lunedì 26 aprile 2010

Il comune non conta


L’hanno intitolata a Maria, la madre di Gesù Cristo, venerata anche nell’Islam, in quanto madre di un «profeta figlio di padre ignoto». Sarà la moschea più grande di Milano, quella di cascina Gobba. Senza minareto e senza cupola, per ora. Ma con tutto quel che serve per accogliere, già in questi giorni, centinaia di fedeli musulmani. Migliaia, finiti i lavori in corso.

Tappeti persiani e lampadari circolari con gocce di cristallo, microfoni e altoparlanti per farsi sentire anche dai fedeli in fondo alla sala maggiore, lavandini e rubinetti per lavarsi le mani e purificare il corpo prima della preghiera. Tutto come nelle moschee del resto del mondo. Anche le proteste dei vicini di casa sono improbabili: l’unico palazzo a portata di mano è una piccola cascina abitata da immigrati islamici. Per il resto solo prati e strade, cavi dell’alta tensione e binari ferroviari.

È qui, a Cascina Gobba, al numero civico 366 di via Padova, duecento metri in linea d’aria dall’ospedale San Raffaele e pochi minuti a piedi dalla fermata del metrò, che è in corso di ristrutturazione una ex palazzina dell’Enel acquistata nel 2005 con il milione e centomila euro delle offerte raccolte negli anni dai fedeli che frequentano la Casa della cultura islamica di via Padova 144.

La struttura coperta misura 1200 metri quadrati circa, fra la grande sala della preghiera del venerdì — che già ora è usata anche se i lavori sono ancora in corso — una sala più piccola per il rito quotidiano, oltre a uffici, sale riunioni e altre stanze che serviranno per una biblioteca e aule per corsi vari, tra cui quello settimanale con circa 40 iscritti italiani neoconvertiti. Tutto attorno, altri mille metri quadrati di terreno edificabile che, per ora, resterà a prato.

Già da tempo, qui, all’ora di pranzo di ogni venerdì pregano in direzione della Mecca centinaia di fedeli. Per ora, nessuna protesta del quartiere e nessuna presa di posizione da parte delle autorità, anche se le forze dell’ordine sono ben a conoscenza di quanto succede nel cantiere della nuova moschea. A causa di questa costruzione, però, sono ormai arrivati alle vie legali i dirigenti della Casa della cultura islamica, ritenuta da sempre l’ala dialogante e moderata dell’islam milanese, benvista dalla Curia e anche dal Comune.

L’attuale gruppo dirigente, fra cui l’architetto giordano Asfa Mahomoud — premiato a dicembre dal sindaco con l’Ambrogino d’Oro — non condivide la scelta degli altri soci che hanno voluto iniziare la ristrutturazione dell’edificio. Per questo ha denunciato alla magistratura gli altri fondatori dell’associazione, fra cui lo storico presidente, il chirurgo siriano Mohamed Ghrewati Baha’El Din. Ma gli “scissionisti” di via Padova 144 non si sono spaventati e hanno proseguito per la loro strada.

«Siamo stufi di aspettare un via libera dal Comune che non arriva mai. Noi abbiamo comprato lo stabile con i nostri fondi e in modo totalmente legale. Abbiamo anche presentato al Comune un progetto per edificare sul terreno un nuovo edificio da destinare a moschea» spiega l’odontoiatra siriano Mohamed Maher Kabakebbji, a Milano da 40 anni, ormai cittadino italiano (così come la moglie e i sette figli), presidente di Al Waqf Al Islam, l’ente che gestisce la nuova struttura.

In effetti tutti in Comune sanno da anni del progetto in stallo per la nuova moschea a Cascina Gobba, un piano da un milione e 400mila euro di investimenti totalmente autofinanziati dalla comunità islamica più affidabile e conosciuta a Milano, che da sempre, non avendo locali idonei alla preghiera, è costretta a dirottare i fedeli sulle palestre di via Iseo e via Cambini. L’Ambrogino d’oro Mahomoud ha scelto la linea “legalitaria” e attende fiducioso che la trattativa col Comune si sblocchi.

Diversamente, gli altri soci hanno deciso di passare all’azione: «Il nostro progetto edilizio è stato respinto, noi crediamo per motivi politici, ma questo è un dettaglio spiega Ghrewati Non avendo la licenza di costruire, ci limitiamo a semplicemente a ristrutturare e di mettere a norma l’edificio di nostra proprietà. Tutto alla luce del sole e nel rispetto della legge: facciamo i sermoni in italiano, che è la lingua dei nostri figli, e il nostro imam, Tchina, è lo stesso che per anni ha guidato la preghiera nella Casa della cultura islamica».

1 commenti:

Maria Luisa ha detto...

//non c'entra con Fini: ma devo dirla a tuttihttp://www3.varesenews.it/varese/articolo.php?id=171486