pubblici ministeri, presidenti di sezione, consiglieri di corte d'appello, esponenti delle correnti di sinistra, di centro e di destra del sindacalismo di categoria. Tutti concordi nel chiedere al Tar «il riconoscimento del diritto dei ricorrenti a ricevere le proprie decurtazioni di cui al comma 2 dell'articolo 9» eccetera. Investito della spinosa questione, il Tar della Lombardia aveva girato la palla alla Corte costituzionale, ventilando l'illegittimità del decreto tagliastipendi. E il 10 ottobre scorso la Consulta ha fatto propri questi dubbi, azzerando l'articolo incriminato della legge. Il decreto Berlusconi-Tremonti viene marchiato come un sacrificio «irragionevolmente esteso nel tempo» e «irrazionalmente ripartito tra diverse categorie di cittadini» perché colpisce solo i superstipendi pubblici ma non quelli privati. Inoltre il decreto viene giudicato lesivo dell'autonomia e della indipendenza della magistratura: l'aumento automatico degli stipendi, sostiene la Corte costituzionale, è una garanzia della libertà dei magistrati: che se dovessero dipendere dalla generosità del potere politico finirebbero per essere condizionabili. È un argomento, a ben vedere, un po' pessimista sul vigore morale dei magistrati; ma tant'è.

A stretto giro di posta, dopo la sentenza della Consulta, è arrivata nei giorni scorsi la decisione del Tar della Lombardia: «Il ricorso va accolto, attesa l'illegittimità delle trattenute effettuate sugli stipendi dei ricorrenti (...) Per l'effetto, l'amministrazione va condannata alla restituzione delle predette differenze stipendiali illegittimamente non corrisposte». E insieme alle tredicesime sono arrivati gli arretrati: intorno ai seimila euro per i magistrati di media anzianità, e a salire per i colleghi più esperti. Si compiace Luca Mastrantonio dell'assoluzione di Busi querelato da Veronica Lario che avrebbe manifestato la sua insofferenza «per corna o tradimenti o minorenni ecc...» e non avrebbe mai detto nulla sul fatto che a casa Berlusconi c'era un tale Mangano. Lo stalliere pluriomicida e mafioso di vaglia che stava lì e che probabilmente ha preso in braccio i suoi bambini. «Allora io mi sarei svegliata, magari vent'anni prima». Che Veronica Lario dovesse sapere che il signor Vittorio Mangano, che lavorò ad Arcore dal 1973 al 1975, fosse un pluriomicida per avere ucciso due persone nel gennaio del 1995, è una pretesa singolare di Busi che presuppone che Veronica Lario manifesti preventiva indignazione prevedendo il futuro. Ed è sorprendente che di fronte a una così evidente enormità il Tribunale di Monza assolva Busi. Luca Mastrantonio commenta, euforico: «Il diritto di critica, dunque, è salvo. E l'ipocrisia, in Italia, ha un velo in meno». Non sta nella pelle Luca Mastrantonio a ridicolizzare «il fronte che da sinistra a destra aveva trasformato Veronica Lario, moglie tradita, madre affranta, in una eroina dell'antiberlusconismo (Walter Veltroni voleva arruolarla...). Lidia Ravera, senza tema del ridicolo, dall'Unità, invitava Veronica Lario a licenziare Berlusconi». Finalmente Busi ha ristabilito la verità!

Peccato che nel '75 Veronica Lario avesse 19 anni e abbia conosciuto Berlusconi soltanto nel 1980, andando a vivere con lui in via Rovani a Milano, non ad Arcore. Ne consegue che non abbia mai visto né conosciuto Mangano. E quindi non si possa essere lamentata, come pretende Busi, che a casa Berlusconi ci fosse lo «stalliere pluriomicida», ancora non rivelatosi tale. Né possa avergli consentito di prendere in braccio i bambini non ancora nati. La pretesa di Busi è dunque insensata, contrapponendo indignazioni impossibili a corna reali. Evidentemente, con buona pace di Luca Mastrantonio, in Italia non c'è solo il diritto di critica, ma anche il diritto di idiozia. Con questo diritto la Busi può affermare la sua superiorità morale su Veronica. Ma Mastrantonio, che l'ammira, non avendo mai letto Giambattista Vico («Verum ipsum factum») è imperdonabile.

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Sempre più incredibile appare non quello che afferma Antonio Ingroia - che, prima di annunciare la sua probabile candidatura, invia dal Guatemala una lettera a Pier Luigi Bersani, augurandogli e augurandosi la vittoria per contrastare «una vecchia e nefasta conoscenza degli italiani, Silvio Berlusconi, artefice del disastro economico-finanziario, politico-istitituzionale ed etico-morale (sic) in cui è precipitato il Paese» - ma la mancanza di reazione del mondo politico che è stato ed è vicino a Silvio Berlusconi. Ingroia è lo stesso che ha dichiarato che «Forza Italia è stato un partito voluto dalla mafia». Io ho reagito e ho provocato reazioni, ma mi chiedo: il segretario del partito, che predilige attaccare Dell'Utri, e il presidente della Commissione Antimafia, possono accettare queste costruzioni senza reagire? Non mi aspetto nulla da Alfano, ma voglio ricordare che il presidente della Commissione Antimafia è Giuseppe Pisanu, uno degli uomini più vicini a Dell'Utri e uno dei fondatori di Forza Italia. È vero che apprendiamo che Pisanu lascia Berlusconi e va con Monti, ma fino a oggi e negli anni passati può accettare, lui presidente dell'Antimafia, di esser sostanzialmente considerato colluso con la mafia? Anch'io, a maggior titolo di Ingoia, posso dire: «Io so». E so quali erano i rapporti di dipendenza di Pisanu da Berlusconi; che tutti i ruoli politici, da Pisanu pretesi, li ha ottenuti grazie a Berlusconi; che lo ho visto in numerose occasioni, soprattutto nei giorni delle candidature, in rapporti strettissimi con Dell'Utri; e che non capisco come egli possa accettare che il suo partito, per più di 18 anni, sia considerato espressione della mafia. Lui non era una comparsa, una velina, un miracolato: è stato uno dei fondatori. Oggi, se accetta il teorema di Ingroia, può assumere il ruolo di pentito. Dando senso all'organo che presiede.

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Sono assolutamente certo della buona fede del grande Capitano del Palermo Calcio, Fabrizio Miccoli, ancora una volta trascinato nel maleodorante vaniloquio sulle frequentazioni, consapevoli o inconsapevoli, con parenti di mafiosi. Qualunque chiamata in responsabilità di Miccoli impone, a maggior ragione, un severo riferimento, morale e giudiziario, al non inconsapevole rapporto del dottor Antonio Ingroia e del Procuratore di Marsala Alberto Di Pisa, con Michele Aiello (ritenuto dai magistrati «prestanome» di Bernardo Provenzano), dal quale entrambi hanno avuto utilità materiali in dimostrati lavori nelle loro abitazioni, senza che fino ad oggi i due magistrati abbiano chiarito, pubblicamente, perché proprio Michele Aiello fosse in rapporti di confidenza con loro. Non soltanto è evidente lo stringente parallelo con le vicende del Capitano Miccoli (che, peraltro, non è magistrato), ma, per l'evidente anomalia, si potrebbe configurare per i due magistrati l'ipotesi di concussione. Inutile dire che nel caso del Capitano Miccoli la semplice frequentazione con il figlio di un presunto mafioso ha a che fare con il tifo, la stima (che deve essere consentito avere anche ai figli di presunti mafiosi) per un grande sportivo, il quale non ha ragione di ricusare manifestazioni di ammirazione e amicizia sportiva.

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